Il dolore non necessario

Di Domenico Gioffrè e Mario Luzi Lunedì 01 Novembre 2004 02:00 Stampa

Possiamo pensare a una vita senza dolore? Non è possibile e non dovremmo neppure augurarcelo. La nostra stessa sopravvivenza sarebbe messa in serio pericolo, come lo è quella di alcune persone (per fortuna rari casi) «affette», è il caso di dire, da analgesia congenita. Malati, in altre parole, di non sentire dolore. È questa una condizione davvero pericolosa. Non saremmo avvertiti di nessuna malattia in atto o in procinto di manifestarsi tale. Non andremmo dal medico a farci visitare e curare. Incomberebbe su ciascuno di noi il rischio di perire. Ma per fortuna sentiamo dolore. E se la nostra specie si è perpetuata sino ai nostri giorni è proprio perché sentiamo dolore.

 

Possiamo pensare a una vita senza dolore? Non è possibile e non dovremmo neppure augurarcelo. La nostra stessa sopravvivenza sarebbe messa in serio pericolo, come lo è quella di alcune persone (per fortuna rari casi) «affette», è il caso di dire, da analgesia congenita. Malati, in altre parole, di non sentire dolore. È questa una condizione davvero pericolosa. Non saremmo avvertiti di nessuna malattia in atto o in procinto di manifestarsi tale. Non andremmo dal medico a farci visitare e curare. Incomberebbe su ciascuno di noi il rischio di perire. Ma per fortuna sentiamo dolore. E se la nostra specie si è perpetuata sino ai nostri giorni è proprio perché sentiamo dolore. Si tratta del dolore «sentinella », ci avverte che qualcosa non funziona nel nostro organismo. Ma non sempre è possibile riparare il danno. Le malattie non sono tutte curabili. Tante patologie degenerative ad esempio conducono a invalidità e tale condizione si accompagna frequentemente alla presenza di dolore persistente, che non ha più nessuna funzione biologica, è fine a se stesso. Anche il dolore, sempre presente nelle malattie tumorali, non ha alcun senso se non quello, come il precedente, di infliggere una pesante punizione a chi sa, tra l’altro, di non aver più tanto da vivere. Questo dolore è superfluo, deve essere eliminato. La stessa attenzione merita il dolore acuto, quello post-operatorio, che benché di durata più limitata, raggiunge intensità insopportabili e laceranti.

Questi dolori nel nostro paese non vengono adeguatamente curati. Siamo ultimi in Europa nell’impiego di farmaci oppiacei e il confronto con altri paesi del centro Africa non ci vede in una posizione di vantaggio. Possiamo affermare che siamo un paese stoico, ma non certo per scelta consapevole. Le ragioni di questa anomalia tutta italiana sono molteplici e complesse, come fenomeni complessi sono il dolore e la sofferenza che ad esso si accompagna. Già perché il dolore e la sofferenza non sono la stessa cosa. Le due parole non sono sinonimi l’una dell’altra. Il dolore è un evento fisico. Ha una componente discriminativa, fisiologica o per meglio dire neurofisiologica, strettamente legata e dipendente dalle vie di trasmissione dello stimolo doloroso al nostro sistema nervoso centrale. Ciò che manifestiamo è l’elaborazione, a voce o in silenzio, con gesti contenuti o esasperati, con stati di agitazione motoria o rimanendo immobili, con tutti questi segni insieme, nello stesso tempo o in tempi diversi. La sofferenza è la componente emozionale del dolore, cioè il suo linguaggio del quale ci serviamo per comunicare, se vogliamo, il nostro dolore. Ma in quanti modi si può comunicare il dolore attraverso il linguaggio della sofferenza? In tanti modi.

