Antonio Giolitti: novanta ma non li dimostra

Di Giorgio Ruffolo Lunedì 03 Gennaio 2005 02:00 Stampa

Il più grande torto che si potrebbe fare ad Antonio Giolitti in occasione del felice compimento del suo novantesimo anno sarebbe di celebrarne le sue personali, indiscutibili virtù. Una grande parte della profonda amicizia che nutro per lui, insieme a tanti suoi e miei affettuosi amici, sta non nella sua «modestia» – aggettivo che non gli si addice affatto – ma nella schiva ripugnanza verso ogni forma di pathos dimostrativo e retorico. La cosa più ragionevole che si può fare è leggerlo (e rileggerlo), nella grande varietà, profondità e rigore della sua opera.

 

Il più grande torto che si potrebbe fare ad Antonio Giolitti in occasione del felice compimento del suo novantesimo anno sarebbe di celebrarne le sue personali, indiscutibili virtù. Una grande parte della profonda amicizia che nutro per lui, insieme a tanti suoi e miei affettuosi amici, sta non nella sua «modestia» – aggettivo che non gli si addice affatto – ma nella schiva ripugnanza verso ogni forma di pathos dimostrativo e retorico. La cosa più ragionevole che si può fare è leggerlo (e rileggerlo), nella grande varietà, profondità e rigore della sua opera.

Questo contributo si limiterà a una succinta «guida alla lettura» di uno dei suoi scritti più significativi, «Il socialismo possibile»,1 sebbene questo non sia che uno tra molti altri, altrettanto importanti, tra i più recenti il più avvincente «Lettere a Marta».2

«Il socialismo possibile» è un libro smilzo ma essenziale su temi cruciali e tuttora attualissimi del suo pensiero, così inestricabilmente connesso con la sua azione politica.

Pensiero e azione politica: è il primo punto che voglio toccare di questa riflessione. Ho sentito talvolta, con divertito orrore, tributare ammirazione convinta per qualche personaggio definito icasticamente come «vera bestia politica», supponendo che si voglia intendere con ciò uno che si muove sul terreno dell’azione politica per puro istinto, immediatamente, senza inutilmente disturbare i suoi tardivi neuroni. Se c’è una cosa sicura è che Antonio Giolitti non appartiene a questa classificazione linneaiana. Sebbene più volte egli sia tornato, svolgendolo criticamente, sul concetto weberiano della politica come professione, nel senso non del mestiere ma della vocazione, egli l’ha sempre intesa come una proiezione del suo pensiero: un pensiero che travalica il terreno della politica stretta per toccare interessi culturali più vasti. Egli è anzitutto un intellettuale curioso e raffinato con il quale si può conversare non solo, com’è ovvio, sugli eventi della quotidianità politica, ma di musica, di poesia, di cinema, di letteratura; e scherzare, facendosi guidare dal suo stile modellato di ironia e di arguzia. Oltre che, naturalmente, dai suoi giudizi, mai però espressi in forma perentoria, ma «ingenuamente» socratica.

Il tema su cui il suo «socialismo possibile» si apre – tornerò alla fine su questo titolo, che può essere restrittivamente malinteso – è attualissimo. Si tratta dello sfuggente significato che il termine «socialismo» assume in una società così diversa e tanto più complessa di quella nella quale esso nacque: anche allora, del resto, con significati tutt’altro che univoci. Tutte le grandi ideologie si presentano, già al loro apparire, ricche di versioni diversamente declinabili, che hanno tendenza a cristallizzarsi in ortodossie ed eresie. Se non si tiene conto del mutamento nel tempo di questi significati, si rischia di ridurre il termine a un significante vuoto, «a un’etichetta convenzionale, che ricopre a seconda dei casi la vana utopia di un generico ideale umanitario oppure la cruda realtà di una situazione in stridente contrasto con gli ideali proclamati». Tocca, dunque, a chi sia convinto che i valori fondamentali che quella parola esprime (soprattutto l’aspirazione alla riduzione delle disuguaglianze) restano perfettamente validi, indicare i contenuti del termine «attraverso una concreta definizione della sua prospettiva storica e del suo programma politico»: partendo dai fatti, comunque, continuamente aggiornati, per non correre il rischio di enunciare una prospettiva e un programma obsoleti. Ecco il necessario nesso tra ricerca e azione politica. Se quel nesso non è continuamente ristabilito si rischia di procedere su strade fuorvianti, a fari spenti. Cosa che più volte accade. Due esempi. Se si fosse restati al rapporto tra mercato e democrazia, prevalente ancora alla fine della guerra, non si sarebbe capita l’importantissima evoluzione che si stava realizzando, nel mercato, con lo sviluppo al suo interno delle grandi imprese industriali multinazionali; e nella democrazia, con la crescita dei grandi partiti di massa. E si sarebbe persa l’occasione formidabile che essa offrì alla grande stagione democratica dello Stato del benessere. Se oggi però si restasse in quel quadro concettuale, non si coglierebbe la nuova grande trasformazione in corso nel mercato capitalistico, fin dagli anni Settanta, dalla grande tecnocrazia galbraithiana all’attuale Kombinat finanziario globalizzato e cosmopolitico: con l’implicazione fondamentale del tramonto della borghesia nazionale e dell’emersione di una plutocrazia mondiale e con la conseguenza del deperimento dello Stato nazionale e dei partiti di massa, che promuovono una fatale mercatizzazione della politica.

