Bush vs Kerry

Di Federico Romero Giovedì 01 Aprile 2004 02:00 Stampa

La campagna elettorale negli Stati Uniti è ormai avviata, e nei prossimi sei mesi coinvolgerà sempre più non solo i cittadini americani ma, in diversa misura, tutti noi. Sull’importanza del suo esito non c’è bisogno di soffermarsi, visto che proprio gli ultimi quattro anni hanno mostrato quale drammatica differenza possa correre tra un presidente e l’altro. Né ha senso fare pronostici, che in questa fase sarebbero non solo aleatori, ma frutto di pura fantasia. Una delle poche cose chiare fin da ora, infatti, è che siamo di fronte a una competizione incerta e aperta all’influsso di molte variabili imprevedibili. I sondaggi fotografano una sostanziale parità tra George W. Bush e il senatore John F. Kerry, ma hanno valore davvero effimero.

 

La campagna elettorale negli Stati Uniti è ormai avviata, e nei prossimi sei mesi coinvolgerà sempre più non solo i cittadini americani ma, in diversa misura, tutti noi. Sull’importanza del suo esito non c’è bisogno di soffermarsi, visto che proprio gli ultimi quattro anni hanno mostrato quale drammatica differenza possa correre tra un presidente e l’altro. Né ha senso fare pronostici, che in questa fase sarebbero non solo aleatori, ma frutto di pura fantasia. Una delle poche cose chiare fin da ora, infatti, è che siamo di fronte a una competizione incerta e aperta all’influsso di molte variabili imprevedibili. I sondaggi fotografano una sostanziale parità tra George W. Bush e il senatore John F. Kerry, ma hanno valore davvero effimero. Risentono infatti della forte esposizione mediatica di cui il candidato democratico ha goduto durante le primarie, e sicuramente subiranno forti oscillazioni in rapporto agli eventi futuri. Tuttavia, essi delineano il quadro di partenza.

Nell’ultimo anno il presidente ha subito una graduale ma consistente erosione della sua popolarità. Rispetto ai parametri ormai consolidati – che consentono confronti attendibili con elezioni precedenti – i sondaggi pre-elettorali registrano una notevole incertezza sul futuro del paese, una diffusa preoccupazione sullo stato dell’economia (in particolare sulla lentissima ripresa dell’occupazione) e un grado di fiducia nel presidente che, pur non catastroficamente basso, è tuttavia poco incoraggiante per la Casa Bianca. Le sue principali scelte politiche (Iraq, politiche economiche, bilancio, istruzione, sanità) godono di livelli di approvazione inferiori o appena pari al 50%. Solo sulla gestione della «guerra al terrore» e sulla connessa difesa delle libertà costituzionali del paese i livelli di approvazione rimangono abbastanza robusti.

A ciò si aggiunga il fatto che molti elettori non ripongono più in Bush la fiducia personale che gli concedevano un paio di anni fa. A questo punto non sono solo i democratici, ma anche molti degli indipendenti a ritenere che la Casa Bianca non sia stata sincera sulla decisione di muovere guerra all’Iraq o sulle previsioni pubblicate per giustificare le riduzioni fiscali. Si tratta delle due scelte più caratterizzanti di questa Amministrazione, quelle che più la definiscono. Il fatto che da una notevole fiducia al riguardo si sia passati a questo scetticismo è sicuramente il dato più negativo per Bush.

Soprattutto perché il problema della fiducia nel presidente va a toccare – e potrebbe forse minacciare – la sua risorsa più vitale, quella su cui si era fondata la formidabile ascesa di popolarità dopo l’11 settembre: l’immagine di un carattere semplice e forte, vicino al sentire comune dei cittadini, capace di scelte difficili e oneste. Se questa percezione della sua integrità e della sua sintonia con i problemi degli elettori si annebbiasse ancor di più, allora Bush sarebbe davvero nei guai. Le elezioni sono infatti in misura notevole (ma non totale, come vedremo) un giudizio sull’operato della presidenza. E lo scenario elettorale che sembra delinearsi in questa sorta di referendum non è molto promettente per la Casa Bianca: è la prima volta da decenni che il presidente in carica non parte con un qualche vantaggio sullo sfidante.

