Confini orientali: le foibe e i tabù della storia

Di Marco Coslovich Lunedì 02 Giugno 2003 02:00 Stampa

Ripensare al passato rinunciando ai paradigmi dell’ideologia «classica»: oggi la sinistra italiana è impegnata su questo versante. La riformulazione e la valorizzazione del suo patrimonio politico e ideale, parte, infatti, dalla rilettura che saprà fornire della storia. Un esempio? Il significato della vittoria che sancì la fine del secondo conflitto mondiale. Non nascondiamoci che per lungo tempo la sinistra comunista considerò la vittoria come una vittoria dimezzata.

 

Ripensare al passato rinunciando ai paradigmi dell’ideologia «classica»: oggi la sinistra italiana è impegnata su questo versante. La riformulazione e la valorizzazione del suo patrimonio politico e ideale, parte, infatti, dalla rilettura che saprà fornire della storia. Un esempio? Il significato della vittoria che sancì la fine del secondo conflitto mondiale. Non nascondiamoci che per lungo tempo la sinistra comunista considerò la vittoria come una vittoria dimezzata. Per chi guardava alla realizzazione del comunismo, la democrazia ritrovata era ritenuta un valore transitivo e incompleto. Ma noi italiani che abitiamo lungo i confini della Venezia Giulia, conosciamo bene il valore ambiguo di quella visione. Sappiamo cosa ha significato la realizzazione del regime comunista di Tito e abbiamo, di conseguenza, vissuto senza stupore, anche se con grave cupezza, il tragico fallimento della Jugoslavia socialista. Noi conosciamo la violenza comunista che sta all’origine del mito comunista perché siamo stati testimoni di un evento tragico: le «foibe», le voragini carsiche dove furono gettate le vittime della «rivoluzione». Quante vite (molte delle quali di «compagni») sono state inutilmente stritolate nei campi di concentramento jugoslavi di Goli Otok, Sremka Mitrovica, Bileča, Borovnica, solo per citare alcuni?1 Quante vite sono state inutilmente travolte e deragliate nel grande esodo (1945-1955) che colpì la vasta comunità italiana dell’Istria e Dalmazia in fuga dalla Jugoslavia socialista?2 Per gli italiani delle province orientali il comunismo non fu un’ipotesi più o meno remota, un mito incerto d’oltre cortina, ma fu progetto politico fatto di carne e di sangue che per lunghi anni ha continuato ad incombere di là dal confine.

È un’esperienza che incontriamo a pochi passi dai confini nazionali. È tempo che il resto del paese se ne accorga, e soprattutto che la sinistra democratica faccia fino in fondo i conti con questo passato e ne diffonda l’insegnamento. Si tratta di un’operazione solo apparentemente facile perché quando la storia è ingorgata dalla fede ideologica e da migliaia e migliaia di morti, è difficile mettersi d’accordo anche sui nudi «fatti».

Il fenomeno delle foibe va distinto in due momenti: gli «infoibamenti» del settembre 1943, a ridosso dell’8 settembre, e gli «infoibamenti» immediatamente successivi alla fine della guerra (maggio 1945). La natura e le caratteristiche delle due fasi sono diverse. Gli arresti e le esecuzioni sommarie avvenute per lo più all’interno dell’Istria nel settembre 1943, furono piuttosto casuali e convulsi. In questa prima fase si mescolano varie componenti. Sicuramente ci fu un forte revanscismo nazionalistico da parte slava (in questo caso non si deve avere la memoria corta e bisogna ricordare che il fascismo praticò durante il ventennio una dura repressione antislava a causa della quale fu negata l’identità nazionale degli sloveni e dei croati).3 Ci furono anche torbide vendette personali mescolate a profondi risentimenti sociali contro la classe abbiente che s’identificava soprattutto con la componente italiana: notabilato locale, proprietari terrieri, funzionari e gerarchi del partito ecc. Non va tuttavia minimizzata la portata politica e ideologica anche di questa prima fase delle foibe, che vide attive le cellule comuniste croate diffuse sul territorio. Il dato ha un certo peso, perché assume valore il fatto che le foibe non possono, in questo caso, considerarsi una mera risposta alle violenze nazifasciste che si sarebbero rivelate in tutta la loro tragicità in seguito, soprattutto nel corso del 1944-45. In questa circostanza si calcola che furono eliminate dalle 500 alle 600 persone, tra le quali, vanno conteggiati anche degli sloveni e dei croati anticomunisti.