La risposta allo stimolo doloroso cambia da individuo a individuo in ragione dell’età, della cultura, dell’ambiente in cui vive, del contesto affettivo del quale si circonda, delle esperienze dolorose vissute, dei condizionamenti educativi, di quelli religiosi ecc. Ecco che la componente emozionale trasforma un evento semplice in un fenomeno complesso con chiavi di lettura diverse. È noto che le donne del Sud del nostro paese generalmente partoriscono gridando il proprio dolore senza alcuna inibizione. È una forma di comunicazione della propria sofferenza normalmente accettata e condivisa. È un messaggio che giunge a destinazione senza intermediari; che ha bisogno di essere ascoltato e compatito, nel senso di patito insieme, di condiviso. La stessa sofferenza, per renderla più sopportabile, prelude anch’essa a un lieto evento. Le donne in India partoriscono con manifestazioni dolorose appena accennate o mute, per poi riprendere subito il lavoro nei campi. Il diverso condizionamento culturale e sociale è evidente, anche se il dolore dal punto di vista fisiologico è lo stesso. Percorre le stesse vie prima di giungere al cervello, sede della mediazione e della risposta e cioè del linguaggio con cui viene espresso. Accade così che, in termini di cura, il dolore gridato può essere preso più in considerazione del dolore muto quale si riscontra frequentemente nelle persone anziane con una capacità di sopportazione-rassegnazione normalmente superiore a quella dell’età giovanile. L’introduzione del parametro «dolore» nella cartella clinica (nel nostro paese sta avvenendo con molto ritardo) dovrebbe riportare a un medesimo atteggiamento verso la sofferenza fisica. Il medico, l’infermiere devono chiedere al paziente se nelle ultime ore ha sentito dolore e di quale intensità. Il dato deve essere riportato nella cartella clinica, sulla quale il medico deve indicare l’analgesico da somministrare.

Ma il dolore nel nostro paese, come abbiamo detto, non viene controllato e neanche adeguatamente curato e questo per molteplici ragioni. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità: «troppo spesso i malati considerano “normale” la sofferenza fisica, un ineluttabile tributo da pagare alla malattia. E gli stessi medici sembrano poco sensibili al problema». Questo accade perché manca una formazione di base degli operatori sanitari. La cultura della «terapia» del dolore non è ancora un patrimonio comune.

A una mancanza di competenze circa la valutazione del dolore e degli approcci terapeutici si affianca una difettiva conoscenza dei meccanismi di azione degli oppioidi, spesso accusati di procurare effetti collaterali pericolosi e rischi di dipendenza. Mentre gli effetti collaterali, peraltro comuni a tanti farmaci, sono controllabili con l’assunzione di altri farmaci appositamente studiati, il rischio di dipendenza è statisticamente del tutto trascurabile e di nessun significato, per esempio, quando il dolore da combattere è quello dei malati senza via d’uscita.

I malati stessi non sanno di potere esigere di essere «curati» dal dolore, ritenendo «normale» la sofferenza anche nei casi in cui non è più possibile curare la malattia. L’impiego della morfina rimane ancora troppo legato alle cure di fine-vita e pertanto non è psicologicamente accettato da gran parte dei pazienti. Non è estranea ancora oggi la valenza di espiazione e di redenzione che conduce all’accettazione rassegnata della sofferenza fisica. Il potere consolatorio e palliativo (nel senso di pallium, mantello protettivo) ha avuto un ruolo primario in epoche in cui lenire il dolore non era ancora una conquista della scienza.

Di fronte al mistero del dolore innocente non ci sono spiegazioni, anche se in ciascun uomo non può venir meno l’esigenza di trovare un sostegno nel difficile percorso della propria vita. Per questo la filosofia e la morale hanno tentato in tutti i modi di offrire all’uomo una ragione della sua sofferenza

L’atteggiamento stoico di fronte al dolore ha radici lontane e tuttavia ancora presenti. Si pensi a riti tribali in cui il superamento di dure prove fisiche conduce alla conquista di posizioni di privilegio o di comando nei gruppi di appartenenza. L’accesso all’età adulta passa spesso attraverso ferite cruente all’interno di pratiche di iniziazione. Le mutilazioni dei genitali femminili, spesso al centro di campagne di sensibilizzazione per il rispetto dei diritti umani, non sono fuori da questi schemi antropologici della sofferenza.