Per quanto riguarda il quadro internazionale, naturalmente è cambiato, e non poco, dalla fine degli anni Sessanta, quando Giolitti scriveva quel suo libro. Tanto più colpisce la nitida descrizione degli orientamenti già allora in corso, ma da pochi avvertiti: l’incipiente ma già chiaro superamento dello Stato nazionale come quadro di riferimento principale dello sviluppo capitalistico; le tendenze, ancora non chiarissime, al passaggio degli Stati Uniti da una condizione di egemonia a una di dominio dell’economia internazionale; la frattura tra il Terzo mondo sottosviluppato e il gruppo dei paesi industriali avanzati, aggravata dall’implicito protezionismo di questi ultimi (la successiva globalizzazione introdurrà forti differenziazioni in questo campo, mentre le due prime tendenze non faranno che accentuarsi). E, soprattutto, l’esigenza di una ristrutturazione equilibratrice dei rapporti economici mondiali, cui l’Europa può dare, organizzandosi economicamente e politicamente, un contributo fondamentale. Un’Europa che non si limiti a una speciale attenzione verso l’area mediterranea e africana, ma che agisca da attore mondiale. È sorprendente la previsione giolittiana, in anni nei quali la potenza dell’Unione Sovietica sembrava quanto mai solida, di un progressivo sforzo dei paesi dell’Europa centrale e orientale di sfuggire alla morsa comunista, per avvicinarsi a un’Europa occidentale ormai in corso di integrazione. Ed è altrettanto chiaro e distinto il giudizio, che egli condivideva con gli europeisti di sinistra – ancora ben pochi allora – sulla necessità, per il socialismo, di trovare in quel processo europeo di integrazione la base di rilancio di una autentica azione riformatrice. Nenni avrebbe detto, se avesse colto questo aspetto: l’Europa sarà socialista o non sarà.

Giolitti affronta inoltre il tema del socialismo e l’ideologia. O meglio, la crisi dell’ideologia. Dell’ideologia marxista, s’intende, che già a quei tempi era stata praticamente abbandonata anche dai più talmudisti tra i partiti socialisti, pronti fino allora, come quello di Guy Mollet, a tutte le più infamanti commistioni con il colonialismo nazionalista, ma indignati di fronte al più moderato ritocco dei testi sacri. Purtroppo a quell’abbandono dell’ideologia non era subentrata una nuova visione delle prospettive e delle strategie socialiste di lungo periodo, ma un empirismo subalterno alle trasformazioni che intanto il capitalismo imprimeva impetuosamente nello sviluppo dell’economia e della società. Sicché al determinismo della vecchia filosofia della storia succedeva un radicalismo movimentistico e contestativo da una parte e una sostanziale subalternità al suo ormai indiscusso primato dall’altra: anticipazione della più tardiva ed esplicita adozione di una «Terza via». A questa disgraziata divaricazione Giolitti opponeva l’esigenza del passaggio dall’utopia al progetto, cioè dalla pretesa che la storia facesse il lavoro grosso, accompagnandolo con le famose riforme di struttura, considerate da alcuni (tra i quali l’amico Lombardi) in senso concretamente antagonistico, a colpi di bastone. Un progetto che si prendesse carico di inserire quelle riforme in un percorso di programmazione, assicurando in ogni momento, con il sostegno delle forze sociali progressiste e con i necessari compromessi con le forze imprenditoriali più lungimiranti – le imprese pubbliche, anzitutto – la compatibilità delle grandi variabili economiche: in modo da non suscitare contraccolpi reazionari, dei quali la sinistra sociale e politica, soprattutto, avrebbe subito le prime e più gravi conseguenze. Riforme e programmazione costituivano dunque, nella sua strategia, un unicum inderogabile. Sappiamo come sono andate le cose. Il sostegno della sinistra, soprattutto di quella comunista, dopo qualche titubanza, non c’è stato, anzi! (Quello socialista, fiacco e non convinto). Il mondo delle imprese ha reagito o furiosamente (con la Banca d’Italia alle spalle) o opportunisticamente, traendo dalla contrattazione programmatica tutta la polpa possibile dei vantaggi di breve periodo. Mentre l’amministrazione pubblica, a partire dalle roccaforti del Tesoro e della Ragioneria generale, opponeva alla programmazione la più sorda resistenza sabotatrice.