Gli «infoibamenti» alla fine della guerra hanno invece tutt’altra dimensione, sia quantitativa sia qualitativa. Tra Gorizia e Zara (le zone all’interno della ex Jugoslavia sono un’altra questione ancora), gli angloamericani hanno calcolato che «sparirono» dalle 6000 alle 4000 persone. Uso il termine sparirono perché nelle foibe di Trieste e Gorizia, tra il marzo 1945 e l’aprile 1948, furono esumati esattamente 464 corpi (217 civili, tra i quali molti collaborazionisti e fascisti, e 247 militari italiani e tedeschi, molti caduti in guerra). Sicuramente il fenomeno fu molto più vasto, ma che tutti i 4-6000 «scomparsi» accertati dagli anglo-americani siano stati infoibati, non possiamo affermarlo con certezza.4

La destra ex fascista, seguita da ampi settori locali emotivamente e politicamente segnati dalla «liberazione violenta», ha sostenuto cifre improponibili (dalle 20 alle 30.000 vittime) conteggiando caduti in guerra, dispersi nelle lontane campagne militari, prigionieri giuliani morti in altre circostanze. Va inoltre tenuto presente che gran parte degli arrestati dell’Ozna furono deportati in campi di concentramento jugoslavi. Si trattava di campi durissimi, dove gran parte dei prigionieri morì di stenti, e una parte rimpatriò a scaglioni negli anni successivi con il regime di Tito ben saldo al potere.5

Ancora oggi questo intreccio di numeri, fatti e questioni, è oggetto di continuo confronto e acceso dibattito locale.6 Pare tuttavia evidente che la rincorsa delle cifre e l’uso  spregiudicato di categorie storiografiche come «genocidio culturale», «sterminio», «eccidio» ecc. (basta scorrere i titoli della nutrita bibliografia in merito per rendersene conto) non favoriscono il sereno confronto storiografico e civile.7 Gli storici locali, pur con diversi accenti e sensibilità, incontrano molte difficoltà a liberare la storiografia dai condizionamenti ideologici. Sotto questo profilo, schematizzando molto, potremmo definire più o meno il seguente orizzonte. Da una parte c’è chi colloca le foibe in un quadro di «risposta» alla violenza del nazismo e del nazionalismo fascista.8 L’ottica è quella, diciamo così, della storiografia militante, intenta, con diversi toni e sfumature, ad anestetizzare la specificità dell’evento foibe. Si tratta di prevenire la dolorosa consapevolezza verso un’azione violenta che purtroppo trova giustificazione nell’ideologia; si tratta di declinare una responsabilità storica che andrebbe viceversa assunta proprio in nome dell’ideologia. Dall’altra parte c’è chi attribuisce alle foibe una forte valenza anti-italiana sulla base di una matrice nazionalista slava.9 In questo senso la prospettiva interpretativa è riconducibile a quella nazionalistica di destra. Qui c’è, rispetto al primo schieramento, una enfatizzazione dell’evento sul piano letterale, ma non sul piano interpretativo. Il piano interpretativo, infatti, richiede il coraggio di riconoscere il totalitarismo nel suo complesso, quindi implicherebbe un atteggiamento disinibito rispetto alla dittatura e agli orrori del fascismo e del nazismo. Permane invece solo la truce denuncia delle foibe. In forza dell’accusa è possibile rimuovere le proprie responsabilità.

Riformulazioni e distinzioni, tra queste posizioni, sono state già tentate, ma hanno condotto a raffinati ibridi storiografici. È come se la storiografia non riuscisse a trovare nerbo fuori dall’antica diatriba destra-sinistra. La mediazione culturale e le distinzioni interpretative restano inani anche perché manca l’ancoraggio a un pensiero laico e libero dalla logica della causalità della storia.10