Per questo la sua strategia elettorale sarà incentrata pressoché esclusivamente su due nodi: rappresentare il presidente come la guida sicura del paese nella «guerra al terrore» e raffigurare l’avversario come uomo indeciso, debole, opportunista. Il tono e gli accenti della prima, massiccia offensiva pubblicitaria avviata in queste settimane sono tutti basati su quella dicotomia. Essa infatti fa leva sul punto di forza ancora relativamente intatto del presidente, la stima di cui gode come guida energica contro il terrorismo (anche tra chi non approva talune sue scelte specifiche, come l’Iraq, spesso prevale infatti l’idea che, in un contesto dominato dalla lotta al terrorismo, il discrimine principale sia la capacità di leadership energica e risoluta). E per l’altro aspetto – inverso – essa punta a plasmare la seconda faccia delle elezioni, che oltre a un referendum sul presidente sono un giudizio, per forza di cose più incerto, sullo sfidante.

Da qui all’estate, quindi, la campagna mediatica di Bush cercherà di «definire» Kerry agli occhi degli elettori che lo conoscono ancora poco, di raffigurarlo in luce negativa come antitesi delle qualità «positive» del presidente: inaffidabile sulla sicurezza nazionale, opportunista nelle scelte politiche, privo di carattere e coerenza. Kerry fino ad ora si è infatti presentato ai democratici convinti, agli attivisti e agli elettori già decisi che partecipano alle primarie, ma la sua immagine è vaga e indefinita per tutti gli altri, e quindi la campagna di Bush punta a costruirne un profilo negativo prima che Kerry stesso riesca a imporre visibilmente il proprio. In secondo luogo, tale operazione mira a costringere il candidato democratico a usare le proprie risorse sempre e solo in via reattiva, per rispondere alle accuse e alle critiche che gli vengono mosse più che per articolare il proprio messaggio.

La chiave per questa operazione indispensabile (visto che un’elezione giocata solo sul giudizio sulla sua presidenza appare troppo rischiosa) sta nella grande disponibilità finanziaria della campagna di Bush, che può gettare enormi fondi nella pubblicità televisiva, mentre Kerry sta appena cominciando il suo sforzo di fund-raising. Il vantaggio finanziario del presidente al momento è assai grande, e anche se il candidato democratico riuscirà sicuramente a diminuire il gap con il passare dei mesi (la mobilitazione dei democratici in tal senso comincia ad essere assai vigorosa, diffusa ed efficace) Bush riuscirà comunque ad avere maggiori risorse, e quindi a esercitare un maggiore controllo sull’andamento della campagna mediatica, in particolare in questa prima fase.

L’altra grande risorsa di cui gode il presidente è la compattezza e la disciplina dello schieramento conservatore, che è mobilitato senza incertezze dietro a Bush. Questo conta nella incisività della campagna elettorale, che può essere efficacemente pilotata dalla Casa Bianca come da una cabina di regia. Conta nella diffusione dei temi e delle formule di Bush, perché il fitto reticolo di associazioni, gruppi e media conservatori opera effettivamente come una falange unita, battagliera e possente. E conta infine sul piano propriamente elettorale, visto che il grado di fedeltà a Bush degli elettori repubblicani è altissimo e dovrebbe tradursi in una loro massiccia affluenza alle urne, senza tentennamenti o defezioni.

Nessun presidente, salvo il primissimo Reagan, era riuscito in passato a godere di un così forte senso di identificazione da parte dei suoi elettori e sostenitori repubblicani, e ciò è anche il risultato, oltre che dell’11 settembre e dell’effetto della «guerra al terrore», delle principali scelte operate da Bush in questi quattro anni. Dalle riduzioni fiscali alle nomine giudiziarie, dal corteggiamento assiduo della destra religiosa al privilegio dato all’estrazione di risorse minerarie invece che alla protezione ambientale, tutta la strategia politica della Casa Bianca ha mirato a consolidare la presa del presidente sulla propria base conservatrice (memore della vicenda del padre, che fu sconfitto anche dalla divisione e disillusione dei conservatori). La bussola politica di Bush è stata quella di premiare e rassicurare il suo elettorato conservatore, e di contare sul ruolo di «presidente di guerra», per marginalizzare gli avversari e conquistare così il centro. Il recente sostegno a un emendamento costituzionale contro i matrimoni omosessuali ribadisce questa priorità partigiana anche sul terreno delicatissimo dei diritti civili (oltre che su quello, non meno complesso, dei diritti degli Stati).

