Una particolare posizione geografica e una via costruita con sapienza hanno consentito agli emiliani di divenire cosmopoliti senza doversi muovere, di rendere la loro regione una delle più dinamiche da un punto di vista economico, e di avere livelli di qualità della vita talmente buoni che da sempre le città e le province emiliane sono ai vertici delle classifiche stilate nel nostro paese. A rendere l’Emilia «facile» – ricorda infatti Edmondo Berselli1 – sono state in primo luogo la geografia e poi una via consolare. A rendere la Puglia una regione difficile hanno invece contribuito in tanti. L’Italia è una penisola lunga, con una spina dorsale costituita da monti e colline non semplici da attraversare. E la Puglia è in fondo. Andare dall’Adriatico al Tirreno non è mai stato un viaggio agevole. Anche la storia ha contribuito a rendere dura la vita economica, sociale e culturale della Puglia. E ancora, quando è mutata la situazione e alcuni dei vincoli geografici hanno perso d’importanza, per lo sviluppo dei trasporti e delle innovazioni tecnologiche, le condizioni geo-politiche hanno continuato a pesare negativamente. La regione adriatica infatti, come tutte le aree di confine, ha pagato certamente un prezzo alto in termini di sviluppo per la mancanza di vicini con cui intrecciare relazioni economiche. Solo collocandosi in una prospettiva di lunga durata si riescono a trovare momenti nei quali per la Puglia, così come per l’Emilia, è stato possibile essere un luogo d’incontro e di scambi. I pugliesi, contrariamente a quanto è avvenuto per gli emiliani, sono sempre stati costretti ad andare lontano per poter sopravvivere, in giro per il mondo. E non sono mai riusciti a trovare tra di loro intese, a definire ruoli e gerarchie per le città in modo da rendere possibili specializzazioni, economie di scala e quei vantaggi che si ottengono quando si riescono a mettere in campo accordi intelligenti. In tutte le partite importanti ciascun pezzo di regione ha mostrato ingordigia e ha giocato contro quello vicino. Un’abitudine in vigore (se solo si pensa al modo con cui Fitto ha governato la regione o al modo con cui Bari ha gestito la sua provincia) fino a determinare la secessione della parte nord. La Puglia è stata da sempre e continua ad essere un insieme di regioni che convivono, con un alto tasso di litigiosità. Una situazione che appare sempre più anacronistica, soprattutto alla luce degli scenari che la globalizzazione sta tracciando nel mondo.
L’identità della Puglia che conosciamo, e che ancora costituisce il nucleo centrale di un senso comune diffuso, si fonda sull’idea che essa è nel Mezzogiorno la regione che ha sempre scelto, per cultura e interessi, la «modernità italiana»; e che ambisce a diventarne parte integrante. Bari costruisce il suo primato regionale su questa ipotesi, mostrando di continuo grande disponibilità a cambiare orientamenti politici pur di poter contare su risorse in grado di produrre modernizzazione e creare lavoro. Naturalmente, una piattaforma di questo tipo ha successo quando riesce a intrecciare legami con i centri egemonici del potere politico ed economico nazionale e a trovare sponde in Taranto, Brindisi e negli altri centri urbani pugliesi.