Il corno del problema è sempre lo stesso punto dolente: l’inerzia culturale e ideologica che la lotta politica continua ad alimentare dalla guerra in poi. Si tratta di vizi di forma che hanno tenuto in ostaggio per tanto tempo il pensiero interpretativo e hanno impedito di dare un senso compiuto agli eventi che ormai conosciamo a menadito. Per usare il linguaggio informatico, è necessario che la cultura storiografica venga «resettata» e destrutturata. Per quello che concerne la storiografia di sinistra si tratta di azzerare alcuni tabù che come lenti deformanti distorcono la lettura del fenomeno delle foibe. Ad esempio, permane in una parte cospicua della storiografia di sinistra la logica della causa-effetto. Si tratta di una impostazione meccanica e di tipo evoluzionistico per cui: a) il fascismo non poteva che allearsi con il nazismo; b) la violenza della dittatura fascista (sommata a quella nazista) ha determinato la risposta violenta (foibe) della lotta di liberazione jugoslava. Conclusione: la prima violenza fa parte organica di un sistema (dittatura e nazionalismo fascista); la seconda violenza è accessoria e transitoria in quanto necessaria risposta (intatti rimangono, intanto, gli ideali di libertà e giustizia perseguiti dal modello comunista). Si continua quindi a negare la natura totalitaria (e quindi violenta) intrinseca del sistema comunista.

La riduzione delle foibe a «risposta» comporta, per trascinamento (ma si dovrebbe dire per coerenza ideologica) un’altra strozzatura interpretativa: la sostanziale sottovalutazione del fenomeno dell’esodo degli italiani dall’Istria e Dalmazia.11 L’evento ebbe proporzioni vastissime (almeno 240.000 italiani ne furono coinvolti) perduranti nel tempo (1945-1955), ma ciononostante è considerato, riduttivamente, come uno dei tanti spostamenti di popolazione che fece seguito alla fine della guerra, in qualche modo un «prezzo dovuto» dall’Italia alla guerra imperialista condotta dal fascismo. Anche in questo caso non si vuol riconoscere la pratica del totalitarismo comunista, ben avvezzo a trattare le nazioni e i gruppi etnici come pedine da spostare o, peggio, liquidare.12

Un’altra lente distorcente è rappresentata dall’internazionalismo proletario, il quale non viene considerato come un elemento ideologico in grado di farci comprendere la logica interna delle dittature comuniste (ad esempio come fonte di legittimazione per le «soccorrevoli» ingerenze sovietiche), ma è valore condiviso in ambito interpretativo. Ecco che la rottura tra Tito e Stalin nel 1948, invece che palesare la speciosità delle dittature comuniste, offre una lettura ancora una volta ambigua dei fatti storici. L’accusa di «tradimento» volta a Tito o a Stalin, permette di salvaguardare il mito del comunismo e considerare gli «errori» (foibe, esodo, campi di concentramento) ancora una volta una «dolorosa» risposta necessaria (dal punto di vista filo-titino), oppure, all’opposto, una degenerazione locale che conferma il mito della patria del socialismo sovietico (dal punto di vista filo sovietico).

Ancora: il j’accuse contro il nazismo, soprattutto la tragedia senza fine del genocidio ebraico, finiscono per costituire uno straordinario schermo dietro il quale minimizzare gli orrori dei regimi comunisti. La denuncia di Auschwitz ha spesso ritardato e assopito la denuncia dei gulag di Stalin. Da ciò deriva la forte resistenza, da parte della storiografia di sinistra, di accettare la comparazione tra i due sistemi totalitari. E da ciò il rifiuto, sul piano locale, di comparare le foibe al lager della risiera di San Sabba.

Da parte della storiografia di destra la manipolazione del senso degli eventi è stata semmai più grossolana. Ciò è dipeso in parte dal fatto che essa è uscita sconfitta dal conflitto e non ha goduto ampia cittadinanza (è noto come lo storico Renzo De Felice, che tuttavia non può dirsi tout court storico di destra, ha subito per lunghi anni l’ostracismo del mondo accademico italiano), ma anche da un abbandono degli intellettuali in quota (diversi nomi noti passarono direttamente alla sinistra). Tuttavia a livello locale la destra ha goduto di una certa fortuna grazie proprio all’insipienza dei suoi avversari. Vediamo di elencare, schematicamente, i punti di forza sui quali ha fatto leva.

Innanzitutto la questione delle foibe, minimizzata se non negata dalla sinistra, ha rappresentato una verità storica abbandonata in mano alla destra post-fascista che poteva «vantare titolo» di esserne stata a sua volta vittima. Questa sovrapposizione tra vittime del comunismo e vittime politiche, in quanto fascisti, ha rappresentato un punto centrale nella mancata rielaborazione critica del passato della destra. Conseguenza: la destra ex fascista si è «vittimizzata» e si è autoassolta dalle gravi responsabilità storiche del regime. In seconda battuta la destra ha così potuto rioccupare un altro importantissimo vettore politico e civile: quello di patria e nazione. La difesa dell’italianità tout court, è diventata difesa della nazione che solo la destra ha saputo condurre. Ecco così determinarsi, soprattutto nelle province orientali, l’identificazione aberrante tra guerra del regime e guerra patriottica. Il fascismo viene identificato con l’Italia per cui la Decima Mas e i vari battaglioni fascisti impegnati nella repressione antipartigiana, hanno alla fine agito in nome della patria. Il valore nazionale e patriottico del CLN e dell’antifascismo è completamente scalzato.

