In memoria di Maria de Lourdes Pintasilgo. Donna, ingegnere, primo ministro, cattolica e socialista

Di Stefano Ceccanti Mercoledì 01 Settembre 2004 02:00 Stampa

Se ne è andata improvvisamente il 10 luglio, Maria de Lourdes Pintasilgo, «Signora delle città future», come si intitolava il libro uscito quattro anni fa per i suoi settanta anni. Il libro che Maria Pintasilgo mi inviò mi stupì per la sua poliedricità (canzoni, foto, testi più o meno ampi e più o meno seri/seriosi). Effettivamente esso rifletteva la sua personalità polimorfa, come rivela la lista degli autori, che illuminano spezzoni molto diversi della sua vita: si susseguono musicisti, poeti e poetesse, una scultrice e un architetto, pittori, compositori musicali, un fotografo, operai, giornalisti, giuristi e politici, medici, vescovi (tra cui il patriarca di Lisbona Policarpo) e religiosi, teologi cattolici e protestanti, sindacalisti, ministri, ambasciatori, militari protagonisti della Rivoluzione, un ex-primo ministro (Gonçalves), il capo dello Stato in carica (Sampaio), un ex-presidente della Repubblica (Eanes), una cineasta e l’attrice Maria de Medeiros, quella che ha immortalato i «Capitani d’aprile» della Rivoluzione dei garofani sul grande schermo.

 

Se ne è andata improvvisamente il 10 luglio, Maria de Lourdes Pintasilgo, «Signora delle città future», come si intitolava il libro uscito quattro anni fa per i suoi settanta anni. Il libro che Maria Pintasilgo mi inviò mi stupì per la sua poliedricità (canzoni, foto, testi più o meno ampi e più o meno seri/seriosi). Effettivamente esso rifletteva la sua personalità polimorfa, come rivela la lista degli autori, che illuminano spezzoni molto diversi della sua vita: si susseguono musicisti, poeti e poetesse, una scultrice e un architetto, pittori, compositori musicali, un fotografo, operai, giornalisti, giuristi e politici, medici, vescovi (tra cui il patriarca di Lisbona Policarpo) e religiosi, teologi cattolici e protestanti, sindacalisti, ministri, ambasciatori, militari protagonisti della Rivoluzione, un ex-primo ministro (Gonçalves), il capo dello Stato in carica (Sampaio), un ex-presidente della Repubblica (Eanes), una cineasta e l’attrice Maria de Medeiros, quella che ha immortalato i «Capitani d’aprile» della Rivoluzione dei garofani sul grande schermo.

Come scrive il patriarca Policarpo, facendo l’elogio della capacità di costruire ponti tra le diverse identità, la generazione che in Portogallo preparò il Concilio vaticano II e poco dopo la transizione si rifiutava di rassegnarsi alla separazione causata da «frontiere insuperabili, fossero di natura ideologica, religiosa o politica» e in particolare Maria Pintasilgo, come segnala il presidente Sampaio, ricavava dalla sua esperienza internazionale la spinta a cambiare «un Portogallo piccolo, isolato, passatista, che non credeva in se stesso, governato autoritariamente, dove l’indipendenza di spirito era guardata con sfiducia e la libertà era proibita». Viene in mente la puntuale analisi di Samuel Huntington ne «La terza ondata» sul rilievo del cattolicesimo conciliare e postconciliare nell’avviare in Portogallo e Spagna l’inizio delle democratizzazioni degli anni Settanta.1

Per questo Maria Pintasilgo, dopo essere stata una delle primissime donne ingegnere chimico-industriale, presidente mondiale degli universitari cattolici di Pax Romana a fine anni Cinquanta (il movimento ispirato da Giovanni Battista Montini), divenne anche ministro degli affari sociali nei primi governi della transizione, ambasciatore all’UNESCO nella seconda metà degli anni Settanta, presidente del gruppo di lavoro del Consiglio d’Europa su «Uguaglianza e democrazia» all’inizio degli anni Novanta e presidente del «Comitato dei saggi» sull’Europa dei diritti civili e sociali a metà del medesimo decennio.