La modernizzazione realizzata in Puglia risente certamente del fatto che la regione è stata a lungo sottoterziarizzata e che le sue città – anche quelle di una certa dimensione – svolgevano in passato poche e limitate funzioni urbane: non a caso venivano definite città-contadine. La Puglia per gran parte della sua storia moderna è stata infatti una regione con una struttura economica piuttosto elementare, che non ha sviluppato una domanda significativa di attività terziarie. Questo dato di fondo ha contato più di quanto normalmente si pensi nel definire i caratteri sia dello sviluppo pugliese, sia dell’identità che è stata a lungo egemonica nella regione. I processi di modernizzazione sviluppati altrove hanno avuto caratteristiche diverse anche perché sono stati rielaborati da ceti urbani e da classi dirigenti più robusti e smaliziati: la debolezza pugliese è stata quindi non solo quantitativa, ma anche qualitativa. Il modo del tutto acritico con cui si è praticata la modernità in Puglia e con cui si sono accettate le modalità dello sviluppo proposte dall’esterno – a cominciare dall’industrializzazione realizzata nei poli – va messo anche in rapporto a questi dati strutturali e alle forme assunte dall’identità regionale, che ha dominato per tanta parte del secolo scorso e la cui edificazione era stata avviata sul finire dell’Ottocento. A lungo in Puglia quasi nessuno ha avanzato dubbi sul fatto che l’arretratezza sia sempre e necessariamente stata il risultato della carenza di risorse e che le strategie di sviluppo si dovessero fondare sulla capacità di catturare risorse esterne; che si è o si diventa egemoni in primo luogo se si riescono a creare le condizioni politiche e sociali che consentono l’accesso e il trasferimento sul territorio regionale di questi capitali. Bari costruisce le proprie fortune su questa ipotesi e in questo modo. Si pensi al modo con cui in Puglia viene valutata e discussa la spinosa questione dell’innovazione: come un fatto meramente tecnologico e nei termini di puro e semplice trasferimento di tecnologie dai vertici dello sviluppo, soprattutto tra le classi dirigenti regionali. Ha prevalso sempre l’idea che l’elemento territoriale contasse poco e che fosse un elemento di inutile complicazione, e non un dato essenziale. Tranne alcune eccezioni, in pochi si sono domandati se i percorsi di evoluzione tecnologica, o più in generale quelli di modernizzazione avviati, fossero appropriati; intendendo per tali – per dirla con Franco Momigliano – quei sentieri di crescita che non sono imitativi, ma che tengono conto delle peculiarità dei luoghi e delle società in modo da consentire di avviare percorsi più produttivi e più stabili.
L’ultimo censimento ha fotografato un territorio che ha oggi una struttura economica e sociale molto più articolata rispetto alla preesistente, tanto sul piano economico che su quello culturale. Nello scenario creato dalla nuova Unione europea i dati statistici dicono inoltre che non siamo più in presenza di una regione arretrata, ma che in Europa la Puglia è una regione a sviluppo intermedio, dove si possiedono saperi antichi, moderni e avanzati. Un territorio nel quale lo sviluppo è legato in definitiva meno alle risorse esterne e più alla capacità di usare bene quelle che ci sono. Il futuro della regione non dipende dunque solo dall’introduzione di nuove tecnologie o dalla trasformazione in senso industriale di processi produttivi, inseguendo in forme acritiche una modernità altrui. In molti casi il successo possibile per l’insieme delle regioni pugliesi è connesso alla capacità di mettere in campo strategie che consentano il mantenimento in vita e la valorizzazione di forme artigianali di produzione e di sistemi di piccole imprese, nel cercare di essere competitivi meno dal lato dei costi e più da quello della qualità dei prodotti e dei servizi e nel cercare nuove e diverse nicchie di mercato. L’economia e la società hanno attraversato un processo di differenziazione qualitativa e, accanto a un terziario moderno e avanzato, ci sono più culture e molte più risorse di un tempo. Esistono le condizioni che consentono di ridefinire le strategie di sviluppo. A questo ripensamento del modello di sviluppo che ha dominato in Puglia siamo spinti anche dal fatto di essere entrati in una fase diversa del ciclo economico internazionale: si è e si resta competitivi solo se le capacità produttive diventano più attente alle qualità che alle quantità prodotte. Tutto ciò comporta che molte pratiche e molti punti di vista consuetudinari vanno rimessi in discussione. La nostra stessa identità va ripensata, in quanto costituisce ormai solo un ostacolo all’avvio di nuove sperimentazioni. Servono nuove idee e nuove competenze. Bisogna mobilitare risorse reali, ma anche individuare i valori capaci di generare aspettative e l’affermarsi di nuove consuetudini. L’energia individuale e sociale che esiste in Puglia – e che la vecchia identità ha contribuito a creare e a mobilitare – va salvaguardata, ma per potere restare utilmente in campo deve trovare nuovi obiettivi di sviluppo e rinnovare le proprie risorse identitarie.