Infine, il problema del potere e della coerenza etica. La necessità, per una grande forza riformista, impegnata a incidere concretamente nel processo storico, a orientarlo politicamente, riaffermando l’etica weberiana della responsabilità, di fronte a quella disarmata della convinzione, era il grande test di questa difficilissima strategia. Nel suo «socialismo possibile» Giolitti vedeva chiaramente e denunciava senza remore diplomatiche quelle terribili difficoltà. E definiva, nel quadro di una strategia possibile, i limiti morali che anche a un realismo flessibile quelle resistenze ponevano. «Ma certo – diceva – può venire il momento in cui l’uomo che agisce secondo l’etica della responsabilità dice, a un certo punto: non posso fare diversamente. Io, da qui, non mi muovo». Quel punto Giolitti dimostrò di conoscerlo perfettamente. E di osservarlo inflessibilmente. Da ministro, quando le resistenze alla programmazione diventarono paralizzanti. Come aveva fatto da socialista democratico, quando, con i fatti ungheresi, divenne lampante (per molti lo era stato da tempo), per chiunque non fosse accecato dall’ideologia o deviato da un malinteso realismo politico, il carattere imperialistico, brutale, oppressivo e inefficiente dell’Unione Sovietica. La sua questione morale egli la pose non in modo retorico o soltanto, come Berlinguer, in modo personalmente ineccepibile. Ma come problema politico alto, inderogabile. Diciamo la verità. Non solo la famosa duplicità togliattiana, che è ancora oggetto di ammirazione da parte di tanti machiavellini di casa nostra, ma anche l’austerità di Berlinguer: quanto fu credibile, quando egli pose il problema dell’Unione Sovietica con diplomatiche, sofferte, gesuitiche circonlocuzioni sull’esaurimento della «forza propulsiva»? E non come sacrosanta indignazione ed esplicita ripulsa verso i colpi mortali che un regime infame infliggeva alla causa e all’onore del socialismo?

Del resto, quella stessa indignazione intransigente Giolitti la manifestò quando, approdato al Partito socialista, dovette assistere a quella mutazione genetica che vedeva allora rampare alla direzione di quel partito quegli intollerabili palleschi che si sono oggi mutati in nostalgici e vittimistici piagnoni; magari voltando le loro gabbane di istrioni sotto l’ala protettrice del vecchio «nemico di classe».

Giolitti, però, non è stato un dimissionario. È stato il combattente impavido della causa della giustizia e della libertà cui tutta la sua vita si è ispirata. Di quella causa restano fermi e chiarissimi il bisogno storico e l’ideale umanistico. Quegli abatini del nostro tempo, magari ex rivoluzionari, che chiudono gli occhi di fronte al mostruoso crescere dell’ingiustizia, della volgarità, dell’ignoranza, ricamando ai margini di una storia ridiventata drammatica le loro variazioni in si bemolle minore, avrebbero grande vantaggio a rileggere, se l’hanno mai letta, la sua lezione.

Partito da una ammonizione a non celebrane le virtù, mi accorgo di essere caduto in quella trappola. Perciò la smetto, chiedendogli scusa.

 

 

Bibliografia

1 A. Giolitti, Il socialismo possibile, Einaudi, Torino 1967.

2 Giolitti, Lettere a Marta, Bologna, Il Mulino, 1992.