La vera domanda su cui ruota questa elezione è allora: questa strategia risulterà pagante? O non rischia invece di rovesciarsi nel suo opposto?

All’incontrastata e fervida popolarità di Bush tra i conservatori corrisponde infatti un’altrettanto appassionata e massiccia disapprovazione tra gli elettori democratici. Anche su questo indicatore si è a livelli storicamente senza precedenti, tanto che l’atteggiamento che ha dominato (e risolto) le primarie democratiche – «chiunque, ma non Bush» – è ormai entrato a far parte del lessico politico quotidiano. Nessun presidente prima di Bush ha avuto livelli di approvazione così bassi, pressoché inesistenti, nei ranghi degli elettori del partito avversario.

La sua presidenza, iniziata all’insegna del compassionate conservatism, che doveva smorzare il radicalismo partigiano con cui i repubblicani si erano contraddistinti negli anni Novanta, si è in realtà trasformata in una polarizzazione radicale del paese, in un’accentuazione verticale della sua divisione tra immagini e concezioni diverse della nazione. Fino alla scorsa estate questa strategia sembrava risultare pagante, in larga misura perché la guerra elevava il presidente al di sopra delle critiche partigiane e, in secondo luogo, perché l’avversario democratico non era capace di articolare un messaggio definito né aveva un’autorevole voce nazionale cui affidarsi.

Poi è successo ciò che la Casa Bianca (insieme a molti altri, bisogna dire) non aveva previsto. Invece di stringersi nell’angolo di una critica radicale ma incapace di risuonare nel resto del paese, i democratici hanno affrontato le primarie raccogliendo la sfida di Bush non solo con rabbia, ma anche con convinzione, fiducia e determinazione. Un partito a lungo diviso e stordito si è rapidamente cementato e galvanizzato: negli apparati, negli attivisti periferici e nelle opinioni diffuse. John Kerry è stato l’uomo intorno al quale si è ricostituita un’ampia coalizione socio-elettorale, unita dal desiderio di liberarsi di Bush. È stato un processo rapido ma complesso, dalle cause molteplici. A innescarlo è stata la radicalità con cui Howard Dean ha sfidato, a partire dall’estate, il dominio repubblicano. A chi subiva le politiche di Bush con passiva sofferenza, Dean ha dato una sferzata di speranza ed energia. È stato il ragazzino che sfida il bullo della scuola e gli fa un occhio nero – ha scritto «The Economist» – ed è l’immagine più efficace della miccia che ha innescato il risveglio psicologico dei democratici.

Proprio perché era così focalizzata sul desiderio di battere Bush, tuttavia, questa volontà di riscossa ha subito abbandonato un candidato troppo rabbioso e controverso. Kerry ha saputo allora emergere quale figura esperta e con credenziali robuste. È l’eroe del Vietnam che può rassicurare l’elettorato, anche quando critica Bush sulle politiche di sicurezza. È il veterano della vita politica nazionale e di molte elezioni, che sa stringere alleanze e che ha saputo concentrare i suoi sforzi e i suoi soldi per acquisire un cruciale slancio iniziale nelle primarie, in Iowa e New Hampshire. Ed è un liberal che sa evidenziare efficacemente i guasti dell’«economia del privilegio» rimproverata a Bush.

Sull’orizzonte della politica è quindi ricomparso, come già nel 2000, quel paese aritmeticamente diviso tra due «nazioni», con valori, priorità e sensibilità non solo divise, ma spesso contrapposte. La grande unità corale manifestatasi dopo l’11 settembre non è scomparsa, ma ha ceduto il palcoscenico a un energico, aspro dibattito politico su come essa vada interpretata e guidata. È un processo fisiologico e salutare. Dopo due anni e mezzo di «guerra al terrore» si traccia un bilancio della sua conduzione e dei suoi risultati; si soppesano i costi e i benefici delle scelte economiche che l’hanno accompagnata; si considerano altri temi che essa aveva oscurato.