Veniamo al mondo con dolore. Non è mai nato un bambino sorridente. Il parto stesso, come abbiamo già accennato, è un evento doloroso e talvolta cruento, quando non avviene per le vie naturali e l’intervento chirurgico diviene la strada obbligata. L’educazione non ha avuto un ruolo di secondo piano. Sin da piccoli ci è stato insegnato a non lamentarci e quindi a sopportare e vincere le dure prove cui ci sottopone la nostra esistenza. Magari in silenzio. Questo atteggiamento di autodominio rassicurante di fronte alle prime esperienze di sofferenza ha un indubbio valore formativo. In fondo dobbiamo prepararci ad affrontare prove ben più dure, è bene saperlo. L’esperienza precede la conoscenza. Ma la conoscenza a sua volta ci aiuta ad affrontare meglio le nuove esperienze del dolore, con maggiore consapevolezza, facendo appello a tutte le risorse fisiche e soprattutto psicologiche di cui disponiamo. Ne va di mezzo la nostra stessa vita, entità biologicamente finita. Questo senso del limite ci insegna che il nostro agire non potrà mai superare i limiti imposti dalla natura. Ma quali sono i limiti imposti dalla natura? Ecco un altro problema che investe l’intelligenza e la coscienza. Un altro dilemma crocifigge lo spirito: la natura, vista in contrapposizione dialettica con l’uomo, non è la stessa che integrata dall’uomo e dalla sua evoluzione. Dov’è dunque il discrimine tra lecito e arbitrario? Ancora una decisione sovrumana.

Spesso il medico è pervaso dall’idea dell’onnipotenza. Il progresso tecnologico di cui dispone induce a una perdita di realismo che non distingue il confine del «possibile». Questi concetti, nella loro contenuta pietà, toccano due momenti terribili. Il primo è quello della quasi sovrumana situazione del medico che decide tra vita e morte, nella estrema fase della malattia, spesso, della sofferenza. C’è un momento in cui «continuare» è per il malato un incubo, il pensiero del domani diventa angoscioso. Per di più il dolore non si placa. Il medico è chiamato come Lachesi a recidere il filo o a sostenerlo. È quello il punto esatto che lo costringe alla risoluzione estrema? Oppure è lui che rende definitivo un attimo che potrebbe essere seguito da molti altri, imprevedibili?

È tuttavia importante e nobile riuscire con la medicina ad avvicinarci a quel confine posto dalla natura stessa. Vivere la finitezza significa calibrare gli interventi sui malati tra il pessimismo che induce all’abbandono e l’accanimento terapeutico senza significato umano e clinico. Un’impresa indubbiamente ardua, non codificabile e con ampi margini di discrezionalità, che devono essere sapientemente utilizzati da chi si accosta giornalmente al capezzale del malato. Proprio perché si tratta (o dovrebbe trattarsi) di accostamento e non del rapporto professionale con una malattia, una relazione di ascolto dovrebbe cogliere e assecondare la richiesta dei bisogni insieme ai doveri delle prestazioni terapeutiche. Tra i bisogni quello di non sentire dolore occupa un posto primario per il mantenimento dell’integrità psicofisica del malato.

A chiedere di essere ascoltata non di rado è la solitudine, il senso dell’isolamento e dell’abbandono. L’insofferenza, l’incuria, lo scarso amore per il malato abbassano la soglia della sofferenza fisica e l’angoscia può aprire le porte al rifiuto di vivere. Le soluzioni estreme si affacciano non come ipotesi, ma come strade da percorrere per uscire dal tunnel della sofferenza fisica senza scampo, quando essa non è controllata e curata. Eppure i progressi della farmacologia degli ultimi venti anni consentono di ridurre il dolore in circa il 90% dei casi.

