Diario americano 2

Di Giulio Sapelli Lunedì 01 Settembre 2003 02:00 Stampa

Oggi gli alberi del giardino sono coperti da uno strato sottilissimo di brina. Rilucono nelle prime luci dell’alba. Mi sono levato presto dal letto e sono corso a comprare il «New York Times», qui, all’edicola a poche decine di metri dall’entrata del mio building, come si ostina a chiamarlo la segretaria del Remarque, per sottolinearne l’imponenza e per valorizzare quindi lo sforzo che si fa nei miei confronti, a tutto vantaggio del prestigio mio e – a detta sua – del Remarque medesimo.

 

La ragazza e la guerra

Oggi gli alberi del giardino sono coperti da uno strato sottilissimo di brina. Rilucono nelle prime luci dell’alba. Mi sono levato presto dal letto e sono corso a comprare il «New York Times», qui, all’edicola a poche decine di metri dall’entrata del mio building, come si ostina a chiamarlo la segretaria del Remarque, per sottolinearne l’imponenza e per valorizzare quindi lo sforzo che si fa nei miei confronti, a tutto vantaggio del prestigio mio e – a detta sua – del Remarque medesimo.

Non ho sempre una voglia così smodata d’immergermi nella lettura del giornale, tanto più che questa edicola è quanto mai parca nell’acquisto dei quotidiani da rivendere: non ha, per esempio, il «Financial Times» che è, lo ammetto, la mia fissazione perché: «nessuno qui lo acquista», mi dice il ragazzo cingalese che mi accoglie sempre con le dita intirizzite dal freddo e il bel sorriso devastato dal chewingum che fa esplodere in perfette bolle variopinte. E quella frase è una nuova riprova di quanto sia differenziata questa società, sino agli infinitesimali comportamenti quotidiani: il giornale giallino si vende nei dintorni di Wall Street o nelle edicole più centrali di Washington Square, ossia verso la Pubblic Library, ad esempio. Qui si trovano soltanto il «New York…» e «Usa Today» e qualche giornaletto provinciale, che deve avere un suo pubblico e i suoi acquirenti tra gli studenti e tra taluni dei professori della scuola di management, i più incolti di tutto il campus.

Ma veniamo al motivo del mio precipitarmi all’edicola. Ieri sera, prima di dormire, era circa l’una, ora locale, ho acceso la televisione e ho ascoltato, dall’ unico canale internazionale a cui mi sia consentito di accedere dal mio appartamento (Fox News, la CNN non c’è la perché «costa troppo»), la notizia della caduta di Baghdad. Dalla televisione non si comprendeva assolutamente nulla in merito alla dinamica degli avvenimenti, se non notizie confuse e intervallate da proclami dei responsabili dei vari fronti di guerra senza la possibilità di capire che cosa effettivamente fosse successo: se ci fosse stata resistenza, se il dittatore fosse stato catturato, ecc. Eccomi qui, allora, a leggere prima del solito il quotidiano più famoso al mondo e a ritornare lesto lesto per il freddo al mio appartamentino.

Sennonché mi coglie un gran vociare che proviene dalla piazza, all’altro lato di essa, là dove termina la Quinta Avenue e dove mi reco solo raramente, di tanto in tanto, per fare la colazione la domenica mattina in un bellissimo ristorantino appena a pochi metri dalla piazza: terra di studenti e delle loro attività, che solo la domenica si svuota e riacquista quel desolato aspetto metropolitano che riesce a rendere metafisica anche New York, certo con un po’ di immaginazione…immaginazione che mi piace più che mai. Ma eccomi nel pieno di una manifestazione studentesca contro la guerra, con manifestanti sdraiati sul freddisssimo asfalto o sull’altrettanto freddissimo marciapiede, mentre si inalberano cartelli e si gridano sincopaticamente slogan contro la guerra e, soprattutto. contro Gorge W. Bush, con un gusto e un livore che non ricordavo di aver visto da un tempo immemorabile, almeno dal 1964, quando scendevo in piazza, anzi per strada – ché eravamo un quindicina circa in tutta Torino – per protestare contro i bombardamenti sul Tonkino che avrebbero dato vita alla guerra del Vietnam. Soltanto anni dopo sarebbero venute le manifestazioni di massa e i vastissimi fronti solidali… Ma a quei tempi si vinceva la paura solo urlando a squarciagola e stringendosi l’un l’altro, per non finire subito nelle braccia di irsuti poliziotti più spaventati di noi, ma certo di noi infinitamente più violenti. È la stessa paura che vedo su queste facce di bambini ben nutriti e ben coccolati tipicamente nord americane, che paiono uscite fuori da una pubblicità della Coca Cola. Esse contestano la mia superficiale osservazione: ora sono impegnati, i ragazzi, in una prova serissima e molto impegnativa. Non posso che procedere verso di essi e superarne le prime fila, così da giungere a due passi dal cerchio dei dirigenti della manifestazione che si stanno alternando al microfono di un artigianale amplificatore.