Ma soprattutto questa sua capacità di attraversare confini, costruire ponti, sommare linguaggi, le consentì di essere al tempo stesso donna e primo ministro in un’Europa del Sud mai particolarmente aperta alle donne in politica; una delle massime dirigenti dell’associazionismo cattolico nazionale e internazionale e capolista europea del Partito Socialista nel 1987, nelle elezioni con cui per la prima volta eletti portoghesi entravano a Strasburgo. Due coppie di condizioni, donna e primo ministro, cattolica e socialista (sia pure senza iscriversi), già difficili se prese separatamente, miracolose se sommate entrambe. Così come lo era stato l’essere donna e ingegnere.

Vale la pena di isolare in questa vista di «missioni impossibili» qualche breve episodio.

Sulla prima esperienza politica post-rivoluzionaria è decisamente rivelatrice la testimonianza di Vasco Gonçalves su un episodio delicatissimo: a fine settembre 1974, a neanche sei mesi dalla Rivoluzione, si stava preparando un colpo di Stato guidato dall’allora presidente della Repubblica generale Spinola, che puntava a un nuovo autoritarismo e che intendeva chiudere la parentesi democratica. Scrive Gonçalves, allora capo del governo: «Ricordo l’intervento di Pintasilgo nel consiglio dei ministri, sotto la presidenza del generale Spinola, il giorno 27 settembre 1974, alla vigilia dell’annunciata manifestazione della “maggioranza silenziosa”, promossa, ostinatamente, dall’allora presidente della Repubblica. Rispondendo alla esposizione catastrofica e minacciosa di Spinola, Maria de Lourdes Pintasilgo affermò: “Se non fossi figlia di un militare talora Vostra Eccellenza mi spaventerebbe. Dal momento che lo sono, non mi spavento”». La manifestazione non ebbe l’esito sperato da Spinola, i cui adepti tentarono anche il golpe nel successivo novembre, che fallì malamente anch’esso, così come analogo esito ebbe un anno dopo un analogo tentativo dei militari di estrema sinistra. Il Portogallo diventava una democrazia normale, grazie soprattutto a Mario Soares.

Come secondo episodio possiamo poi isolare il ritorno in politica alla guida del governo, dopo gli anni all’UNESCO, nel 1979. Pintasilgo fu inaspettatamente nominata alla guida di un governo tecnico destinato dal presidente Eanes alla gestione delle elezioni: «il governo dei cento giorni» che avviò, pur avendo a disposizione pochissimo tempo, alcune importanti riforme sociali, prontamente rimesse però in discussione dal centrodestra vincente. Eppure di quell’esperienza restò tra i portoghesi nel tempo l’impressione di una vicinanza del potere politico, di un breve recupero, all’interno della raggiunta normalità europea, dell’istanza radicale di cambiamento che si era affacciata confusamente nella Rivoluzione. Lo ha spiegato bene Maria sul giornale «Visao», ricordando pochi mesi fa il trentennale del 25 aprile portoghese: si tratta di tener ferme due consapevolezze, per un verso che «la storia non sia una sequenza lineare», elemento che ci vaccina contro forme ingenue di progressismo e di radicalismo, per altro verso che la nostra memoria si alimenta costitutivamente e positivamente della sua «contiguità spontanea con l’immaginazione», evitandoci la rassegnazione allo status quo, «la monotonia delle cose che sognamo». Una meditazione umana e cristiana sul limite e sulle possibilità dell’azione politica, che i portoghesi avevano conosciuto in quei cento giorni.

Il terzo momento che possiamo isolare fu la sua candidatura come indipendente alle elezioni presidenziali del 1986, che cercò di riattivare quella memoria: nella medesima area politica insistevano già il candidato ufficiale del PS, Mario Soares, e il candidato dissidente Francisco Salgano Zenha, che godeva dell’appoggio dei comunisti. Pintasilgo ottenne il 7,4%, senza avere nessuna organizzazione di partito alle spalle: pochi per un verso, ma decisivi perché sottratti quasi per intero a Zenha, che si fermò così al 20,9%, consentendo a Mario Soares, col suo 25,4% di andare al ballottaggio contro il candidato della destra Freitas do Amaral, che al primo turno era arrivato al 46,3%. Soares, candidato più spostato verso il centro, riuscì quindi a vincere col 51,3% al decisivo ballottaggio contro Freitas, mentre Zenha avrebbe senz’altro perso. Mario Soares e il Partito Socialista se ne ricordarono l’anno seguente, quando la chiamarono a capeggiare la lista per le prime elezioni dei rappresentanti del Portogallo al Parlamento europeo, dando così forza a una tradizione di impegno dei cattolici di centrosinistra nel PS che alcuni anni dopo sarebbe riemersa con la premiership di Antonio Guterres, attuale presidente dell’Internazionale socialista. Proprio nel periodo che intercorse tra la candidatura alle presidenziali e quella alle europee ebbi la fortuna di conoscerla quando ero presidente nazionale della FUCI: per vari giorni venne ad assistere a Lovanio nell’agosto 1986, con estrema umiltà, all’assemblea mondiale degli universitari cattolici di Pax Romana, che aveva diretto trent’anni prima. Come in Jacques Delors, di cui può essere considerata una sorta di equivalente femminile, ci accorgemmo che confluivano in lei radicalità e pragmatismo, toni profetici e cultura di governo, europeismo e apertura alla globalizzazione, appartenenza religiosa comunitaria e laicità della politica in spazi politici «misti». Una scoperta interessantissima giacché allora, almeno per noi italiani, si trattava di elementi che vedevamo spesso opporsi nel cattolicesimo politico dando vita o a un centrismo opportunistico (che la crisi della DC negli anni Ottanta evidenziava come preludio al crollo finale) o a un profetismo testimoniale (da quello conservatore del Movimento per la Vita a quelli sul versante opposto del cattolicesimo pacifista). Venne anche più volte in Italia ad alcuni incontri della FUCI, parlandoci di questa sua esperienza, che per alcuni di noi ha assunto sin da allora il valore di esempio da seguire, per conciliare «l’impegno con la memoria di ciò che sogniamo e con la memoria futura di ciò che dobbiamo sognare», una memoria vitale se è nel contempo «aperta all’intelligenza e affettiva nel cuore», come scrive sempre nel trentennale della Rivoluzione.

Per quanto una personalità così importante non meriti di essere confusa con dinamiche politiche di breve periodo, che forse le sarebbero sembrate non molto rilevanti, il suo insegnamento tuttavia non sembra essere indifferente rispetto alla proiezione europea della lista Prodi, le cui difficoltà inevitabili si sono notate nei mesi scorsi. Gli eletti si sono divisi, com’è noto, tra il gruppo socialista e quello liberale, integrato dai fuoriusciti dal PPE. È sbagliato non cogliere le novità: ora la divisione è solo tra due gruppi politici, mentre in precedenza gli eletti delle medesime forze erano spartiti tra PSE, Liberali e PPE. Un dato qualitativo e non solo meramente quantitativo. È sbagliato quindi non riconoscere il passo in avanti che è obiettivamente intervenuto. E tuttavia si pone il problema di individuare una dinamica futura che porti, sulla base dell’unità tra gli italiani, a una convergenza più forte, quello stesso itinerario che Lourdes Pintasilgo compì tra la candidatura indipendente alle presidenziali e il rinnovamento che il PS iniziò anche con la sua guida alle europee del 1987. Al momento invece assistiamo, obiettivamente, a due tentazioni autoreferenziali: per un verso il PSE, anche con l’elezione di Rasmussen in alternativa ad Amato, non riesce a cogliere l’importanza di un’apertura che lo rimetta in discussione, costruendo insieme ad altri la casa comune dei riformisti europei, su cui questa rivista, non da ora insiste con forza; per altro verso la pur importante e necessaria operazione che ha portato la Margherita a costruire una nuova forza intorno al gruppo liberale di chiara impronta federalista europea sconta alcune indubbie contraddizioni. Una minoranza sigificativa dei partiti coinvolti, a cominciare dall’UDF francese, sul piano interno fa parte di coalizioni di centrodestra né intende minimamente modificare il proprio orientamento: François Bayrou non è Delors, si presenterà al primo turno delle presidenziali del 2007 e poi confluirà sul candidato del partito chiracchiano UMP; i liberali tedeschi resteranno in coalizione con la CDU e così via. Non vi è dubbio che l’orientamento federalista del nuovo gruppo sia forte, ma il federalismo europeo e in esso il ruolo dell’Assemblea di Strasburgo possono e debbono trarre alimento decisivo da una semplificazione dei gruppi al parlamento e da una loro chiara disposizione lungo l’asse destra-sinistra, quello decisivo nei parlamenti moderni. Non si può essere per il bipolarismo a casa propria ed esservi contro a Strasburgo, anche se, com’è ovvio, l’omogeneità interna di grandi gruppi, spostandosi dal piano nazionale a quello europeo, è più relativa, simile a quella fluida dei partiti nordamericani sul piano federale. Si tratta in fondo di ripetere sull’ala sinistra dell’Assemblea quanto hanno fatto i popolari fare un parallelismo tra la rottura operata dai popolari italiani col PPE, dove non potevano più stare essendo il PPE divenuto altra cosa sull’asse destra-sinistra, con quella che i DS dovrebbero fare col PSE. Quest’ultimo ha certo bisogno, specie in alcuni paesi, di un forte rinnovamento programmatico e di superare impostazioni nazionalistiche, ma è già nel suo insieme coerente con la collocazione sull’asse destra-sinistra: del resto se nessuno sul piano interno invoca l’estromissione dall’Ulivo dei comunisti italiani non si vede perché dovrebbe costituire un problema convivere in un gruppo europeo con alcuni socialisti tradizionalisti. Anche sul rapporto tra ispirazione religiosa e scelte legislative su questioni eticamente sensibili, per i popolari della Margherita la convivenza in un gruppo europeo coi liberali, spesso marcatamente laicisti, rischia di essere ben più difficile di quella che vi sarebbe coi socialisti.

Il PSE da solo non può essere il contenitore unico del centrosinistra, né la prospettiva di unificare subito, all’inizio di questa legislatura, in un unico gruppo l’intero PSE e i non socialisti di centrosinistra (liberali, ex popolari coerenti con tale collocazione a livello nazionale) appare praticabile. Eppure occorre valorizzare da parte di entrambi sia la parte di esperienza comune condivisa, dalla lista unitaria alla nascente federazione, sia il riconoscimento del cammino compiuto: chi milita tra i socialisti deve tener conto del costo politico, personale, anche psicologico per i popolari che hanno abbandonato il PPE, essendone magari tra i soci fondatori; chi milita tra i liberali non può descrivere l’intero PSE come un insieme di socialisti arcaici, statalisti, laicisti, e così via, come se una parte di quella mescolanza tra culture diverse di centrosinistra non vi fosse già stata, in storie come quella di Maria de Lourdes Pintasilgo che non sono solo storie individuali, ma anche espressione di scelte collettive, di opzioni generazionali, ecclesiali, culturali. Il centrosinistra europeo non può consistere in un’illusoria scorciatoia nuovista che immagini di ripartire da zero: è un «non ancora» che ci interroga tutti, ma è anche una parte di storia già realizzata da alcune figure che ci interpellano anche dopo la loro scomparsa. Non perché, come scriveva Maria nel contributo già ricordato, dobbiamo fondarci su una «fedeltà fotocopiata», ma perché, di fronte agli «eventi e testi fondatori», come pure alle persone che le incarnano, la memoria si saldi all’immaginazione con cui confina.  

 

Bibliografia

1 Cfr. S.P. Huntington, La terza ondata. I processi di democratizzazione alla fine del XX secolo, Il Mulino, Bologna 1995.