Riformismo e welfare. A proposito di Ezio Vigorelli e di un «piano Beveridge italiano»

Di Mattia Granata Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

L’economista e premio Nobel Amartya Sen, introducendoun suo recente saggio incentrato sullo studio dei nessi tra libertà individuale e impegno sociale, ha efficacemente messo in luce l’esistenza dello storico conflitto sussistente tra «l’impegno sociale verso i deboli e la prudenza economica dettata dal conservatorismo finanziario». Tale conflitto: «(…) È fondamentale per la politica sociale ed economica contemporanea e (…) assume una particolare rilevanza nel dibattito politico corrente in Europa.

 

L’economista e premio Nobel Amartya Sen, introducendoun suo recente saggio incentrato sullo studio dei nessi tra libertà individuale e impegno sociale, ha efficacemente messo in luce l’esistenza dello storico conflitto sussistente tra «l’impegno sociale verso i deboli e la prudenza economica dettata dal conservatorismo finanziario».1 Tale conflitto: «(…) È fondamentale per la politica sociale ed economica contemporanea e (…) assume una particolare rilevanza nel dibattito politico corrente in Europa. Esso riguarda la tensione fra gli “obblighi pubblici” della società, da un lato, e la necessità del “rigore finanziario”, dall’altro. Gli obblighi di una società moderna verso i suoi componenti (specialmente i cittadini meno fortunati, quali i poveri, gli ammalati, gli anziani, i disoccupati) sono molteplici e importanti ma onorarli pienamente può comportare pesanti costi economici e far sorgere di conseguenza problemi di stabilità finanziaria e sostenibilità economica. Quindi coloro che propugnano un impegno sociale a vasto raggio si scontrano regolarmente con coloro che danno la priorità a un comportamento cauto e prudente in materia di finanza pubblica. (…) Tensioni di questo tipo si manifestano da lungo tempo ormai nella economia politica del mondo contemporaneo. (…) Se esempi di questo scontro fra idee possono essere trovati in diversi paesi, ciò significa che il dilemma sociale (…) è una di quelle questioni “globali”, che richiamano oggi la nostra attenzione».2

Per comprendere appieno la validità e il valore della regola generale ben evidenziata da Sen, sarebbe necessario rendere una profondità storica alla generalizzazione categoriale, in essa collocando la descrizione di alcune esperienze significative dell’evoluzione delle teorie e delle pratiche in materia assistenziale, previdenziale, sanitaria: del processo di costruzione dei moderni sistemi di welfare, insomma.

Se è vero, infatti, che «il XX secolo ha visto progressivamente venir meno l’idea che l’individuo sia il solo responsabile dei suoi mali (…) [che] l’idea di welfare state ha guadagnato terreno (…) [e che] l’adempimento di particolari obblighi civili nel campo della sanità e della sicurezza sociale è ormai accettato come imprescindibile dovere sociale»,3 ancora maggiore è l’interesse di studiare come queste idee si siano fatte strada nelle società contemporanee, diffondendosi, prima ancora che attraverso riflessioni teoriche e dibattiti, attraverso pratiche opere di governo attuate spesso per mezzo di pubbliche imprese – nella loro accezione anche di strumenti di politica amministrativa – sorgendo da esperienze concrete, dall’affrontare direttamente il problema del bisogno e dell’esclusione sociale e tentando di porvi un rimedio. L’evolversi dei settori in questione, dalla beneficenza e da concezioni di stampo caritatevole a metodi di assistenza moderni, fu lungo e tortuoso, sotto le spinte di diversi punti di vista, e di interessi contrastanti e accompagnò, di fatto, l’evolvere delle società contemporanee e le modalità che esse seppero impostare per ridistribuire le risorse che crescendo/sviluppandosi producevano, in pratica mirando ad ampliare le libertà e il diritto di cittadinanza a vantaggio di quegli strati di società che di volta in volta rischiavano l’esclusione. Nella necessità di porre soluzione a queste problematiche risiede in certa misura il senso stesso del sorgere delle forze di matrice socialista che in questo ambito hanno storicamente condotto un’opera di fondamentale importanza. «I movimenti socialisti, sorti in Europa nel XIX secolo e diffusisi in tutto il mondo, hanno tratto la loro forza dal fatto che i cambiamenti sociali ed economici possono procurare una notevole prosperità a taluni, senza che questa venga condivisa da altri».4

Alla luce di queste poche premesse e in quest’ambito teorico, va collocata e studiata l’esperienza di Ezio Vigorelli. Le vicende di questo personaggio, il suo percorso professionale e politico, costituiscono direttamente e indirettamente e per una lunga fase, un utile osservatorio per seguire l’evoluzione delle concezioni relative all’assistenza in un ambito – quello delle forze del riformismo socialista italiano nel secondo dopoguerra – che certamente si pone come un’importante voce in un dibattito complesso, il dibattito sull’assistenza intesa nel senso più allargato del termine, peraltro articolato su molteplici posizioni, ancora in larga parte da ricostruire.

Le esperienze politiche di Vigorelli e la sua attività di manager pubblico, che si svolsero principalmente nel secondo dopoguerra, affondavano le radici nella sua formazione tecnico-politica avvenuta nella Milano socialista riformista del «governo economico municipale»5 del periodo immediatamente precedente al fascismo. Egli, giovane avvocato avvicinatosi alle idee socialiste nel primo dopoguerra, consigliere comunale milanese, dopo dure aggressioni si ritirò nella propria attività professionale all’avvento del fascismo e per tutta la sua durata, prima di assumere un significativo ruolo politico durante il periodo resistenziale (fu tra l’altro ministro della giustizia durante l’esperienza della Repubblica dell’Ossola, nella quale perse entrambi i figli, partigiani e medaglia d’oro). Al momento della Liberazione fu poi nominato commissario dell’importante e imponente Ente comunale di assistenza (ECA) milanese, erede della locale Congregazione di carità.

Era proprio questa Congregazione di carità che nella fase precedente al fascismo, di fronte ai problemi e ai bisogni provocati non solo dalle conseguenze del primo conflitto mondiale, ma anche dai fenomeni legati al modernizzarsi di una grande metropoli come Milano, sotto una direzione socialista – e in stretto legame con le giunte comunali – era stata sottoposta a un processo di rinnovamento che attraverso una logica di coordinamento nel settore (per ovviare alla frammentazione degli operatori almeno a livello locale) e di concentramento degli strumenti finanziari (per ovviare alla frammentazione e alla dispersione delle risorse)6 ne aveva fatto una vera e propria moderna «impresa pubblica di assistenza».

Promotore di queste innovazioni del settore, Luigi Minguzzi era stato un esponente tecnico del socialismo riformista milanese, che aveva per lungo tempo rappresentato un punto di riferimento per le forze socialiste nei settori dell’assistenza, della sanità (era stato fra l’altro presidente dell’Ospedale maggiore, oltreché della Congregazione di carità), del lavoro e della cooperazione (per i suoi ruoli di primo piano nella Lega delle cooperative e nell’Umanitaria), e nella sua veste di consulente per questi settori dello stesso Filippo Turati. In una linea d’ininterrotta continuità con queste vicende e quindi con queste concezioni, come a riannodare i fili di ragionamenti forzatamente interrotti dall’avvento del fascismo, si colloca la successiva esperienza di Ezio Vigorelli che salendo alla più alta carica del rinascente ECA milanese fu, non a caso, affiancato proprio da Minguzzi, suo compagno di partito, ormai anziano riformista.

Da qui iniziò la sua esperienza nel campo assistenziale, che lo portò, mentre nel 1946 creava l’Associazione nazionale degli enti di assistenza (ANEA), di cui fu per oltre un decennio presidente, in parlamento a ricoprire incarichi di governo in questi ambiti. Egli fu innanzitutto e fra l’altro, membro della giunta della Commissione parlamentare lavoro-cooperazione-previdenza, assistenza sociale post-bellica e igiene e sanità pubblica, poi sottosegretario al tesoro con delega alle pensioni di guerra, e in seguito ripetutamente ministro del lavoro.

Esponente socialista, dopo la scissione di Palazzo Barberini entrò nel PSLI di Saragat rimanendo su posizioni sempre piuttosto eterodosse, che lo portarono a tornare – attraverso le varie vicissitudini dei partiti socialisti di quegli anni – al PSI al principio degli anni Sessanta. La sua posizione politica, comunque, si pose in una linea di continuità e coerenza, sia nel pensiero che nell’azione, con la tradizione riformista prefascista di stampo turatiano, riattualizzata dall’esperienza resistenziale, come è ben sintetizzato nel brano che segue: «Il socialismo democratico non nasconde la testa sotto l’ala: accetta e fa proprie tutte le conquiste del progresso e della democrazia liberale; vuole anzi sottrarle al godimento di una sola classe; vuole affrancarle dai privilegi e dalle discriminazioni; vuole farne partecipi in eguaglianza di diritti e di doveri, tutti gli italiani fino al limite consentito dalle conquiste della tecnica moderna. L’idea della libertà è per noi indissolubilmente legata al principio dell’associazione ed in questo sta la nostra differenza dai liberali e dai “nenniani”.