Ma è un processo che – come abbiamo visto – deriva anche da talune scelte cruciali dell’Amministrazione Bush. La decisione di muovere contro l’Iraq (vista ora in maniera assai meno trionfale, ma nondimeno ancora condivisa da una parte consistente dell’elettorato), ha legato il giudizio sulla «guerra al terrore» ai risultati operativi e diplomatici di una difficilissima, lunga e in ultima analisi incerta campagna di pacificazione e democratizzazione di quel paese. Quanto più i risultati tardano a venire e tanto più l’intera immagine del «comandante in capo» – su cui Bush gioca le proprie speranze elettorali – risulta offuscata e vulnerabile.

È principalmente per questo motivo che nelle primarie democratiche si è manifestata quella scelta prorompente per la «eleggibilità», di cui John Kerry ha potuto profittare in maniera così determinante. Invece di seguire la tentazione di aggirare, o rigettare, le tematiche della sicurezza nazionale, gli elettori democratici hanno optato per il candidato che può credibilmente contrastare Bush proprio sul quel terreno. Lo scontro elettorale si è quindi spostato dalla legittimità e necessità della «guerra al terrore » – su cui il presidente sarebbe stato sicuro vincitore – ai modi e gli scopi della sua conduzione, ai criteri della sua efficacia, al bilancio dei suoi costi e dei suoi benefici. Non è affatto detto che Kerry riesca poi a battere il «presidente di guerra» su quel terreno, ma (grazie alle sue credenziali militari, alla sua esperienza senatoriale e alla sua gravitas presidenziale) gli elettori democratici hanno potuto ridefinire i lineamenti della contesa elettorale in termini assai meno sfavorevoli.

Qui conta molto l’altra scommessa di Bush, che forse potrebbe ancora risultare pagante, ma che intanto ha cominciato a rovesciarsi in una seria vulnerabilità: quella di disgiungere la «guerra al terrore» dalla costruzione di un’effettiva solidarietà e compartecipazione nazionale. La politica economica incentrata sui tagli fiscali per gli investitori e i redditi più alti ha viceversa esasperato la percezione di un paese diviso, e spalancato la porta alla critica di tutti i candidati democratici – John Edwards e lo stesso Kerry su tutti – sulle «due Americhe» e «l’economia del privilegio». Il grande deficit del bilancio federale ha sostenuto la ripresa, ma ha anche costretto a robusti tagli nei bilanci degli Stati, e quindi nelle prestazioni dei servizi pubblici locali. Inoltre, ha gettato un’ombra preoccupante sulla sostenibilità futura dei maggiori programmi si spesa, a cominciare da quello pensionistico. Per la prima volta in una generazione, i repubblicani hanno rinunciato al loro tema tradizionale della riduzione dello Stato, e quindi al linguaggio che più spiazzava i democratici.

La Casa Bianca ipotizzava che una crescita robusta con bassi tassi d’interesse risultasse sufficientemente vantaggiosa per quei molti americani che possiedono azioni e una casa – e che valutano la curva del proprio benessere in base al valore crescente di tali assets – in modo tale da precostituire una maggioranza soddisfatta delle politiche del presidente. Ma se nei pochi mesi che ci separano dalle elezioni la ripresa non riuscirà a tradursi anche in maggiore occupazione e redditi crescenti, la critica democratica troverà un mordente potenzialmente capace d’incrinare la fiducia nel «presidente di guerra».

La campagna di Kerry si incentrerà quindi su queste tre aree, che corrispondono ad altrettante debolezze – già manifeste o potenziali – di Bush. In primo luogo la critica al presidente fazioso che divide il paese, che usa le ansie collettive per la sicurezza nazionale a fini partigiani, che aggredisce gli avversari invece di parlare onestamente agli elettori. In secondo luogo, la critica allo stato dell’economia, alla carenza di opportunità di lavoro, al difficile accesso alla sanità, alla riforma fiscale indirizzata ai ceti più ricchi e, in generale, alla distanza della Casa Bianca e dei repubblicani dagli interessi della classe media. Infine, la critica alla gestione dirompente della «guerra al terrore» come crociata unilateralista, che isola l’America nel mondo e mette in pericolo i suoi stessi soldati e cittadini, senza per questo avvicinare la soluzione del problema terroristico.