Il fatto che la Puglia sia una regione di regioni costituisce in questo caso un vantaggio, perché esistono più tradizioni e risorse diverse che trovano oggi, in questa nuova situazione, uno spazio che prima non avevano. Il declino di Bari e il successo di Lecce e di altre città pugliesi, e molte delle altre novità che si sono prodotte in questi ultimi anni, devono essere lette anche in quest’ottica. Nella vita, sia per i singoli che per le collettività, è importante diventare qualcosa di diverso da quello che si è o si è stati in passato. Bisogna sforzarsi sempre di apprendere cose nuove, attraverso un processo che richiede naturalmente una costante riflessione sulle scelte fatte in passato. È necessario mantenere ferma l’idea che tutto ciò che è enorme, non solo è brutto, ma anche devastante per i luoghi e i territori della regione: l’Italsider è un’esperienza che non deve più essere ripetuta, neppure in altri settori. Anche quando si progettano porti turistici, insediamenti alberghieri, strutture per il tempo libero o nuove industrie, occorre non dimenticarsi di Taranto. Possiamo competere territorialmente, sapendo di essere stati un popolo di formiche – per riprendere Tommaso Fiore – e che possiamo diventare altro, ma mai balene o elefanti, se ragioniamo in un’ottica di medio-lungo periodo. Nel mondo degli insetti le metamorfosi sono certamente possibili, ma avvengono entro confini precisi, come ci suggerisce Paul Omerod che, partendo dal comportamento delle formiche, analizza quello delle società e delle economie. In questo senso dovremmo forse ragionevolmente lavorare per la messa in campo di risorse identitarie che siano di aiuto per delle ex-formiche che vogliono diventare altro, magari delle farfalle. Poiché non vogliamo e neppure possiamo diventare enormi, è possibile competere bene se si riesce a organizzarsi, a costruire delle reti corte o medie – e quindi interne alla Puglia o con le altre regioni e con i paesi adriatici – ma anche lunghe, con realtà lontane. Se questi nodi e queste relazioni servono per dare nuova forza ai sistemi locali che esistono e a quelli che dobbiamo necessariamente creare. Sul piano identitario dobbiamo recuperare, coltivare o creare ogni cultura che può contribuire a mantenere in vita un’idea di bellezza che esiste nel territorio, pensando – come James Hillman – che enorme è brutto e che siamo sempre stati, per cultura, incapaci di progettare e di realizzare strutture fuori misura. Quello che è un dato del nostro paesaggio e della nostra tradizione – verificabile facilmente, se solo si pensa ai sistemi urbani esistenti in Puglia, costituiti da reti di piccole città, o al modo con cui sono state modellate le campagne dal lavoro contadino – deve di nuovo essere considerato un fatto virtuoso e ridiventare senso comune tra le genti. Abbiamo bisogno di un diverso modello di sviluppo che ci consenta di rimarginare le tante ferite mostruose che oggi esistono nel territorio pugliese. Una cosa, questa, che richiede contemporaneamente sia il recupero di una memoria, sia la produzione di nuove idee e nuovi progetti. Un’identità è in declino e un’identità diversa è in costruzione. Le città e le regioni pugliesi sono di nuovo in competizione per l’egemonia. L’essere la Puglia storicamente una regione debole – un insieme di realtà economiche e culturali – costituisce, lo si è già detto, certamente un vantaggio, ma quello che accadrà dipenderà molto anche dal modo con cui si riuscirà a definire delle strategie attente alle diversità territoriali; esse dipendono molto dalle classi dirigenti e in questo contesto un ruolo importante spetta naturalmente dagli attori politici locali.
Bibliografia
1 E. Berselli, Quel gran pezzo dell’Emilia, Mondadori, Milano 2004.