Gli uni per cieca avversione al comunismo, incapaci di intendere che la povertà è il più grave impedimento e la più iniqua violazione delle libertà, finiscono a creare l’ambiente propizio alla rivolta e all’insurrezione sotto nuove parvenze, del fascismo; gli altri, immobili nelle vecchie concezioni del socialismo, sempre di là da venire, favoriscono i piani dei conservatori e dei reazionari e continuano a credersi “di sinistra” mentre si fanno affossatori delle libertà a profitto del totalitarismo comunista. L’umanità potrà trovare il suo assetto soltanto nel socialismo, illuminato dalle tradizioni di Jaurès e di Turati, sperimentato concretamente dai laburisti inglesi e scandinavi, i quali (…) hanno sempre esaltato il principio di libertà.

L’interesse dei lavoratori è di inserirsi nel sistema della democrazia, per conquistare lo Stato e gli Enti autarchici e volgerli a profitto di tutti. Come nella grande epopea della Resistenza non avevamo per obiettivo la difesa di interessi materiali, né di confine, né di territorio, ma – tutti insieme – l’affermazione dei valori eterni dell’idea cristiana e liberale a servizio della socialità, così ancora a quei valori vogliamo continuare a ispirarci per dare finalmente la patria anche ai poveri».7

Fu proprio nella sua costante opera volta al tentativo di affrontare la questione sociale della povertà, «il più grave impedimento e la più iniqua violazione delle libertà», che Vigorelli si pose a studiare, come del resto molti esponenti politici europei della sua generazione, il recentemente promulgato «Piano Beveridge». Esso era stato elaborato da una commissione presieduta da William Beveridge, allora direttore della London school of economics, e presentato alla fine del 1942. Il suo successo fu enorme, tanto che divenne anche un caso editoriale, tale da farlo diventare sinonimo di welfare state e da influenzare il dibattito europeo coevo e degli anni successivi. Esso, caratterizzato da un impianto universalistico, impostato originariamente per favorire un riordino amministrativo nel campo della sicurezza sociale, era finalizzato al tentativo di eliminare il «bisogno» attraverso la «protezione sociale» e si basava su tre principi fondamentali: innanzitutto un sostegno all’infanzia, una generalizzata estensione dei servizi sanitari, e una prevenzione della disoccupazione di massa.8

Chi ha studiato l’impatto del piano Beveridge in Italia, e il dibattito che ad esso seguì, ha notato e descritto un’avversione che si diffuse rispetto ad esso, basata sul fatto che «non metteva in discussione in alcun modo i fondamenti della società borghese e capitalistica ma (…) era stato in definitiva concepito per conservarla. E cioè per salvaguardarne e perpetuarne sia i valori forti di riferimento, sia i principi organizzativi di fondo. La critica (…) non era infondata. Viceversa le culture politiche maggioritarie in Italia, quella cattolica da un lato e quella marxista dall’altro, benché profondamente differenziate tra loro, erano tuttavia accomunate dal convincimento che la civiltà borghese-capitalista fosse giunta al capolinea e che, ugualmente, dovesse essere considerata esaurita l’esperienza dello Stato moderno di matrice liberale».9

Attorno al Piano Beveridge si sviluppò in Italia una critica rispetto al quadro teorico-politico a cui faceva riferimento, e quindi nel «metodo», sia da parte delle maggiori forze politiche di governo sia da quelle di opposizione. Non è un caso quindi che proprio un esponente socialista ispirato dalle idealità che si sono in precedenza richiamate, si ponesse a studiare attentamente le politiche sociali elaborate da Beveridge e a riflettere sulle modalità di attuare in Italia degli interventi ispirati alle medesime logiche. E non è forse nemmeno un caso se, nonostante la figura di Vigorelli sia stata, come le cariche da lui ricoperte testimoniano e confermano, di un protagonista politico del suo periodo, le sue analisi siano passate pressoché ignorate dalla peraltro rara storiografia che ha in seguito affrontato l’argomento, come se non rappresentassero, in qualche misura, uno degli aspetti più moderni nell’ambito della riflessione sulle tematiche in questione.

L’analisi «nel merito» del Piano Beveridge condotta da Vigorelli lo portava ad affermare che «in Italia non [si poteva] fare riferimento al piano Beveridge, che non [avrebbe potuto] qui trovare applicazione, per le profonde differenze economiche e spirituali che [distinguevano] il nostro Paese dalla Gran Bretagna: ma comuni [erano] i mali crudeli contro i quali anche in Italia [occorreva] agire risolutamente: la miseria materiale (…) la malattia e le infermità (…) l’ignoranza (…) la sporcizia (…) e l’ozio».