Oltre a tradurre queste tematiche in proposte persuasive e in formule chiare per il futuro, Kerry dovrà riuscire a proiettare nel paese un’immagine di sé solida, coerente e convincente. Ha con sé un partito unito, un’ampia e varia area d’opinione ormai mobilitata, e una coalizione assai differenziata di organizzazioni via via più impegnate a contrastare la macchina propagandistica conservatrice. Non di meno, egli ha di fronte a sé un compito arduo.

Il presidente appare ancora molto forte in buona parte degli Stati che conquistò quattro anni fa, e i tecnici della matematica elettorale gli attribuiscono il controllo «sicuro» di 179 voti elettorali (i 21 Stati in cui nel 2000 vinse con un margine superiore al 6%). Secondo lo stesso criterio, gli Stati «sicuri» per il candidato democratico sarebbero 12, per un totale di 168 voti elettorali. La partita si giocherà – secondo un’analisi condivisa non solo da molti osservatori, ma dagli stessi esperti delle due campagne – negli altri 18 Stati, quelli con margini molto bassi di differenza nel voto di quattro anni fa (e in buona parte dei sondaggi odierni). Sono gli Stati effettivamente competitivi, su cui già ora si concentrano le ondate di spot televisivi di Bush e le risposte che provengono dal campo di Kerry.

Solo che, a differenza del 2000, a Kerry non basterebbe strappare anche solo uno di quegli Stati, magari piccolo, all’avversario. Perché la redistribuzione del peso elettorale degli Stati seguita all’ultimo censimento ha aumentato il numero di voti elettorali degli Stati in cui vinse Bush. Se anche Kerry ripetesse la performance di Gore nel 2000, egli risulterebbe quindi sconfitto in maniera più netta (18 voti elettorali di differenza invece di 5). E mentre i democratici puntano a un gruppo di Stati che Bush vinse con margini minimi (Florida, Ohio, Missouri, New Hampshire e Nevada), i repubblicani ovviamente si concentreranno sulla «riconquista» di quelli più incerti tra gli Stati che votarono Gore nel 2000 (Pennsylvania, Iowa, Minnesota, Wisconsin e New Mexico).

La candidatura di Ralph Nader, inoltre, potrebbe anche non risultare rilevante – sia per sua la difficoltà a presentarsi effettivamente in ogni Stato, sia per la minore attrattiva che egli dovrebbe avere rispetto al 2000 – ma se egli avrà un peso (e i sondaggi attuali gli accreditano almeno un 3%), ciò sarà sicuramente a svantaggio di Kerry.

In taluni degli Stati competitivi, con elettori relativamente conservatori sotto il profilo culturale e religioso, e probabilmente sensibili all’appello del «comandante in capo» per la continuità di leadership nel mezzo della «guerra al terrore», i repubblicani potrebbero aumentare il loro vantaggio. Ma i democratici, per parte loro, possono guardare con più ottimismo a un gruppo particolare di questi Stati incerti: quelli in cui la perdita di posti di lavoro è stata particolarmente pronunciata, il tasso di disoccupazione è più alto della media nazionale, e in cui l’insoddisfazione per lo stato dell’economia potrebbe quindi risultare la determinante principale delle scelte elettorali. Si tratta di Stati manifatturieri del Mid-West abbastanza popolosi e con un cospicuo numero di voti elettorali: Michigan, Pennsylvania, Missouri e, soprattutto, Ohio. È qui, oltre ovviamente che nell’incertissima e sempre cruciale Florida, che si giocherà il voto di novembre. Ed è qui che si concentreranno le due campagne. In questi Stati, come nel resto del paese, non c’è più di un 10% di swing voters (gli elettori che non si riconoscono a priori in uno degli schieramenti, che di volta in volta scelgono un candidato in base a valutazioni del momento, e che a tutt’oggi si dichiarano indecisi). A meno di imprevedibili terremoti nella geografia elettorale, saranno loro, in ultima analisi, l’ago della bilancia: qualche decina di migliaia di votanti della Florida, dell’Ohio o del Missouri.

È per questo che le elezioni sono non solo straordinariamente incerte, ma suscettibili di venir decise da una tra tante variabili imponderabili. Un peggioramento strisciante della situazione in Iraq o una subitanea ripresa delle assunzioni, una scelta controproducente nei toni di uno spot elettorale o anche solo una gaffe nei dibattiti che si terranno in autunno, potrà decidere chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti.