L'impossibile spartizione della Terra santa

Di Mahdi Abdul Hadi Lunedì 01 Settembre 2003 02:00 Stampa

La geografia della Palestina ha sofferto molto a causa dei numerosi cambiamenti negativi avvenuti nel corso del più lungo conflitto della storia moderna. La quantità e la complessità degli eventi di questo ultimo secolo, spesso intrecciati tra loro, rende intricati anche i ricordi e le percezioni della gente. Risulta quindi difficile, se non impossibile, comprendere appieno i motivi per cui non si è raggiunta a tutt’oggi una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Ma un fatto almeno è chiaro: anche a costo di sforzare al massimo l’immaginazione, finora nessuno dei tentativi di dividere la Terra santa tra palestinesi e israeliani può essere considerato come un successo.

 

La geografia della Palestina ha sofferto molto a causa dei numerosi cambiamenti negativi avvenuti nel corso del più lungo conflitto della storia moderna. La quantità e la complessità degli eventi di questo ultimo secolo, spesso intrecciati tra loro, rende intricati anche i ricordi e le percezioni della gente. Risulta quindi difficile, se non impossibile, comprendere appieno i motivi per cui non si è raggiunta a tutt’oggi una soluzione del conflitto israelo-palestinese. Ma un fatto almeno è chiaro: anche a costo di sforzare al massimo l’immaginazione, finora nessuno dei tentativi di dividere la Terra santa tra palestinesi e israeliani può essere considerato come un successo.

 

Le lezioni della storia

Per ripercorrere la storia della formula della spartizione occorre risalire al 1937. L’idea fu lanciata per la prima volta dalla British Peel Commission, che aveva studiato la situazione sul campo nel 1936, in seguito alla rivolta araba contro l’immigrazione ebraica e la politica del Mandato britannico. La Commissione giunse alla conclusione che il Mandato non era applicabile, che arabi ed ebrei non sarebbero convissuti pacificamente in un unico Stato, e che l’unica soluzione fosse la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e l’altro palestinese. Una delle molte ragioni dell’insuccesso del piano di spartizione Peel fu il mancato riconoscimento da parte dei britannici del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione: infatti, secondo la loro proposta, la parte del territorio del Mandato da assegnare ai palestinesi non doveva essere indipendente, autonoma e sovrana, bensì associata – o unificata – alla Transgiordania. Per di più, quando decisero di revocare l’autorità del Gran Muftì, capo del movimento nazionale palestinese dell’epoca, e di sciogliere tutti i comitati nazionali, compreso l’Alto comitato arabo, l’Arab higher committee, i britannici avevano sottovalutato la forza della leadership palestinese e l’influenza dei comitati nazionali. Vale la pena di menzionare che fu lo stesso Muftì, insieme ai comitati nazionali, a guidare per molti decenni la lotta per uno Stato palestinese indipendente.

Dieci anni dopo, nel 1947, la formula della spartizione fu proposta per la seconda volta con la risoluzione 181 dell’ONU, seguita dalla prima guerra araboisraeliana e dall’istituzione, nel 1948, dello Stato d’Israele. Il piano di spartizione del 1947 aveva assegnato il 43% del territorio allo Stato arabo e il 57% a quello ebraico, in un’epoca in cui gli ebrei non rappresentavano più di un terzo della popolazione totale, e controllavano solo il 7% del territorio.

Una delle molte ragioni del fallimento dei vari piani di spartizione era stata, ancora una volta, la negazione del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi, così come la sottovalutazione della loro capacità di resistenza e della perseveranza dei loro comitati nazionali. E per di più, ancora una volta i britannici, gli ebrei e i leader arabi tentarono di bypassare il popolo palestinese e la loro leadership, decidendo che il territorio a essi assegnato (o ciò che ne era rimasto dopo la guerra del 1948) non doveva essere sovrano e indipendente, bensì associato alla Transgiordania.

Nel 1962 la spartizione fu riproposta per la terza volta da Joseph E. Johnson, rappresentante speciale dell’ONU, che già nel 1950 aveva partecipato a una missione incaricata di affrontare la crisi dell’assetto idrico nella regione del bacino arabo. Nel presentare il suo piano sulla questione dei rifugiati palestinesi, Johnson affermò con insistenza che «l’unica base adeguata per risolvere equamente questo tragico problema» restava la risoluzione 194 dell’ONU, in base alla quale si doveva applicare il piano di spartizione del 1947 e consentire ai profughi palestinesi il ritorno nella loro terra. Uno dei motivi che anche stavolta impedirono l’attuazione del piano fu il rifiuto di Israele di considerare il popolo palestinese come una nazione e di riconoscerne i diritti politici e umani, tra cui quello all’autodeterminazione. Nel corso degli anni Sessanta i capi di Stato arabi, sempre in competizione tra loro, non furono in grado di presentare piani alternativi per impedire a Israele di dirottare le acque del fiume Giordano e per alleviare, se non risolvere, la tragica situazione dei profughi palestinesi nei paesi che li ospitavano. Per liberarsi almeno in parte delle responsabilità legate alla «questione palestinese», nel maggio 1964 i leader arabi decisero, in occasione di un incontro della Lega araba, di designare un rappresentante palestinese, nella persona di Ahmad Shiqeiri, e di ricostituire un’entità palestinese attraverso l’istituzione dell’OLP.

La nozione di spartizione ricomparve sulle prime pagine dei giornali nel 1965, quando il presidente tunisino Habib Bourgiba visitò i campi dei profughi palestinesi della Cisgiordania e preconizzò una soluzione del conflitto attraverso la creazione di due Stati, negoziabile tra arabi e israeliani e basata sul piano di spartizione del 1947. Ma anche questa iniziativa, come tutte quelle che l’avevano preceduta, era destinata a fallire, soprattutto a causa del rifiuto israeliano di negoziare in base al piano di spartizione del 1947, e dell’insistenza di Israele a negare che i palestinesi fossero un popolo e avessero dei diritti. Gli israeliani preferivano invece condurre negoziati bilaterali, separati e diretti con gli Stati arabi, come dichiararono esplicitamente Abba Eban e Levi Eshkol, all’epoca rispettivamente ministro degli Esteri e primo ministro di Israele.

Ma anche i leader arabi, preoccupati di contenere l’OLP recentemente costituito, respingevano le proposte di Bourgiba, e dedicavano scarsissima attenzione alle organizzazioni palestinesi emergenti. Vale la pena di ricordare che le suddette organizzazioni stabilirono basi politiche e militari nei paesi del Golfo, e si impegnarono tenacemente per sviluppare e far riconoscere un’agenda e un potere decisionale palestinesi indipendenti in vista del futuro della Palestina.

Dopo la guerra dei sei giorni del giugno 1967, nel corso della quale le forze israeliane occuparono la Cisgiordania, la Striscia di Gaza, le alture del Golan in Siria e la penisola del Sinai in Egitto, emerse ben presto che l’attuazione del piano di spartizione era diventata ormai impossibile, anche se la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del giugno 1967 prevedeva il «ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto», la «cessazione di tutte le rivendicazioni o stati di belligeranza» e «una soluzione equa del problema dei profughi».

La guerra del 1967 fu seguita da numerose battaglie regionali, tra cui la guerra d’ottobre del 1973, che causò migliaia di morti e di feriti. Al tempo stesso Israele, pur respingendo con veemenza la nozione di uno Stato palestinese, iniziò a porre in atto una politica di creazione di fatti compiuti, attraverso l’annessione e la confisca di terre occupate e la costruzione di colonie. Nel frattempo i leader arabi reclamavano l’attuazione della risoluzione 242, mentre la nuova leadership dell’OLP, sotto la presidenza di Arafat dal 1969, chiedeva il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione e al rimpatrio, e l’istituzione di uno Stato indipendente sul suolo palestinese. È il caso di menzionare che nel corso degli anni, vari mediatori avevano portato avanti innumerevoli tentativi di risolvere il conflitto e di dispiegare forze internazionali di mantenimento della pace nella regione; ma tutte queste iniziative, deboli e incomplete, hanno avuto vita breve.

Quasi un decennio dopo la guerra di giugno, la nozione di spartizione era tornata ad affacciarsi nel dibattito in seguito al discorso tenuto da Jimmy Carter il 16 marzo 1977, in cui l’allora presidente americano uso l’espressione «Palestinian homeland», patria  palestinese, che non era mai stato usato prima da un esponente ufficiale americano. In quella occasione, Carter formulò tre principi di base per assicurare una pace durevole in Medio Oriente: la normalizzazione delle relazioni, specificamente in campo commerciale e negli scambi di diplomatici; dispositivi di sicurezza per tutte le parti in causa e soluzioni al problema palestinese nei suoi aspetti sia politici che umanitari. Ancora una volta, gli sforzi per porre fine al conflitto e istituire uno Stato palestinese fallirono in seguito al rifiuto di Israele, che per di più non voleva riconoscere l’OLP e neppure trattare direttamente con questa organizzazione, insistendo invece sull’idea di una confederazione dei palestinesi con la Giordania. Frattanto in altre sedi, come negli accordi  di Camp David del 1978 e nel successivo trattato di pace tra Egitto e Israele del marzo 1979, veniva riconosciuto lo Stato d’Israele, ma non il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione e a uno Stato proprio. Per loro, l’agenda politica non prevedeva altro che un piano d’autonomia quinquennale!

Un altro grave colpo alle aspirazioni palestinesi fu il piano presentato il primo settembre 1982 dall’allora presidente americano Ronald Reagan, nel quale gli Stati Uniti si dichiaravano contrari sia alle annessioni da parte di Israele, sia alla creazione di uno Stato palestinese indipendente, indicando come alternativa d’elezione una forma di autogoverno palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza in associazione con la Giordania. Tuttavia, quest’ultima posizione statunitense presentava anche alcuni aspetti positivi, dato che chiedeva ad esempio il congelamento della costruzione di nuove colonie israeliane durante il periodo di transizione, e prevedeva un’autorità palestinese con poteri effettivi sul territorio e sulle risorse palestinesi, così come il diritto di voto dei palestinesi residenti a Gerusalemme Est per l’elezione di un’autorità di autogoverno.

Com’era facile prevedere, Israele respinse immediatamente il piano di Reagan, per voce dell’allora primo ministro Begin. E il ministro della difesa Sharon dichiarò di sperare «che la sconfitta dell’OLP in Libano» gli consentisse «di dettare le sue condizioni nei negoziati sul futuro dei territori occupati dai palestinesi per riservare a Israele il controllo indiscusso della Cisgiordania».1 Non molto tempo dopo, Sharon assunse il comando dell’invasione israeliana del Libano, «costata 21.000 morti tra palestinesi e libanesi, e 600.000 senzatetto».2 Nel complesso, la risposta araba al piano Reagan fu prevalentemente positiva. D’altra parte però, i palestinesi e la loro leadership respingevano il ruolo fiduciario assegnato alla Giordania, e consideravano il piano come una fotocopia di Camp David, che già aveva mancato di assicurare loro uno Stato indipendente.

Gli anni Ottanta videro una successione di formule politiche, tutte miranti a contenere il conflitto e a gettare le basi per una svolta che consentisse di arrivare infine a una soluzione. Tra i vari esempi figurano le proposte provenienti dal mondo arabo e dagli stessi palestinesi, come il piano in otto punti del vertice di Fez del settembre 1982, gli accordi tra palestinesi e giordani del febbraio 1985 e l’agenda, molto chiara, delle sessioni tenute dal Consiglio nazionale palestinese in Algeria (nel corso della diciottesima e diciannovesima sessione, svoltesi rispettivamente nell’aprile 1987 e nel novembre 1988, furono adottati i 14 punti menzionati nel febbraio 1987 dal primo manifesto dell’Intifada). Tutte queste formule, senza eccezione alcuna, postulavano la fine dell’occupazione israeliana della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e di Gerusalemme Est, l’istituzione di uno Stato palestinese con capitale a Gerusalemme Est e la soluzione del problema dei profughi, in ottemperanza alle risoluzioni dell’ONU. Le due superpotenze erano intervenute con iniziative separate: il presidente dell’Unione Sovietica Brezhnev aveva presentato, nel settembre del 1982, un piano in sei punti, con contenuti essenzialmente corrispondenti a quelli delle formule arabo-palestinesi, mentre il Segretario di Stato americano George Schulz aveva lanciato, il 4 marzo 1988, un’iniziativa in favore di negoziati di pace tra Israele e una delegazione giordano-palestinese, basati sulle risoluzioni 242 e 338.

Passando a esaminare la posizione israeliana in relazione alle diverse iniziative degli anni Ottanta, si osserva un atteggiamento immancabilmente negativo: Israele dice no alla fine dell’occupazione, no allo Stato palestinese, no alla spartizione di Gerusalemme, no al diritto al ritorno dei profughi palestinesi.

Fortunatamente, gli anni Novanta hanno portato con sé vari cambiamenti storici, e la maggior parte degli Stati hanno cercato di innovare i loro rapporti reciproci e le loro politiche. Si è aperta così la strada a una nuova cultura del riconoscimento e della  riconciliazione tra le parti coinvolte nel conflitto mediorientale. Molti però continuavano a nutrire dubbi sulla praticabilità di quest’approccio per porre fine allo stato di belligeranza, mentre altri si perdevano nei dettagli. I principali eventi di quel periodo furono l’Intifada palestinese degli anni 1987-1993, la crisi del Golfo (dal 2 agosto 1990 al 28 febbraio 1991), il rafforzamento della presenza militare americana nella regione, il crollo del muro di Berlino (il 9 novembre 1989) e la fine dell’Unione Sovietica, che era stata fino a quel momento una delle due superpotenze globali.

In seguito alla convocazione, da parte del presidente americano George Bush senior, di una conferenza di pace sul Medio Oriente basata sulla formula land for peace, il 31 ottobre 1991 a Madrid Europa, Russia, Stati arabi, i palestinesi e gli israeliani parteciparono a una serie di sforzi collettivi per giungere a una soluzione in grado di porre fine al conflitto. Ma benché nel periodo tra il 1988 e il 1999 i palestinesi e gli israeliani avessero partecipato attivamente al dialogo, agli incontri, ai negoziati così come alla redazione di documenti comuni, Israele non cessò mai di espandere le proprie colonie nei cosiddetti territori OPT, Occupied Palestinian Territories, e i palestinesi portarono avanti le loro Intifada, la resistenza civile e armata. Eppure, grazie alle innumerevoli riunioni che ebbero luogo in quel periodo, si riuscì ugualmente ad arrivare a una svolta, e a denunciare una serie di tabù riguardanti le principali problematiche, quali l’assetto geografico del futuro Stato palestinese, l’identità dei coloni nell’ambito di una soluzione basata sulla formula dei due Stati, il futuro di Gerusalemme e quello dei profughi palestinesi.

Nei negoziati del 1991 a Washington, indetti in seguito alla conferenza di Madrid, la sfida fu lanciata dal cosiddetto «testo sacro», il piano israeliano per l’autonomia basato sulla tesi esposta fin dal 1978 a Camp David dal primo ministro Begin. A questo documento ha fatto da contraltare la formula degli inside Palestinians per una fase di transizione, avallata, sia pure con riluttanza, dalla leadership dell’OLP, che all’epoca aveva stabilito la sua sede a Tunisi. La presentazione del contro-documento palestinese, denominato piano PISGA (Palestinian Interim Self-Government Authority, o Autorità palestinese di autogoverno ad interim) era stata preceduta dall’apertura di vari canali segreti, uno dei quali fornì la Dichiarazione dei principi di Oslo nel 1993. Tali eventi contribuirono a facilitare un processo attraverso il quale i due leader, Rabin e Arafat, concordarono infine un riconoscimento reciproco pubblico e formale, sancito dalla storica stretta di mano tra i due leader alla Casa Bianca, nel settembre 1993.

Il giudizio sull’autenticità di questo riconoscimento, così come sulla svolta che doveva comportare, richiederebbe un esame delle due situazioni, assai diverse, dei palestinesi e degli israeliani, nonché dell’agenda politica dei rispettivi leader in quel periodo. In particolare, si dovrebbe dedicare grande attenzione all’equilibrio di forze e alle ragioni per le quali la formula di Madrid ha finito per dissolversi in una serie di formule incomplete quali Oslo I e II (1994-1995), Wye River (1997), Sharm El-Sheikh (1999), Camp David II (luglio 2000) e Taba (2001).

A conclusione di tutti questi tentativi, il presidente americano Bill Clinton tentò, all’ultimo momento, di mettere insieme le diverse proposte formulate negli anni Novanta per cercare, nel dicembre 2001 di arrivare a una svolta con i suoi «parametri»; ma era ormai troppo tardi per assicurarsi di avere l’accordo delle parti, dato che il mandato del presidente stava per scadere. A questo riguardo si poneva infatti un altro problema: non c’era alcuna garanzia che la nuova amministrazione avrebbe adottato gli stessi criteri.

 

La Road Map

I tentativi più recenti per trovare una soluzione sono stati compiuti sullo sfondo di un nuovo ordine mondiale, in un’era caratterizzata da una diffusa preoccupazione per gli sviluppi dell’economia, la proliferazione di armi di distruzione di massa nella regione, la guerra contro il terrorismo e il contenimento dei movimenti islamici. L’interesse di vari paesi, e in particolare degli Stati Uniti, per questi problemi è divenuto sempre più evidente l’11 settembre. Tali eventi hanno conferito maggior potere alla nuova amministrazione guidata da George W. Bush, che ha potuto così giustificare il suo coinvolgimento nel «pantano» mediorientale. In parallelo con l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq è stata messa a punto una nuova formula politica per la divisione della Terra santa. Vale la pena di menzionare il fatto che la formula in questione – la Road Map, un tracciato basato sul conseguimento di risultati e teso ad un preciso obiettivo – è per molti versi simile alle formule precedenti, presentate o suggerite da mediatori internazionali, che hanno portato tutte alle seguenti conclusioni:

1. Una soluzione che preveda due Stati laici non corrisponderebbe alla tesi sionista o alle aspirazioni nazionaliste di uno Stato ebraico.

2. La prosecuzione del controllo (cioè dell’occupazione) di una delle due parti sull’altra, a prescindere dalla sua durata (in questo caso di oltre cinquanta anni) e da quanto sia brutale e sanguinoso (tra i palestinesi si contano migliaia di vittime, più di mezzo milione di persone in carcere e oltre tre milioni tra profughi ed esiliati) è incompatibile con il ritorno alla stabilità di Israele e della regione nel suo complesso.

3. I tentativi di mantenere lo status quo, con tutti i suoi rischi sul piano demografico e della sicurezza per Israele e con il perdurante diniego dei diritti dei palestinesi, non sono più ammissibili.

4. Di conseguenza, l’unica soluzione realistica non può che consistere in una forma di spartizione della Terra santa, andando incontro ad almeno alcune delle aspirazioni palestinesi.

Sul quarto punto, l’iniziativa più recente è stata lanciata con il famoso discorso tenuto da George W. Bush il 24 giugno 2002, che ha avuto l’avallo dell’Unione Europea, della Russia e delle Nazioni Unite il 16 luglio 2002, e quindi il 17 settembre, nell’ambito di una dichiarazione ministeriale del Quartetto. A quella data la seconda Intifada, esplosa nel settembre 2000, era ormai in atto da quasi due anni. Nel suo discorso, Bush espose nei dettagli la sua visione di una sistemazione permanente e negoziata tra le parti, dichiarando che il risultato sperato doveva essere «uno Stato palestinese indipendente, democratico e sostenibile, che possa vivere fianco a fianco con Israele nella pace e nella sicurezza». Questa nozione è stata successivamente esplicitata dalla Road Map e presentata ufficialmente, il 4 giugno 2003, al mini vertice di Aqaba, presieduto da Bush e limitato ai due premier israeliano e palestinese, Ariel Sharon e Abu Mazen.

La Road Map ha posto in evidenza l’importanza dell’interconnessione tra i tre principali elementi del conflitto: il territorio – o in altri termini, l’area che è stata oggetto di «un’occupazione iniziata nel 1967»; la popolazione, compresi i profughi (la Road Map postula peraltro una soluzione concordata, giusta, imparziale e realistica del problema dei profughi); il principale fattore simbolico, cioè il problema di Gerusalemme, con tutte le sue implicazioni politiche, religiose e sociali. Il documento della Road Map ricorda tra l’altro agli interessati che la base sulla quale dovranno concentrarsi i negoziati è data dalle Risoluzioni 242, 348 e 1397 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, e insiste sulla necessità di stabilire fasi chiaramente delimitate, con termini e scadenze prefissate e con riferimenti precisi per le verifiche, al fine di favorire l’attuazione di passi reciproci, sia in campo politico, economico e umanitario che in quello della sicurezza e della creazione di istituzioni, sotto gli auspici del Quartetto. Il fine ultimo della Road Map è una «soluzione globale e definitiva del conflitto entro il 2005», basata su una «full two-state solution» (una soluzione che preveda due Stati pienamente indipendenti). I primi passi da compiere sono: porre fine al terrorismo palestinese e congelare la costruzione di colonie o la loro espansione da parte israeliana.

Il Vertice di Aqaba ha coinciso con il trentaseiesimo anniversario dell’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Non ci si può quindi sorprendere se molti dubitavano che esso potesse aprire veramente uno spiraglio di speranza, soprattutto alla luce della presenza e del dominio politico, economico e militare degli Stati Uniti nella regione.3 Un altro grave motivo di preoccupazione era costituito dal rischio che già le quattordici riserve israeliane sulla Road Map, sottoposte alla considerazione degli Stati Uniti, chiudessero quello spiraglio di speranza, come già era avvenuto con la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza del 1967: un documento che tuttora riemerge di continuo e viene interpretato in vari modi, soprattutto per quanto riguarda l’inclusione o l’esclusione del termine «territori occupati» dai quali le forze israeliane dovrebbero ritirarsi, e il modo per conseguire una giusta soluzione al problema dei profughi.

 

La posizione israeliana

Come era prevedibile, ancora una volta il governo israeliano ha ignorato o distorto l’essenza dei tre elementi fondamentali del conflitto. Sulla questione del territorio, Sharon ha proposto «la divisione della Terra santa» e la creazione di uno Stato palestinese su un’area corrispondente al 42% della Cisgiordania, escludendo Gerusalemme (il che equivale a meno del 9% della Palestina del Mandato britannico). Fondamentalmente, Sharon ha proposto di creare, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, dove vivono 3,5 milioni di palestinesi, una sorta di «Stato dei coloni» per circa 400.000 coloni israeliani che occupano attualmente con i loro 200 insediamenti l’1,6% del territorio della Cisgiordania.4

Il governo israeliano ha risposto alla Road Map applicando all’estremo la «dottrina delle tre G» di Sharon: guards, gates, and guns (guardie, cancellate, armi). I gates hanno assunto la forma di più di 100 posti di blocco, che di fatto isolano tutti i centri abitati e i campi profughi palestinesi. Per aggravare ancora le cose, dopo aver costruito la sua gigantesca barriera di «sicurezza» Israele ha messo in funzione solo 14 varchi su un totale di 41 (anche se continua a sostenere che sono tutti accessibili). Israele ha di fatto tentato di reprimere, imprigionare e umiliare 3,5 milioni di palestinesi, e al tempo stesso mantiene in stato di detenzione più di 6.500 persone, compreso il leader eletto dell’OLP e dell’Autorità nazionale palestinese: in questi ultimi due anni, Yasser Arafat è stato tenuto praticamente prigioniero nei suoi uffici di Al-Muqat, a Ramallah. Al tempo stesso, gli israeliani hanno portato avanti in maniera strisciante il loro piano unilaterale di separazione, con operazioni di chiusura, e in particolare con la cosiddetta barriera «di sicurezza», ovvero «di apartheid»: un progetto che ha ben poco a che fare con la sicurezza, e molto con la volontà di dividere i territori e distruggere le infrastrutture palestinesi, schiacciando ogni aspirazione a uno Stato indipendente. Come se un coltello acuminato fosse piantato nella carne viva della Palestina, isolando numerosi villaggi e minacciando alcune delle sue maggiori città.5 A giudicare dall’interpretazione e dalla risposta israeliana alla Road Map, non si può non concludere che il progetto di una soluzione basata su due Stati è ormai morto, e al suo posto è subentrato, quanto meno nella mente degli israeliani, quello di un regime di apartheid, che peraltro esiste già a tutti gli effetti.

 

La casa palestinese

La leadership palestinese, che già aveva accettato tutti i piani precedentemente proposti dagli Stati Uniti – il rapporto Mitchell, il piano di George Tenet (della CIA) e la proposta di sicurezza del generale Zinni – ha deciso di accettare la Road Map nella forma presentata dal Quartetto.6

Durante gli anni Novanta, il movimento nazionale palestinese ha visto svilupparsi vari schieramenti politici, mentre altri sono scomparsi. I gruppi più importanti, che erano riusciti a mantenere e a rafforzare una salda presa sul suolo palestinese e ad espandere al tempo stesso la loro area d’influenza tra la cittadinanza, sono il grande movimento Al Fatah, in cui converge, secondo la mia valutazione, il 40-45% della società palestinese; i gruppi islamici (presumibilmente il 18-20%) e un terzo gruppo, quello degli autoproclamati «indipendenti», formato soprattutto da professionisti occupati prevalentemente nel settore privato e in varie organizzazioni, tra cui le ONG. Quest’ultimo schieramento comprende, sempre in base a una mia stima, tra il 10 e il 15% della società; la maggioranza dei suoi membri ha scelto di rimanere per ora in una posizione di attesa, prima di prendere una decisione e di dichiarare la propria affiliazione politica. Quanto all’opposizione laica, è rappresentata da piccoli gruppi che però riescono a farsi sentire a voce relativamente alta, con classici slogan di sinistra: ad esempio il People’s Party (Partito del popolo, ex comunista), il DFLP (Democratic Front for the Liberation of Palestine) e il PFLP (Popular Front for the Liberation of Palestine).

Il movimento Al Fatah, guidato negli ultimi quattro decenni dal presidente Arafat, comprende la vecchia guardia dei gruppi di resistenza del Muqawama, che detiene tuttora i posti di potere del Consiglio centrale. Vi figurano inoltre quei professionisti e uomini d’affari che rappresentano il grosso dell’élite dei rimpatriati, e sono riusciti a monopolizzare l’economia, con l’aiuto dell’apparato di sicurezza palestinese. C’è poi la giovane generazione della società palestinese dell’Intifada del 1988 e gli attivisti delle brigate Tanzim e Al-Aqsa, che portano l’onere e la responsabilità dell’Intifada attuale; e infine il 70% circa dei membri del Consiglio legislativo palestinese, e la maggior parte dei 119.000 impiegati delle istituzioni governative dell’ANP.

Dal 1993, sotto la guida di Arafat, il regime di Al Fatah si è caratterizzato come uno dei tanti regimi arabi autoritari, completo di censura e di forze di sicurezza dai metodi brutali. Di conseguenza, da varie parti si ritiene inevitabile che le aspirazioni riformiste della società palestinese facciano esplodere molte crisi interne; e si prevedono scarsi cambiamenti e continue lotte di potere all’interno di Al Fatah.

Le organizzazioni non governative palestinesi, avvantaggiate per aver avanzato rivendicazioni riformiste nel momento stesso in cui anche dagli Stati Uniti, dall’Europa e da Israele provenivano richieste simili, in questi ultimi tempi reclamano con più insistenza riforme globali e una nuova leadership. Queste richieste non sono state vane. La legge fondamentale è stata firmata dal presidente Arafat nel maggio 2002, mentre un comitato professionale recentemente istituito ha presentato, nel dicembre 2002, un nuovo progetto di Costituzione palestinese, reso di pubblico dominio nel gennaio 2003. Oggi i membri dei vari gruppi di Al Fatah si trovano in una fase delicata, soprattutto per quanto riguarda l’adesione alle varie correnti e i rispettivi interessi politici. Sono confrontati con due scuole di pensiero diverse, e con due leader pure molto diversi tra loro, e devono quindi scegliere tra la vecchia scuola di Arafat e il suo motto: «rivoluzione fino alla vittoria», e quella dalla quale è emersa la figura dell’ex primo ministro Abu Mazen, che può essere rappresentata dallo slogan «dialogo e negoziati con l’obiettivo dello Stato palestinese». Il secondo schieramento politico, quello dei gruppi islamici, continua a denunciare la Road Map come un complotto volto a porre fine all’Intifada senza dare nulla in cambio ai palestinesi; e piccoli gruppi di opposizione come il PFLP la definiscono una «frode», citando a sostegno del loro giudizio l’odio e l’ossessione vendicativa degli israeliani, le loro incessanti incursioni nelle città palestinesi e nei campi profughi e gli omicidi di attivisti politici palestinesi. La terza componente visibile della casa palestinese, costituita dagli «indipendenti», dalla «sinistra» e dai nazionalisti panarabi, comprende molti professionisti del settore privato e delle ONG, oltre a vari accademici e osservatori «silenti». I membri di questo schieramento, il cui programma è di promuovere riforme politiche, economiche, amministrative e della sicurezza per favorire una cultura della democrazia e dello Stato di diritto, si trovano compressi tra i due maggiori schieramenti politici, cioè tra Al Fatah e Hamas, con possibilità di competizione scarse o nulle.

Per tutte le ragioni sopra menzionate, la leadership palestinese attende con ansia che Israele adotti le misure di costruzione della fiducia urgentemente necessarie, che potrebbero permetterle di convincere il cittadino medio della necessità di aderire a una nuova cultura basata sul negoziato, con la speranza di porre fine al «dissanguamento» della società palestinese come di quella israeliana. E di favorire un ravvicinamento tra i due popoli, in un ambiente in cui l’animosità e la violenza lasci il posto alla riconciliazione e alla convivenza.

Considerando gli esiti di tutti i tentativi sopra menzionati, e davanti alle carte geografiche frammentate per dividere la Terra santa in due Stati indipendenti, appare sempre più chiaro che la via della pace e della sicurezza può essere fondata soltanto sulla giustizia, sull’equanimità e sull’uguaglianza, sia per quanto riguarda i problemi del territorio che per quelli delle popolazioni e dei loro riferimenti simbolici. Diversamente, la via rimarrebbe irta di ostacoli, e sfocerebbe inevitabilmente in un vicolo cieco. Giustizia, per i diritti dei palestinesi in terra palestinese. Uguaglianza, perché i rapporti tra i due popoli siano governati in base a norme uguali per tutti, che non comportino due pesi e due misure. Equanimità dei mediatori i quali, a prescindere dalla loro potenza più o meno grande, devono essere disponibili ad agire in maniera imparziale e trasparente, a vigilare sull’attuazione di quanto è stato concordato e a contribuire alla costruzione la fiducia, rifuggendo da scorciatoie o vie traverse per inseguire interessi personali o giochi politici di breve respiro.

Gli israeliani sono stati ufficialmente invitati da tutti i leader arabi, ivi compresi i palestinesi, a divenire cittadini pienamente riconosciuti del Medio Oriente, su un piano di uguaglianza; ma hanno declinato questa offerta. E hanno rifiutato anche quella di un’area pari al 78% della Palestina storica in cambio del riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, che occuperebbe solo il 22% del territorio palestinese originario. Ossessionati come sono dalla tesi del loro diritto esclusivo e dalla conseguente necessità di controllare gli altri, hanno scelto di respingere queste proposte e di continuare a negare i diritti del popolo palestinese, perseverando nel loro spirito vendicativo. Tutto ciò significa, in parole povere, che molto probabilmente la paura e l’animosità continueranno per molti anni a tormentare i popoli della Terra santa. E significa anche che l’ultimo tentativo, quello della Road Map, di dividere questo territorio avrà una sorte analoga, se non identica a quella delle formule che l’hanno preceduto.

 

 

Bibliografia

1 S. Avi, The Iron Wall: Israel and the Arab World, Penguin Books, Londra 2000 p. 401.

2 The Palestine Question in Maps 1878- 2002, PASSIA Publication, agosto 2002, p. 60.

3 «Rivolgo un invito pressante alle nazioni dell’intera regione ad aprire i loro mercati, a ricercare scambi commerciali più ampi nel mondo e ad unirsi a noi per creare entro un decennio un’area USA - Medio Oriente». Dichiarazione del presidente degli Stati Uniti Bush dopo un vertice con i leader arabi a Sharm Esh-Sheikh, Egitto, il 4 giugno 2003.

4 «Quello che è stato proposto è un regime di cantoni etnici all’interno di un’unità politica comparabile al passato assetto del Sudafrica», M. Benvenisti, in «Ha’aretz», 19 giugno 2003.

5 «Più di 20.000 palestinesi sono intrappolati sul lato israeliano della barriera, che taglia in due alcuni centri abitati, come nel caso del villaggio Jayous, uno dei 51 villaggi isolati dal loro territorio. (…) La barriera sconfina all’interno della Cisgiordania, accorpando al lato israeliano quasi 30.500 acri, cioè quasi il 2% del territorio della Cisgiordania», N. Gaouette, in «Christian Science Monitor», 14 agosto 2003.

6 Il 17 ottobre 2000, al termine del vertice per la pace in Medio Oriente a Sharm Esh-Sheikh (Egitto), i partecipanti – Israele, l’ANP, l’Egitto, la Giordania, gli Stati Uniti, le Nazioni Unite e l’Unione Europea – decisero di stabilire un Comitato per l’accertamento dei fatti, con il compito di esaminare gli eventi (esplosione dell’Intifada) delle settimane precedenti e trovare il modo per fermarli. Il Comitato era presieduto da George J. Mitchell, ex senatore e leader della maggioranza al Senato americano, e composto dai seguenti membri: Suleyman Demirel, nono presidente della repubblica di Turchia, Thorbjoern Jagland, ministro degli Esteri della Norvegia, Waren B. Rudman, ex senatore americano e Javier Solana, Alto rappresentante della Politica estera di sicurezza comune dell’Unione Europea. Il rapporto Mitchell, completato il 30 aprile 2001, è stato pubblicato il 20 maggio 2001.