L’accettazione dei termini generali della questione, delle logiche in cui il Piano Beveridge si sviluppava, quindi, spingevano Vigorelli a tentare la definizione di un progetto che a quelle logiche si ispirasse, adattandole all’ambiente italiano e alle situazioni contingenti, e basato su «una personale esperienza » nel settore. Vigorelli era divenuto, infatti, per la sua competenza e il suo impegno, un personaggio significativo nel campo delle politiche sociali. I suoi incarichi all’ECA e all’ANEA, e i suoi importanti ruoli di parlamentare, uomo di partito e istituzionali, ne facevano una figura di prima importanza. Dopo un periodo di pratica, di azione pragmatica nella necessità di rifondare l’ECA milanese e di fondare l’ANEA, egli si impegnò quindi a riordinare tutte le idee in tema di assistenza; idee che non «attinge[vano] alla considerazione astratta e improvvisata dei problemi, ma ad un’esperienza intensamente vissuta»,10 scrivendo una serie di articoli, che uscirono su «Solidarietà Umana» (il periodico dell’ANEA) dal principio del 1947,11 e un volume che, lanciando un’«offensiva contro la miseria» si proponeva di esporre «idee ed esperienze per un piano di sicurezza sociale», volume uscito poco prima della tornata elettorale del 1948 con una prefazione di Giuseppe Saragat.12 Successivamente s’impegnò per promuovere a nome dell’ANEA un «Progetto complessivo di riordinamento della assistenza sociale»:13 il piano Beveridge all’italiana.

Faceva da sfondo a tutte queste proposte e idee, la ferma convinzione che la miseria non era «inevitabile né invincibile» e che anzi «esiste[sse] e fosse nelle (...) mani [dell’uomo] la possibilità di vincerla».14 Nell’introdurre i suoi scritti, poi, usciti prima e durante le discussioni all’Assemblea costituente, Vigorelli manifestava la convinzione che le idee da lui elaborate e proposte fossero «entrate (...) nella coscienza del paese se uomini e partiti [andavano] spesso ripetendole nei loro convegni e le inseri[vano] nei loro programmi».15

Il pensiero di Vigorelli partiva da un’analisi dell’evoluzione che i concetti stessi di carità e filantropia avevano avuto nella storia, e dalla constatazione che tali attività non avevano portato alla soluzione del problema della miseria. A ciò contrapponeva il concetto di moderna assistenza, concepito come un «dovere collettivo della solidarietà» e che, in un regime «intimamente democratico», doveva portare ad attuare un sistema di sicurezza sociale complessivo.

Queste concezioni erano certamente in certa misura filtrate nella Carta costituzionale, la quale sanciva sul piano giuridico il dovere (dello Stato) e il diritto (del cittadino) all’assistenza, specificamente agli articoli primo (il diritto al lavoro) e trentottesimo (il diritto, per l’appunto, all’assistenza).16 Per adempiere a questi obblighi lo Stato, secondo Vigorelli, doveva impostare un sistema di strumenti e controlli che garantisse ai cittadini la sicurezza e la dignità della vita, che fosse concreto, immediatamente attuabile e basato su un sistema di severe economie.

Tutto in base al principio che il singolo, in quanto contribuiva con il suo lavoro al benessere della collettività, dovesse essere protetto dalle minacce della fame e della miseria, e che questa protezione dovesse fondarsi sull’identità in un sistema assistenziale complessivo, che, se nella pratica si separava in una funzione sanitaria e assistenziale vera e propria e in una funzione previdenziale, doveva sforzarsi di coordinare e integrare del tutto queste differenti branche fra loro contigue, nella piena realizzazione del principio di «servizi» in cambio di «tributi».

Nell’elaborazione del Piano, l’analisi del Vigorelli, mutuando nel metodo l’antecedente britannico, indicava prioritariamente e specificamente le categorie assistibili: e quindi l’infanzia, i minorenni invalidi e mutilati o figli di caduti di guerra, la maternità, la gioventù, i lavoratori in condizioni di svantaggio (tramite il collocamento), l’emigrazione, i disoccupati, i mutilati, i reduci, i combattenti, i senzatetto e i sinistrati, i pensionati di guerra, i colpiti da malattie e infortuni e in particolare i tubercolotici, gli ex carcerati, gli anziani, ecc. A tutto questo seguiva una sistematica analisi delle fonti finanziarie da indirizzare al settore, del reale utilizzo dei mezzi e delle possibili alternative che concretamente andavano a costituire il piano proposto. I finanziamenti per l’assistenza erano attinti dal bilancio dello Stato e degli enti pubblici, che vi provvedevano con i proventi fiscali; dalle assicurazioni sociali e dai contributi (previdenza), dai crediti patrimoniali degli enti pubblici o delle istituzioni private attive nel settore assistenziale e, infine, dalle elargizioni, eredità, legati, ecc. Se difficile era quantificare precisamente il reale valore di queste cifre, dai conti di Vigorelli e del centro studi dell’ANEA risultava che il gettito per il settore delle assistenze generiche, sanitarie e dell’assistenza sociale, doveva ammontare, ad esempio per il 1948, rispettivamente a circa 50 miliardi, 15 miliardi e oltre 400 miliardi.17 Sulla base di queste stime Vigorelli poteva affermare che «calcoli largamente approssimativi fa[cevano] pensare a cifre di centinaia di miliardi sicché si [poteva] ben dire che se tutte le somme devolute per l’assistenza, dalla Liberazione (...) fossero state scrupolosamente impiegate per i fini cui erano destinate, cose davvero grandi e utili si sarebbero potute fare. Ma la realtà [era] profondamente diversa (...) sperperi e doppioni [avevano] assorbito in grandissima parte i denari dei poveri (...) [si erano] tenuti in piedi organismi superflui, improvvisati e oziosi, spesso al servizio di ragioni di parte».