E qui, ecco, accade l’imprevisto che sempre riempie di stupore: mi capita di rivederla. È una ragazza non alta, un po’ massiccia addirittura, con un volto bellissimo che è circondato da bei capelli biondi tenuti su con una crocchia che continuamente si svolge e cade in mille luccichii nel freddo della via. È regale, quando si ferma e, tra le mille cose che tiene in mano, tra le braccia, strette attorno al corpo, quasi come se dovessero sfuggirle, tra quelle mille cose, riesce a districarsi e a tirar su, con una mossa di destrezza, quella bellissima crocchia che le dà un’aura ancor più splendente. Sì, mi piace, soprattutto per come l’ho vista vestita la prima volta. Eravamo entrati insieme nel piccolo ufficio dell’università di New York dove distribuiscono, dopo una fotografia che più rapida e perfetta non potrebbe essere nel procedimento e nel risultato finale, il tesserino magnetico che darà accesso ai locali riservati dei building a ogni ora del giorno e della notte e che si dovrebbe portare al collo, come tutti fanno, come dei cagnolini bene educati e beoti. Ci sottoponiamo entrambi alla procedura ed entrambi, con noncuranza, infiliamo in tasca il nostro tesserino, staccandolo, sotto lo sguardo malevole delle ragazzine efficientissime che ci osservano di là dal banco. Com’era vestita? Una semplicissima tunica azzurro profondo, con un golfino legato in vita e una giacca a vento aperta sul davanti che lasciava intravedere un seno prosperoso e bello. Sulla tunica, su quel bel petto, e sulla schiena della giacca a vento, erano attaccati, con delle spille da balia vistose e molto kitsch, due cartelli in stoffa grigiolina, sui quali era scritto con un pennarello ad acqua:«Peace is patriottism». Il tutto componeva una sfida geniale e sotterranea al filisteismo di destra e di sinistra, di sotto e di sopra, di centro e delle estreme: insomma un vero scacco matto compiuto con una mossa del cavallo à la Sklovskij che mi ricordava i tempi bellissimi della mia gioventù artistica e letteraria. Questo è il fantastico potere creativo della politica americana: è in primo luogo un sentimento morale. Fin che si sviluppa nella società politica, ossia laddove, nel profondo delle volizioni umane, si formano le subculture politiche e gli orientamenti all’azione, fin che si definisce antropologicamente, la politica nord americana è uno schierarsi morale, un attribuirsi il senso della vita introspettivamente, mettendo in gioco tutto se stessi in prima persona. Così faceva la mia bionda, massiccia e regale fanciulla. Sfidava le impiegate piccolo borghesi indiane, cingalesi, nere, che aspiravano all’inclusione pacificatrice esponendo in ufficio ( sì, quello delle tessere magnetiche) una grande bandiera a stelle e strisce che continuamente assicuravano alla parete con puntine e aggeggi simili, così da impedire il formarsi di antiestetiche pieghe. Sfidava i professori che circolavano per il campus con una bandiera a stelle e strisce di latta appiccicata all’occhiello del cappotto, o meglio, del giaccone, del piumone e quant’altro qui si porti pur di infagottarsi come orsi e dimenticare l’eleganza, fingendo di far ciò per ripararsi meglio dal freddo. Sfidava i suoi coetanei che la guardavano tra la curiosità e lo stupore, ma uno stupore ben diverso dal mio (ch’era quasi trascendente e metafisico): era lo stupore di vedere manifestare un’opinione contraria a partire dal proprio essere nel mondo fenomenologicamente, nell’immediatezza della vita, come se si trattasse di una questione privata tra Lei e il mondo, a cui tutti potevano partecipare e assistere. Assistere al mormorio e allo stupore che quell’abbigliamento provocava.

Non la seguii. Sarebbe stato inelegante e non conforme al mio modo di comportarmi, in primo luogo. E in secondo luogo sarebbe stato contrario al mio ruolo, ossia alla funzione nella differenziazione sociale che l’essere ospite di un istituto come il Remarque di fatto mi assegnava, volente o nolente, nel campus e fuori dal campus. Me ne pentii. Lo ammetto; e la pensai, come se si trattasse di una mia studentessa o di una mia nipotina della quale avrei voluto sapere di più, e dalla quale avrei voluto sapere di più su di lei e sui suoi amici, sulle sue abitudini e sui suoi valori, in quell’inesausta corsa con la curiosità che tanto spesso mi pervade tutto e che mi lascia sempre insoddisfatto.

Ora eccola dinanzi a me, a parlare in un megafono gracchiante, come ho già scritto, e a ripetere il suo slogan con fare pacato, argomentando il concetto in una sorta di lezione di liberalismo alla nord americana, ossia che mette al centro il controllo della nazione sulla classe politica e che da questo controllo tutto fa dipendere per la legittimazione della decisione politica. Di qui la critica al comportamento di Bush con una serie di riferimenti precisi al diritto costituzionale e a quello internazionale che lasciano una scia di consapevole adesione da parte dell’uditorio: una cinquantina di ragazze e ragazzi e una decina di signori e signori avanti negli anni, con thermos di caffè tra le mani per riscaldarsele e per rendere manifesto il loro assimilarsi anche prossemico alle culture del corpo che gli studenti rendono manifeste. La «mia» ragazza è vestita come alcuni giorni or sono e questo me la rende ancor più simpatica. Mi lascio trascinare: sto ad ascoltare, applaudo ed evidentemente divengo sospetto ai poliziotti, circa un’ottantina di ragazzoni di ogni altezza e colore che ci circondano via via sempre più da vicino. Sono guidati da un graduato che sembra uscito fuori da un serial televisivo sulle polizie delle medie città nord americane. Stempiato, grassottello, fuma continuamente e parla concitatamente al radio telefono. Mi si avvicina e mi chiede a quale servizio di polizia io appartengo. Sono stupefatto, ma comprendo subito l’arcano: sono vestito decisamente fuori luogo, per l’immaginario collettivo che identifica i partecipanti a una manifestazione pacifista alla New York University: ho la cravatta e non porto cappello, sono ricoperto da un cappotto di alpaca blu da cui non fuoriesce nessuna sciarpa multicolore, non indosso jeans ma un abito scuro su spicca una camicia immacolata nel suo biancore e ai piedi non ho né scarponcini né scarpe sportive, ma un paio di eleganti scarpe di cuoio italiane. E non trangugio né acqua direttamente dal collo della bottiglia, né bicchieroni fumanti di bevande inimmaginabili: non posso essere un professore e la mia età esclude ch’io possa essere uno studente. Non posso esser altro che un poliziotto, un poliziotto non «di strada», come mi spiegherà in seguito il graduato, ma un poliziotto «d’ufficio» e di un corpo speciale, di sicurezza.

Il suo stupore è grande quando esibisco la tessera dell’università (è una fortuna che l’abbia con me fresca fresca e ben lucida…) e il mio passaporto italiano. Diviene immediatamente sospettoso e mi chiede con fare deciso cosa ci faccio lì. Spiego che sto a vedere, che questi ragazzi mi piacciono, ecc. È proprio ciò che temeva e che non gli piace: si pianta dinanzi a me e afferra il telefono: chiama l’ufficio della sicurezza dell’università e solo quando è sicuro che io non sia un millantatore crede che io sia ciò che dico: un professore visitante presso un istituto che lui non ha mai sentito nominare e che non riesce proprio a inquadrare…Chi è questo Remarque? Non è un americano? E allora cosa ci fa all’università? È autonomo dall’università? E allora perché io ne posseggo la tessera e sono inserito nel file delle persone «di riguardo»? E perché un professore italiano veste in modo così diverso dagli altri suoi colleghi americani? O forse io sono uno delle «Schools of law», un famoso avvocato, oppure un manager in congedo che insegna qui per un periodo e non dismette le sue abitudini di cura del proprio corpo? Insomma: sfuggo ai modelli di differenziazione antropologica e quindi sono sospetto.

Mentre discutiamo i ragazzi sfollano, alla spicciolata, un po’ spintonati dai poliziotti e un po’ attanagliati dal freddo. Lei è scomparsa e io la cerco con gli occhi, insistentemente. Il poliziotto che mi sta alle costole ha un lampo di complicità: «Nice, uhm», mi dice e io so benissimo a chi allude. Tutto termina con una sua fragorosa risata. Riesco malapena a capire che mi sta dicendo che sono una persona normale e non un fanatico, se guardo le donne… Finalmente trova una ragione al mio essere presente alla manifestazione: questi italiani, sono degli inguaribili Don Giovanni! Lascio che si bei delle sue certezze stereotipate. Sorride. È pacificato. Ha un problema in meno: accende una sigaretta e me ne offre una ed è contento che io l’accetti e aspiri insieme a lui il bruno tabacco che ci unisce sotto la volta gelata del cielo di New York, mentre in Iraq il presidente difende – come dice il mio poliziotto – «l’onore della bandiera».

 

Sicuri

Esiste una concezione, una teoria, e una pratica, tutta nord americana della sicurezza.

La sicurezza in sé, naturalmente, esiste: esistono gli apparati che assicurano la segretazione delle fonti documentarie in qualsivoglia organizzazione ed esistono gli apparati che quelle segretazioni non soltanto implementano e rinnovano costantemente, ma che altrettanto costantemente pongono in relazione con le tecniche di prevenzione e di protezione non più delle fonti documentarie, ma degli umani, in qualsivoglia luogo essi si trovino. E in primis si tratta di proteggere gli umani nord americani da ogni rischio e da ogni pericolo.

Sbaglieremmo, tuttavia, come si fa di norma, se intendessimo questo fenomeno di «nazionalizzazione della sicurezza umana», come una sorta di cultura isolazionistica, che privilegia la persona nord americana sulla base di un pregiudizio razzistico o di esclusività egoistica. Innanzitutto saremmo dinanzi, se così fosse, a un nuovo concetto di razza, tante e diverse sono le razze che compongono la cittadinanza nord americana. Il che non mi pare sia all’orizzonte. Secondariamente, il ridurre tecnicamente la sicurezza come prevenzione e protezione ai soli cittadini nord americani implicherebbe un enorme costo di differenziazione di quelle pratiche, tanta è l’ osmosi, sul territorio nord americano, tra cittadini di questa nazione e cittadini di altre nazioni.

Gli Stati Uniti attraggono la più alta quota di investimenti esteri diretti e indiretti da tutto il pianeta non solo perché hanno la moneta più forte del mondo grazie alla locomotiva dell’accumulazione capitalistica che guidano con cipiglio e con mano ferma anche nei periodi di stagnazione e di recessione, ma soprattutto perché sono la nazione più aperta del mondo, con una capacità inclusiva più elevata che mai, nonostante le terribili prove a cui questa straordinaria qualità è stata recentemente sottoposta.

Quando parlo di sicurezza nord americana penso a come i cittadini americani vivono il bisogno e la necessità di sicurezza. Essi non interpretano questa universale forma di aggregazione e di protezione delle comunità umane da se stesse come una oppressione necessaria a cui bisogna adattarsi. Un’oppressione di cui lo Stato non soltanto è il dispensatore monopolistico, ma anche, come accade in Europa (salvo che in quella scandinava), il beneficiario: se c’è sicurezza, lo Stato è legittimato e la sua piramidale mole si vede giustificata da una funzione che il cittadino riceve come una sorta di favore dall’olimpo dei potenti.

Negli Stati Uniti non esiste nulla di simile: la sicurezza è un diritto ascritto e non concesso, che si porta con sé dalla nascita e che vive e si riproduce grazie alla simbiosi che esiste tra Stato e società, tra cittadino e autorità pubblica, quale che sia la funzione di utilità che si registra tra questi due poli e il grado di omogeneità nelle volizioni e nelle assunzioni di valori politici e transculturali. Il principio dell’obbligazione politica e morale vale nei due sensi: dal cittadino allo Stato e dallo Stato al cittadino. Questo spiega perché così convintamente i cittadini nord americani partecipino a tutte le misure di sicurezza preventiva che sono vigenti periodicamente nelle comunità.

Ieri mattina, per esempio, anch’io ho partecipato alle esercitazioni anti-incendio del mio condominio: una lettera inviatami una settimana prima dal manager di quest’ ultimo mi informava che si sarebbero svolte all’alba, alle ore cinque e trenta, in collaborazione con una squadra della Guardia nazionale. Eccoci qui in cortile, in un freddo pungente, tutti imbacuccati, io a disagio nel mio cappotto blu, che ascoltiamo, prima, l’inno nazionale suonato a un cd di fortuna e, poi, proviamo le maschere antigas e seguiamo gli attempati signori della Guardia nazionale per le scale del condominio, imparando quali siano i punti più pericolosi e ciechi e seguendoli per le scale anti-incendio. Da esse scenderemo da soli, uno alla volta, dando prova di resistenza fisica, di memoria e di adesione allo spirito di team. Assistiamo anche alla simulazione della respirazione bocca a bocca e allo spegnimento di un fuoco con l’estintore, nonché alla rapida separazione di un corpo (un manichino) dalle fiamme che l’hanno un momento prima aggredito.

Tutto si svolge in non più di un’ora e trenta: alle sette in punto ci stringiamo la mano e ci salutiamo, in tempo per recarci al lavoro o per riprendere le nostre attività domestiche. Prima di far ciò il comandante della Guardia legge i nomi e dichiara il numero dei partecipanti: siamo un terzo dei condomini:126. Ma non ci sono commenti o esortazioni di sorta. Il proselitismo è bandito. Siamo delle condizioni sociali più varie: da signore ricche e ostentatamente annoiate, ma in definitiva consapevoli di dover dare il buon esempio; alle signore delle pulizie che abitano in un’ala del grande stabile che tutti ci accoglie; alle ragazze dell’università che affittano diversi appartamentini in cui vivono stipate; ai suonatori di jazz e di musica classica di cui si perdono gli echi nella notte – quelli di musica classica – o al pomeriggio – quelli di jazz – quando provano prima dei loro concerti e concertini nelle mille «sedi della musica», come le chiamo, che vi sono al Village, distante pochi isolati da noi; ai manager consapevoli che anche qui debbono dare un impulso nuovo al tutto, soprattutto enfatizzando il lavoro di gruppo; ai professori e alle professoresse che hanno l’aria meno convinta di tutti ma che non disdegnano di sgomitare pur di giungere per primi in cima o in fondo alla scala antincendio con la loro inseparabile bottiglietta d’acqua non gasata da cui bevono avidamente alla canna.

Quello che unisce questi diversi esponenti di classi e di ceti sociali è l’unità comunitaria, nella convinzione che si sta affermando un diritto che è anche un dovere: quello di proteggere gli altri perché solo così facendo si protegge se stessi. Inoltre, in tal modo, si asseconda lo Stato che, per rendere più congeniale e facile l’adempimento di questo dovere, mette a disposizione un’organizzazione e una moral suasion (non è altro che questo, qui a New York, la Guardia nazionale; diverso il caso della Virginia o del Texas) che sono comunque condivise profondamente dai cittadini.

Per questo gli americani attendono pazientemente di espletare i controlli agli aeroporti, sotto lo sguardo di vigili poliziotti che non mancano di sorridere o di lasciarsi andare a qualche battuta un po’ spinta nel pieno della calura non alleviata dai condizionatori o del freddo che si ferma, rappreso, quasi come se fosse una sostanza chimica, tra una fila o l’altra. Certo sono spesso scortesi con gli stranieri. Sorridono dinanzi al loro incespicare linguistico e non fanno un cenno d’intesa quando non riescono a compilare bene i moduli di entrata sul suolo nord americano, che sono una sorta di burocratico benvenuto della bandiera a stelle e strisce.

Ma dura soltanto un attimo, poi sono richiamati dal dovere dell’impersonalità e dalle rigide norme che controllano il loro lavoro in forma mutua e che sono sorrette, soprattutto, da una formidabile tecnologia. È questa che trasforma il dovere-diritto della, e alla, sicurezza in una formidabile macchina di coesione sociale. Nell’information tecnhology, nel web e nell’intranet sta il nuovo orgoglio nord americano.

Me ne sono reso conto quando sono stato fermato all’aeroporto nel corso di uno dei miei rapidi viaggi di andata e ritorno da New York a Milano e a Roma che sono stato costretto a compiere con mio grande dispiacere. In occasione del secondo di questi, la signora nera che stava per timbrare il mio passaporto, mi ha guardato e mi ha detto:«Perché questo andare e venire?». Contenta della mia risposta, si è limitata a sorridere. Ma certo questa domanda mi ha colpito. Sullo schermo del suo grande computer doveva essere apparso il mio piccolo nome e dovevano essere registrati i miei spostamenti. E questo è, da un lato, rassicurante e, dall’altro, dona invece la sensazione di essere sempre sotto lo sguardo vigile di un demiurgo: lo Stato, con tutte le sue deviazioni, i suoi fallimenti, le sue prevaricazioni. Ecco cosa ci differenzia profondamente dai nord americani. Nonostante abbiano visto accadere sotto i loro occhi, in diretta televisiva, assassinii di presidenti e di loro congiunti, nonostante abbiano vissuto il terribile periodo dell’empeachment di Nixon, nonostante tutte le mostruosità che un Chomsky può trarre dall’armamentario della rigida opposizione al modello americano, ebbene, quest’ultimo trionfa proprio sul terreno del rapporto più delicato dei cittadini con lo Stato. La mia amica nord americana alla quale raccontavo quello che mi era accaduto era tranquillissima: era una questione di pura normalità, che rassicurava. Possiamo sempre sapere dove eravamo e nessuno potrà mai accusarci di aver compiuto azioni che non abbiamo compiuto, oppure di essere stati in luoghi in cui non siamo mai stati. «Non ti pare?» mi diceva, guardandomi di sottecchi e scuotendo la testa, come per dire, lo sapevo: «Poveri europei, come vi ha reso sensibili a queste cosucce il vostro orribile Novecento! Non potete fidarvi neppure dell’istituzione sorta per garantirla e dispensarla, la sicurezza!». E dall’alto della sua sapienza giuridica avrebbe potuto sciorinarmi una sequela di considerazioni teoriche che mi avrebbero lasciato esterefatto. Il problema è che lei, quando pensa all’autorità e alla libertà personale, non pone in contrapposizione questi due elementi fondanti della convivenza politica e civile, a differenza del nostro pensiero romanistico e statualistico, per cui, addirittura nel senso comune, l’autorità è divenuta sinonimo di potere, e quindi tutto il contrario di quella legittimata volontà che fonda, appunto, il governo senza il ricorso alla violenza o alla minaccia della medesima, e che è, correttamente intesa, l’autorità senza la quale nessuna libertà può nascere e progredire.

Si insiste troppo, grazie a una lettura superficiale di Tocqueville, sulle fondamenta associative della storia americana e della libertà che in essa è infusa. La ragione di questo pneuma liberatorio non risiede tanto nell’aggregazione associativa, quanto invece nel formarsi rapido e non senza violenze, beninteso, di una società civile forte e composita (di qui l’associarsi) sulla cui base, via via, si sarebbe poi costruito lo Stato nord americano, al servizio della società medesima. Tutto diverso il percorso europeo: prima si formano gli Stati imperiali e poi, dal loro crollo per via della luce nazionalistica, gli Stati nazionali, che quelle antiche macchine centralizzate ereditano e adattano alle nuove esigenze, mortificando e non esaltano una pur ricca e florida società civile.

La questione essenziale che comprova quello che sto dicendo, è il rapporto che il cittadino ha con i funzionari pubblici. Qui l’uso di esporre il proprio nome innanzi, bene in vista, è affatto scontato, dalla più giovane ragazza della biblioteca al più attempato funzionario postale, su su sino ai massimi responsabili dei servizi pubblici.

Anche il simpatico messicano che passa lunghe ore della sua giornata seduto nella piccola struttura che sorveglia l’entrata dell’istituto Remarque e che ormai mi saluta con un cenno del capo sempre divertito di vedermi ogni giorno vestito, come mi disse un giorno, «como se usted se casa» ( ossia come se mi sposassi), ebbene, anche Miguel porta bene in vista il suo nome e la sua fotografia sul petto. È per lui motivo di orgoglio e di compiacimento e per chi viene con lui in contatto per qualsivoglia incombenza o necessità si presenti, è un ulteriore motivo di tranquillità: Ecco che cosa si realizza: una condizione di transitività, ossia una relazionalità spontanea e immediata, che accomuna genti tra le più diverse come istruzione, censo, relazioni sociali, culture e gusti. Il sottile legame della sicurezza diviene vincolo e non costrizione. È questo il segreto della rilassata vita nord americana. Esso non può essere sostituito, né in tutto né in parte, dagli imponenti apparati militaristici di cui, dopo la tragedia dell’11 settembre, di lontano inizia a sentirsi il rombo, cupo e inquietante. Esso spezza questa splendida e unica tradizione.

 

Pasqua

È Pasqua. Ho sempre pensato che questa sia la vera festa per noi cristiani. È la resurrezione della carne il centro salvifico della nostra utopia: il ricongiungerci con il Salvatore in carne e ossa e sedere a fianco dei giusti, accanto a chi con noi, prima e dopo di noi, opera tramite la grazia e con la volontà per il bene comune. Ho sempre avuto la granitica certezza che in questa fede risieda l’essenza della teodicea che rende i cristiani diversi da ogni altra religione. È vero che la mitologia dell’incarnazione è un archetipo comune a molte delle speranze dell’umanità dipanatesi nei secoli; è vero che esistono mitologemi secolari dell’incarnazione divina e dell’ascensione al cielo, ma nessuno è così pervasivo della storicità concreta della figura del Cristo, in tutta la sua numinosità. Il cattolicesimo, inoltre, a differenza del prostestantesimo e di tutte le sue sette che si sono create sin da subito dopo la Riforma e ancora oggi si creano, conserva ancora il rilucente messaggio trascendente dei dogmi dell’incarnazione e della resurrezione in una composizione liturgica e provvidenziale che è diretta a non abbandonare mai l’uomo dinanzi alla storia e, soprattutto, dinanzi a Dio, infondendogli sempre il soffio della speranza comunitaria di cui sono depositari i ministri del culto.

Per questo in questa strana mattina newyorkese, dove il sole combatte con le nuvole plumbee e non si decide a inondare della sua luce i grattacieli e la mia finestra, i miei alberi e gli scoiattoli del mio giardino, in questa mattina in cui il caffè non vuole salire nella caffettiera per ristorarmi e in cui non odo il borbottio delle signore delle pulizie che scendono dalla scala di servizio con un incedere trasandato ma sempre civettuolo, in questa mattina che non è come le altre, mi avvio, alle ore 11 in punto, alla Santa Messa nella cappella cattolica dell’ università di New York. Si tratta di un edificio moderno che dà direttamente sulla Washington Square e che fu inaugurato, ricorda una lapida sbiadita dal tempo, da Paolo VI in occasione della Sua visita all’ONU, che costituì una svolta epocale per la presenza della chiesa romana nell’agone della politica internazionale.

Si tratta, sì, di un edificio moderno, ma dà, tuttavia, un senso di miseria: è assai trasandato e non ha nulla del lindore che qui hanno le chiese protestanti, tirate a lustro con ossessione e con orgoglio. Mi vengono a mente, guardando questa chiesa, le pagine di Graham Greene: uno scrittore che nella mia giovinezza ho molto amato e che era l’unico, salvo i miei idoli Pound-Joyce-Eliot, che riuscissi a leggere per trovare conforto e ispirazione; uno scrittore che epifanicamente faceva sorgere la speranza dalla disperazione e dai lati più oscuri e dimenticati della vita.