Ma il nostro sistema sanitario e quello formativo dedicano tutta la loro attenzione al prolungamento della vita, attribuendo invece scarsa attenzione alla sua qualità durante la malattia. Nelle nostre università si insegna a curare gli organi malati e non le persone malate, con tutto il complesso dei problemi che l’esperienza di malattia trascina con sé. Insomma, curare «qualcosa» e non «qualcuno».

In un articolo del 1997 su «The Lancet»1 si è affermato che la spiritualità è il «fattore dimenticato» in medicina e che si auspica che venga inserita nel curriculum degli studi in medicina. Tale proposta nasce dalla convinzione che ogni incontro con la malattia susciti nel paziente interrogativi sul significato della nuova situazione di vita in cui la cura, o meglio il «prendersi cura», deve assumere il posto della terapia. Il «prendersi cura» trascende il concetto stesso di guarigione per andare ben oltre, verso la fragilità e i suoi bisogni. Così, mentre la terapia ha una valenza sanitaria, la cura ha un significato assistenziale che sposta il piano della relazione medico-malato in favore dei bisogni di quest’ultimo. È questa la condizione per mettersi in «sintonia» con il malato e con la sua sofferenza, la cui accettazione come parte integrante di una malattia è un concetto sbagliato, perché il dolore è un «valore aggiunto» negativo e totalmente inutile. Combattere il dolore non è impresa facile quando manca un’adeguata preparazione sulla conoscenza di base della sua fisiopatologia e dei relativi provvedimenti terapeutici da adottare.

La persistenza del dolore nelle malattie incurabili non è mai stata sufficientemente oggetto di attenzione da parte del medico e dell’intero sistema sanitario. Ecco perché la lotta al dolore inutile è tutta in salita ed è lunga da combattere. Occorrono più centri di terapia antalgica, uno in ogni ospedale, se si vogliono dare maggiori opportunità di cura. I farmaci devono essere garantiti a tutti, inserendo la terapia del dolore nei livelli essenziali di assistenza. La regione Toscana e in seguito poche altre regioni hanno introdotto i farmaci per il dolore in fascia A, ossia a totale carico del servizio sanitario. Non sentire dolore non può essere anche un carico economico per chi lo soffre. Il dolore, quello severo, è spesso atroce e per ciò stesso disumano. Perché il dolore non è fatto di acqua, non disseta, ma annega, umilia, abbrutisce, trasfigura la condizione umana. Il medico di Maupassant, osservando il suo illustre paziente nelle ultime ore di vita, ebbe a esclamare: «Monsieur de Maupassant va s’animaliser», cioè: «Il signor de Maupassant sta diventando un animale». Si racconta che anche il cattolico Manzoni morì tra dolori atroci, bestemmiando e prendendo a pugni quanti erano al suo capezzale. Il dolore discrimina, distingue, lacera la carne e spoglia l’uomo, sottrae ogni senso alla sua vita. Ecco che si rende essenziale porre un limite alle sue sofferenze. «Divinum est sedare dolorem» diceva Ippocrate. E Platone, nell’ammonire i medici a prestare cura ai malati sofferenti, affermava: «I medici sarebbero veramente perfetti se fin da fanciulli, oltre che apprendere la loro arte, prendessero in cura gran numero di corpi in gravi condizioni; anzi, se essi stessi potessero contrarre ogni sorta di malattie, e non godere affatto di una sana costituzione. In effetti, io credo, non è con il corpo che i medici curano i corpi, ma con l’anima». La visione platonica è attuale. Essa traccia i contorni dell’atteggiamento del medico di fronte al dolore per capirne la sua profondità e la capacità di porvi rimedio con una considerazione integrale, offrendosi interamente. L’incontro non deve essere tra una malattia e una competenza, lasciando tutto il resto nell’anonimia e nell’amarezza della solitudine.

Con questi contenuti morali la sofferenza e la morte non sono sconfitte della professione medica, ma esperienze umane profonde in cui è possibile essere preziosi compagni di viaggio.

 

 

Bibliografia

1 J. Firshein, Spirituality in medicine gains support in the USA, in «The Lancet», 349/1997.