Con un dettagliato sarcasmo l’analisi di Vigorelli passava a elencare i dati certi di questa frammentazione, e cioè i ministeri o gli alti commissariati cui facevano capo uffici con responsabilità di varia natura nel campo assistenziale, che erano il ministero dell’interno, della pubblica istruzione, di grazia e giustizia, l’Alto commissariato per l’igiene e la sanità, la Direzione generale per l’assistenza postbellica, il ministero del lavoro e della previdenza sociale, quello della difesa, quello dell’Africa italiana, l’Alto commissariato dell’alimentazione, il ministero dell’agricoltura e infine la Presidenza del consiglio dei ministri. Nell’assistenza, come nella previdenza, l’imprecisione delle cifre e dei dati era altissima – a questo proposito basti considerare che l’ultimo bilancio dell’INPS pubblicato risaliva al 1943 – e la sfiducia era anche motivata dallo spirito «demagogico e propagandistico» che aveva ispirato i provvedimenti fino a quel momento attuati, in assenza di un qualsivoglia piano organico e di reale collegamento. «In questa confusione di concetti e di organismi, gli uffici di presidenza, gli uffici direttivi, gli uffici amministrativi dei grandi istituti, svolg[evano] ciascuno una attività tanto intensa quanto spesso puramente formale e duplicata rispetto a quella di altri enti: un’attività cioè sostanzialmente inutile!».

In cosa consisteva dunque il Piano proposto che, oltretutto, escludeva un aumento di qualsiasi contributo? Ciò che si proponeva era, nella sostanza, la costituzione di un «ministero della sicurezza sociale», un organismo centrale direttivo sulla falsa riga di quel che già esisteva in Francia, Gran Bretagna, Svezia e Nuova Zelanda, che organizzasse, indirizzasse, studiasse, coordinasse tutti i servizi di assistenza, previdenza e sanità pubblica.

Questo coordinamento rappresentava il cardine del progetto e dell’azione politica di Vigorelli. I tre settori erano, infatti, nella sua idea, le diverse facce del medesimo soggetto – uno e trino – un welfare, che non poteva che sorgere dalla sinergia e dal razionale coordinamento di previdenza, assistenza, sanità, e quindi in una stretta relazione tra prelievo e somministrazione di servizi.

A questo proposito si specificava che il ministero, lungi dall’esaurire il suo compito nella sola gestione del settore, avrebbe dovuto mirare alla graduale attuazione di un completo e più vasto piano di sicurezza sociale sulla via di un’integrazione delle tre branche dell’assistenza (è per ciò che si escludeva e si biasimava l’obiettivo minimo della creazione di una semplice Direzione generale, proposto e sostenuto da alcune forze di governo e interpretato dal Vigorelli come un  organismo incapace di strategie di lungo periodo). Al nuovo ministero avrebbero dovuto essere ascritti tutti gli uffici sparsi nei vari organismi governativi esistenti e nelle sue direzioni generali: affari generali, assistenza generica, ricoveri (comprendente gli ECA, l’ONC, l’ONIG, l’ONMI, orfani e sinistrati, inabili, vecchi, ecc.); previdenza; sanità (comprendente gli ospedali, manicomi, tubercolosari, cronicari). Il ministero avrebbe inoltre coordinato il settore intervenendo «energicamente» per eliminare ogni «doppione (...) interferenza (…) equivoco».

Il Consiglio superiore dell’assistenza sociale – composto da tecnici ed esperti – avrebbe dovuto essere l’organo consultivo del nuovo ministero che, diramandosi sul territorio, si sarebbe irradiato in uffici provinciali dell’assistenza sociale, a loro volta affiancati da un Comitato consultivo provinciale eletto con i medesimi criteri dell’analogo romano. Intelaiatura di questa nuova struttura avrebbero dovuto essere, ovviamente, gli ECA, i quali già erano capillarmente presenti sul territorio e che a loro volta si sarebbero configurati come il centro di una rete che alla periferia aveva un organismo per ogni settore e in particolare gli Istituti della previdenza sociale, per la raccolta dei contributi e le erogazioni della previdenza; l’Opera nazionale maternità e infanzia (ONMI), per l’assistenza alle mamme e all’infanzia; l’Opera nazionale invalidi di guerra (ONIG), per provvedere ai minorati militari e civili; e così via per ogni ambito di intervento.

Per la realizzazione di questo ambizioso e strutturato progetto si individuava, ovviamente, come principale ostacolo «una sorda resistenza (...) [verso] la necessità di unificare, coordinare, semplificare gli organismi esistenti; di eliminare i non necessari che si contendono in ogni città italiana le stesse attività e che tutti trascinano, tra infinite pene e mancanze di mezzi, il peso di affitti, stipendi, pubblicità (...) [oltre alle] obiezioni insidiose (...) che si insinua[va]no e sottintend[eva]no, suggerite da interessi che non sempre e non a tutti piace confessare (...) da gelosie e faziosità politiche».

Si consideravano, quindi, gli aspetti finanziari della proposta riforma, mirando a dimostrare come la costituzione di un siffatto ministero, oltre a non comportare alcun aumento di spese a carico del bilancio dello Stato, avrebbe anzi consentito di realizzare sensibili economie permettendo di reindirizzare cospicui fondi dalle spese generali di amministrazione alle erogazioni per l’assistenza ai bisognosi. Questo chiarimento si faceva tanto più necessario per le incomprensioni – reali o pretestuose – che il Piano al momento della sua presentazione aveva incontrato in esponenti politici di rilievo. Era stato De Gasperi, infatti, che pur dicendosi entusiasta del risultato dell’elaborazione, aveva avanzato timori sulla realizzabilità a causa della «scarsezza dei mezzi finanziari disponibili», sostenendo che non conveniva «creare pericolose illusioni».18

In realtà, però, quel che come si è visto Vigorelli osservava, era che lo Stato disponeva e stanziava già una «inutile ridda di miliardi, per una inefficiente assistenza»,19 un «complesso fantastico» di denaro che «raggiunge[va] e supera[va] la metà di tutte le spese dello Stato».20 Il Piano che egli proponeva, quindi, si basava sulla esplicitata necessità di non «accrescere gli oneri finanziari che la collettività sopporta[va] (...) per l’assistenza».21 In una siffatta prospettiva, infatti, nel nuovo ministero sarebbe stato concentrato il personale fino a quel momento disperso nei vari organismi governativi, così come per le strutture periferiche, oltre agli ECA, ci si sarebbe potuti appoggiare agli esistenti Istituti provinciali di assistenza postbellica.

Delineata la riorganizzazione strutturale restavano, per completare il Piano, da elaborare alcune «riforme elementari» che ne avrebbero reso possibile l’attuazione e che possono essere riassunte nel motto: «una informazione, una scheda, un libretto». Si proponeva, infatti, l’istituzione di un unico servizio informativo nazionale per attuare razionalmente l’assistenza nei confronti dei «veri bisognosi», di un’unica anagrafe degli assistiti depositata presso l’ECA locale, centro di tutte le informazioni della provincia a disposizione di tutti gli enti e, infine, del libretto individuale dell’assistenza sociale, la vera «chiave di volta» di tutto il paventato sistema, reale documento dello stato di bisogno del titolare e del suo curriculum assistenziale,22 e funzionale alla verifica del diritto e al controllo delle prestazioni.

Il progetto che si è qui descritto e che senz’altro racchiudeva elementi di razionale efficienza e modernità, rimase, come è noto, sulla carta. Nei fatti, dopo la soppressione del ministero dell’assistenza postbellica, creato nel 1945 con il «compito transeunte dei soccorsi più urgenti alle categorie maggiormente colpite dagli eventi bellici»,23 si pervenne alla creazione, presso il ministero dell’interno, proprio dell’organo duramente e lungamente avversato da Vigorelli, e cioè di una Direzione generale dell’assistenza pubblica verso la quale si facevano convergere anche le attribuzioni in materia prevalentemente di controllo e vigilanza delle Opere pie. Nella pratica tale Direzione era articolata in divisioni centrali (segreteria, affari generali, vigilanza e tutela enti e istituzioni assistenziali, assistenza generica, assistenza in natura e trasporti, assistenza minorile, assistenza profughi, assistenza sanitaria, ragioneria) e si ramificava in periferia unificando gli ex uffici provinciali dell’Assistenza postbellica e i compiti della passata Divisione opere pie.24

L’avversione che questo progetto incontrò e che ne impedì la realizzazione, ovviamente non impedì che l’attività politica e di governo di Vigorelli si esercitassero ancora sulla linea di un interesse costante per i temi qui trattati. Le iniziative impostate in seguito, inoltre, denotano e testimoniano ulteriormente l’influenza che l’attività del Beveridge e del dibattito europeo cui faceva riferimento ebbero su Vigorelli e sulla sintonia che rispetto a essi egli sviluppò.

Così come al principio degli anni Quaranta, infatti, il governo inglese aveva promosso la commissione di studio presieduta dal Beveridge, così anche Vigorelli pochi anni dopo si fece promotore della nota e storica inchiesta «Sulla miseria e sui mezzi per combatterla». Tale inchiesta, deliberata dalla Camera dei deputati il 12 ottobre 1951,25 e condotta da una commissione presieduta da Vigorelli stesso, era stata da quest’ultimo richiesta e presentata nella seduta del 28 settembre 1951 e approvata all’unanimità.

Egli così ne aveva illustrato i fini e i mezzi: «Questa inchiesta è sorta dalla necessità di sostituire all’attuale, assurdo e contraddittorio sistema della “assistenza e beneficenza pubblica” un sistema corretto e moderno di sicurezza sociale,capace di assicurare a tutti i cittadini, in qualunque circostanza della loro vita, un minimo di alimenti, di indumenti, di cure sanitarie, di alloggio decente, di educazione sociale. Il nuovo Stato italiano – che, in armonia con la Costituzione, avrebbe dovuto porre come pilastri del suo ordinamento la politica del lavoro e la sicurezza sociale – non ha invece né eliminato, né attenuato i molti mali che nel campo assistenziale andiamo da lunghi anni denunziando: una confusione incredibile di compiti e di attribuzioni; uno sperpero, per cifre paurose, del denaro dei poveri; inframettenze di organizzazioni e partiti; la persistenza di vecchie concezioni burocratiche e convenzionali, ecc. Con azione metodica, affrontando spesso non lievi responsabilità, siamo riusciti a trasformare gli amministratori degli enti dell’assistenza pubblica in volontari della più incruenta e affascinante ed umana delle offensive, l’offensiva contro la miseria, siamo riusciti a portarli così – oltre le concezioni paternalistiche della beneficenza elemosiniera, strumento di dominio di classe e comunque strumento per il mantenimento dell’ordine pubblico – sul piano dell’assistenza sociale.

In questo spirito, che più tardi doveva ispirare la Carta costituzionale, là dove sancisce il diritto dei cittadini all’assistenza sociale ed il dovere dello Stato ad attuarla, abbiamo impegnato gli Enti comunali di assistenza, che sono gli organismi capillari ed i legali rappresentanti dei poveri, a battersi, non soltanto per la tutela dei loro interessi materiali, ma soprattutto per la realizzazione della sicurezza sociale (…) Ma per vincere i mali sociali, occorre conoscerne le caratteristiche, indagarne le entità, valutarne l’estensione, preventivare i mezzi per combatterli.

Le improvvisazioni, anche se ispirate da intenti generosi, non servono a nulla. Le astruserie degli pseudo-scienziati, che già abbondano in questo campo, e che nei convegni sdottorano sulle parole e sulle definizioni, non valgono il prezzo del pane che occorre all’affamato! Non si può percorrere al buio una via lunga e difficile (…) Occorre invece scrutare il bisogno e la sofferenza negli aspetti più crudi, con spirito di solidarietà, in guisa che ognuno – scienziato, giurista, organizzatore – sia soprattutto uomo fra gli uomini, e sappia riconoscere il suo simile consolandone l’attesa e il dolore.

L’inchiesta (…) si propone di definire il numero e la specie degli assistiti e degli assistibili; di estendere le leggi che vigono in materia, per raccoglierle e coordinarle in disciplina unitaria; di indagare quali ministeri e quanti enti pubblici ed organizzazioni private (…) operino ed interferiscano in questo campo; di controllare le somme spese (si tratta ormai di ottocento miliardi!), per dimostrare come, assai più che alla insufficienza sia da rimediare alla dispersione e al pessimo impiego dei mezzi.

Senza miracolistiche illusioni, si può prevedere fin da ora che almeno gli aspetti più gravi e disumani della miseria potranno per sempre essere debellati (…) e se riusciamo a dimostrare che non siamo mossi da una passione utopistica, ma dalla conoscenza attinta allo studio e alla meditazione, un grande passo avanti sarà compiuto sulla via dell’umano progresso».26

Le vicende dei Minguzzi e dei Vigorelli, punti di riferimento nei settori in questione per le forze politiche della sinistra di tradizione socialista, si ritiene forniscano un contributo centrale all’analisi dell’evoluzione che in Italia ebbero le teorie assistenziali in questo ambito, e sulle modalità con cui, in definitiva e per mantenersi nell’utile binomio suggerito da Sen, queste forze politiche abbiano proposto di impiegare le risorse economiche in modo da affrontare le disuguaglianze che lo sviluppo porta con sé, mirando a fare partecipe di questo sviluppo stesso il maggior numero di cittadini possibile e tentando di diffondere il benessere e con esso la libertà e la giustizia sociale. Un tema quanto mai attuale, come è evidente, su cui si giocheranno i destini di questo settore, adesso probabilmente in una dimensione sovranazionale, globale, ma anche su cui si misurerà la capacità di elaborare proposte di intervento, e di intervenire, del riformismo del nuovo secolo.

 

Bibliografia

1 A.K. Sen, La libertà individuale come impegno sociale, Laterza, Bari 1999, pp. 42 e sgg.

2 Ivi, pp. 37 e sgg.

3 Ivi, pp. 50 e sgg.

4 Ivi, p. 53.

5 G. Sapelli, Comunità e mercato, Rubettino, Catanzaro 1996.

6 M. Granata, La Congregazione di carità di Milano come impresa pubblica di assistenza nel “governo economico municipale” (1914-1923), in corso di pubblicazione.

7 Cfr. E. Vigorelli, L’italiano è socialista e non lo sa, Mondadori, Milano 1952, pp. 3 e sgg.

8 L. Di Nucci, Alle origini dello stato sociale nell’Italia repubblicana. La ricezione del piano Beveridge e il dibattito alla Costituente, in C. Sorba, Cittadinanza. Individui, diritti sociali, collettività nella storia contemporanea, Roma, ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale degli archivi 2002.

9 Ibid.

10 Vigorelli, L’offensiva contro la miseria. Idee e esperienze per un piano di sicurezza sociale, Mondadori, Milano 1948, p. 8.

11 Ad esempio: Vigorelli, Un piano Beveridge italiano, in «Solidarietà Umana», 1 luglio 1947; Vigorelli, L’offensiva contro la miseria. Una informazione, una scheda, un libretto, in «Solidarietà Umana», 1 agosto 1947; Vigorelli, Un piano di sicurezza sociale chiedono gli Enti di assistenza, «Solidarietà Umana», 15 ottobre-1 novembre 1947; M. Bertero, Vantaggi e finalità dei centri informativi, in «Solidarietà Umana», 15 ottobre-1 novembre 1947; Per un piano Beveridge italiano. L’abolizione della miseria può, deve essere il motto appassionato della democrazia italiana, in «Solidarietà Umana», 15 dicembre 1947; Vigorelli, Inutile ridda di miliardi per una insufficiente assistenza, in «Solidarietà Umana», 1 settembre 1948; Vigorelli, Riforma degli istituti previdenziali. Il piano della sicurezza sociale, in «Solidarietà Umana», 16 settembre 1948.

12 Vigorelli, L’offensiva, cit. Un importante contributo utile a collocare questi temi in un panorama più ampio è: E. Bressan, Carità e riforme sociali nella Lombardia moderna e contemporanea. Storia e problemi, Ned, Milano 1998, pp. 114-125.

13 ANEA, Per un progetto di riordinamento della assistenza sociale. Studi e proposte, Milano 1948.

14 Vigorelli, L’offensiva, cit., p. 8.

15 Ivi, p. 7. Da qui in poi, eccetto diversa indicazione, le citazioni saranno prese da questo testo.

16 Che così affermava: «Ogni cittadino, inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere, ha il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano provveduti e assicurati i mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli invalidi e i minorati hanno diritto alla educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti e integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera».

17 Cfr. Vigorelli, L’offensiva, cit., p. 50; e ANEA, Per un progetto, cit., pp. 6 e sgg.

18 Cfr. Per un piano Beveridge italiano, cit.

19 Vigorelli, Inutile ridda di miliardi per una insufficiente assistenza, in «Solidarietà Umana», 1 settembre 1948.

20 Ibid.

21 Ibid.

22 Vigorelli, L’offensiva contro la miseria. Una informazione, una scheda, un libretto, in «Solidarietà Umana», 1 agosto 1947.

23 Direzione generale dell’Assistenza pubblica, L’attività assistenziale del Ministero dell’Interno nel decennio 1 luglio 1946-30 giugno 1956, Roma 1956, p. 5.

24 Ivi, p. 7 e sgg.

25 Camera dei deputati, Atti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla. Relazione generale, Vol. 1, Roma 1953, p. 17.

26 Ivi, pp. 37 e sgg. E per i risultati dell’inchiesta cfr. P. Braghin (a cura di), Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-1952). Materiali della Commissione parlamentare, Einaudi, Torino 1978.