Di notte, spesso, sulle scale della chiesa, dinanzi a cui passo di fretta per tornare a casa a ore assai tarde, vi trovo dei barboni che dormono sugli scalini e che si stringono l’uno contro l’altro per riscaldarsi. Non ne ho mai visto nessuno sulle pietre della chiesa presbiteriana che è a poche decine di metri a fianco della chiesa cattolica e non me ne sono mai dato una ragione: perché i poveri non si sentono a loro agio, nella loro miseria, là dove la solitudine trasuda dalle pietre e la freddezza della fede pietrifica i cuori?

È lo stesso sentimento che provai tanti anni fa a Londra, quando insegnavo alla London School of Economics e cercavo, la domenica, un luogo per rimanere in pace con me stesso e i miei dubbi. Ricordo che trovai quel luogo in una chiesa cattolica a fianco del Tavicstock Institute, e quindi in pieno centro. Ma anche lì i marciapiedi erano mal tenuti, vi erano lattine di birra abbandonate e odori poco consoni alla casa del Signore. Eppure c’era lo stesso sentimento di umana pietà che, appunto, circola in tutti i grandi romanzi di Greene, a partire da «The Onorary Consul», dove una prostituta è la sola capace di amare e un uomo distrutto nella sua fede impugna le armi per morire nel fango.

Tutti questi pensieri mi frullavano in mente mentre mi avviavo verso la chiesa, mentre il cielo si era improvvisamente aperto e il sole inondava la strada e i giardini della piazza.

Entro nella chiesa. Sono l’ultimo. È già piena in ogni ordine di posti e questi saranno per circa duecento, duecentocinquanta persone, che ora siedono ordinatamente nei banchi. Entra il sacerdote, accompagnato da un piccolo ragazzo messicano dai capelli ricci che porta il libro dei vangeli.

Tutti ci alziamo in piedi.

Il sacerdote è piccolo di statura, con una chioma bianca ben pettinata, con una riga che discrimina i capelli quasi al centro del capo e che dà al suo volto un che di ieratico e di assorto, come in effetti è tutto il suo portamento. È un tono sostenuto nella persona e nell’incedere che non abbandonerà mai durante tutto il corso della cerimonia e che avrà la sua acme nella celebrazione della consunstanzazione eucaristica, dove questa ieraticità avrà esiti straordinari, nella semplicità della liturgia e nell’intensità del rito.

Mi pare una sorta di risposta alle laiche manifestazioni ieratiche di massa a cui ho assistito per molti giorni alla televisione, osservando i telegiornali: generali impettiti che sfilavano dinanzi alle truppe, soldati che cantavano attorno al presidente che terminava spesso il suo discorso con uno sbuffare non previsto a cui si rispondeva lo stesso con un applauso, sino al culmine dell’arrivo in un aeroporto del Texax dei marine che erano stati presi prigionieri e poi liberati dalle grinfie di Saddam Hussein: l’aereo era atterrato con un grande levarsi di polvere e da un passaggio in cima alla carlinga era emerso un altissimo marine nero che aveva inalberato una gigantesca bandiera americana a stelle e strisce e che aveva mandato in visibilio gli astanti, che erano moltissimi e che stipavano i dintorni della pista di atterraggio.

Il bisogno di simboli e di liturgie – ecco una riflessione tipicamente americana – è sempre più pressante nell’uomo moderno e questo lo si vede benissimo qui negli Stati Uniti. Mentre la razionalizzazione della vita differenziata ci spinge a concepire una socialità tutta regolata dall’Io e dalla coscienza acquisitiva, le pulsioni profonde dell’inconsciosi incarnano invece in noi, facendo risorgere i mitici archetipi della vita collettiva. Il nazionalismo offre una risposta a questo bisogno di massa. Qui negli States esso si unisce come non mai con l’industria culturale e divampa in continue trovate che sono bel oltre la propaganda: sono un collettore dell’esplosione delle pulsioni più sanguigne e vitalistiche che la guerra esorcizza e insieme invera nella società dello spettacolo.

In questa misera chiesa si celebra una pulsione anch’essa primordiale e antichissima, ma – a differenza di quella prima evocata – rasserenante e pacificante: la ritualità della riconciliazione con la divinità e con il mistero della sua trasformazione. È una liturgia per pochi, per nulla spettacolare, un po’ delabré e addirittura miseranda, a cui lo ieratico sacerdote si sforza di dare una dignità anche spettacolare tramite la sua persona di ministro. Come i paramenti non soltanto lo abilitano alla celebrazione con la divinità, ma da questa altresì lo proteggono, anche questa messa ci riconcilia con Dio e con Cristo e parimenti ci protegge dalla crudele storia, in una fraternità che altro non saprei chiamare che domestica e che fa apparire quelle altre celebrazioni per quello che sono: epifenomeni di potenza destinati a non produrre senso e significato con quella forza che ritroviamo, invece, nella nostra semplice e povera intimità di fedeli di una speranza che supera ogni confine e che si è ormai per sempre liberata, finalmente, dall’ agone di terrestri battaglie.

Osservo le persone che con me sono qui in chiesa e bene posso vederle dalla mia panca sul lato destro della chiesa: è l’ ultima della fila e ciò mi dà l’estro di bene osservare tutta la serie di persone che occupano la parte sinistra della chiesa. Cominciamo dalle ultime fila.

Qui sono raccolti i ritardatari, come me. Si tratta per lo più di giovani famiglie irlandesi. Le donne sono alte, alcune con bei capelli rossi e con al collo piccoli bambini frignanti che i mariti guardano sorridendo, trascinando palloni e carrozzelle in un caotico insieme di ciucci, salviette e scappellotti che volano frequenti per frenare le moine e le urla di noia di questi piccoli. Dai loro abiti si vede subito che si tratta di famiglie abbienti: vestono alla moda anche se casual, senza nessuna ostentazione, ma con un sussiego particolare che sarà rimarcato anche dalla deferenza con cui il sacerdote saluterà questi gruppi al termine della celebrazione. Poi più su ci sono le famiglie messicane e in generale chicanos. Belle e grasse le donne, con maglie e gonne dai colori vivaci, semplici nella loro allegria; insaccati e tosti gli uomini, molto devoti anch’essi, che tengono ordinati i bambini in fila con sguardi severi: i bambini con i capelli ancora umidi dell’acqua che le vecchie nonne, rimaste a casa con i più piccoli, hanno usato per piegare irsute manifestazioni di virilità. Le bambine ostentano tutte medaglie e medagline al collo e spesso le baciano dopo i segni di croce.

Poi ci sono le famiglie polacche, tutte bianche, floride e tristi, che pregano insieme a voce più alta che mai e che hanno occhi solo per il sacerdote.

Da questa comunità si staccano il ragazzo e la ragazza che raccolgono le offerte in due grandi e lunghi canestri di paglia e che sono molto fieri, così mi pare, di far questo. Infine i filippini: sono tantissimi, occupano le fila più avanzate che dividono con una sparuta minoranza di cinesi che vengono sommersi, tuttavia, da questa colonia tutta compita e devotissima anch’essa, soprattutto le donne, circondate da nugoli di bambini e che hanno sul volto le fatiche di una vita che non ha orari: dal mattino presto alla sera tardi a far pulizie nelle case e negli studi professionali, con i vecchi e con le signore che curano e ai cui ordini soggiacciono.

Qui, in chiesa, tutte le gerarchie sono finite, sono scomparse: siamo tutti uguali. Solo il sacerdote ripristinerà l’ordine sociale con il suo sottolineare l’importanza dei gruppi e dei singoli allorché ci darà il suo diverso saluto.

Quando siamo qui, dentro le mura della chiesa, la devozione è il solo e potente elemento unificante di tutti coloro che partecipano al rito. Me ne accorgo in occasione della celebrazione eucaristica, a cui partecipano praticamente tutti i fedeli, con in braccio i bambini e con le vecchiette sostenute dai più giovani in uno straordinario intrecciarsi di razze, di età, di culture che mi commuove. La celebrazione eucaristica mi colpisce profondamente, anche se a essa io non partecipo direttamente. Ci si avvicina all’altare in fila indiana, una fila lunghissima. Giunti dinanzi al sacerdote ci si ferma un attimo. Egli dona la particola consacrata al fedele, il quale o la quale se la pone in bocca e poi con il capo chino si rivolge a una triade di donne – le stesse che hanno letto i brani del vangelo e che hanno cantato più forte sulle note di un organo cigolante – che stanno a fianco del sacerdote e che porgono a ogni fedele il calice colmo di vino. Con esso ci si bagna le labbra prima di tornare raccolti al proprio posto. Una innovazione liturgica? Certo, mi appare indubitabile; come quella, ben più notevole, di far salire all’altare come compartecipanti al mistero anche delle donne.

Potenza innovativa del cattolicesimo nord americano, che è ben altra cosa dalla stereotipata immagine che viene dagli scandali sulla pedofilia!

Questo cattolicesimo è la religione degli esclusi, dei deboli, degli ultimi e che tuttavia sono già inclusi, non dimentichiamolo: è un segmento della capacità di inclusione della società nord americana.

Per la maggior parte siamo l’esercito industriale di riserva e l’esercito post-industriale «centrale» della nuova società nord americana proiettata verso il 2000: i nostri assets sono il lavoro servile e di cura alla persona che siamo svolgere con amore e maestria, e tutti quelli tecnologicamente più semplici.

Poi vi sono gli irregolari e i non classificabili, come il sottoscritto. Ma siamo ombre che sfumano, foglie secche che se le porta via il vento. Anche qui, nella primavera newyorkese, che non si decide a esplodere.