La destra ha inoltre intercettato e fatto suo, gran parte del bagaglio di dolore e sofferenza cagionati dall’abbandono degli italiani dell’Istria e Dalmazia. Si tratta di un patrimonio umano e morale che ha un peso tutt’altro che irrilevante nella rielaborazione del passato storico e che, colpevole l’assenza della sinistra, la destra è stata ben attenta di mantenere nell’alveo della rancorosa ingratitudine verso la nazione e la «imbelle» patria democratica. Da ciò il copioso serbatoio di voti per l’MSI nonché per AN oggi, e il disamore per la democrazia e la repubblica che ha instillato. Ci troviamo così di fronte a un sistema di interessi politici e di identità ideologiche, che danneggia gravemente il rapporto tra province orientali e il resto della nazione. A causa di questa riduzione manichea e semplificata, la cultura politica e civile italiana stenta a capire la composita realtà regionale, le cui caratteristiche sono la pluralità nazionale e culturale (prezioso serbatoio nel quadro dell’integrazione europea). Si fa inoltre difficoltà a capire la specificità della cultura e della presenza italiana lungo i confini orientali, la sua capacità di mantenere vivissimo il suo spirito di appartenenza al resto della nazione e di integrarsi. La storia dei nomi d’arte dei nostri più noti uomini di lettere (ambedue ebrei) ne è una banale dimostrazione: se Italo Svevo lo riassume nell’ibrido italo-tedesco, Umberto Saba lo mutua dall’amatissima balia slovena Peppa Sabaz. Ma le cattive ragioni dettate dalle prospettive ideologiche, che agiscono sulle contrapposizioni (italiani-sloveni; ebrei-ariani; proletari-nemici del popolo), non permettono di accorgersene. La logica prospettica, dettata dall’ideologia, l’ha ancora vinta sulla logica retrospettiva della storia, che coglie le differenze e le integrazioni. Ma oggi con il crollo del muro la logica della storia è destinata a rinascere: la sinistra saprà farsene levatrice?

 

 

 

Bibliografia

1 A. Bonelli, Fra Stalin e Tito. Comunformisti a Fiume 1848-1956, in «Quaderni di Qualestoria», Trieste 1994; L. Rossi, Prigionieri di Tito, Mursia, Milano 2001; G. Scotti, Goli Otok. Ritorno dall’isola calva, Lint, Trieste 1991.

2 Aa. Vv., Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Ist. St. Mov. di Liberazione F.V.G., Trieste 1980.

3 M. Verginella, A. Volk, K. Colja, Storia e memoria degli sloveni del Litorale, in «Quaderni di Qualestoria», 7, Trieste 1994.

4 G. Oliva, «Foibe». Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori, Milano 2002; G. Rumici, Infoibati (1943-1945), Mursia, Milano 2002.

5 G. Valdevit (a cura di), «Foibe». Il peso del passato, Marsilio, Venezia 1997.

6 Recentemente (il 19 marzo) a Trieste si è tenuto un dibattito pubblico tra storici di diversa impostazione in occasione della pubblicazione di un numero monografico dedicato alle foibe dalla rivista «Millenovecento» diretta da Alessandro Secciani. Il confronto è stato accesissimo e non pare dar segni di ricomposizione.

7 Solo alcuni esempi tratti dalla bibliografia in argomento: P. Arrigo Carnier, Lo sterminio mancato, Mursia, Milano 1982; A. Pitamitz, 1943-1945, Le stragi degli italiani in Venezia Giulia, in «Storia illustrata», 306, 1983, pp. 31-27; Aa. Vv, L’olocausto sul Carso, Trieste 1986; A. Ballarini, Olocausta sconosciuta, Occidentale, Roma 1986; M. Lorenzin, Le stragi delle «foibe», Trieste 1994; M. Pirina e A. M. D’Antonio, Genocidio…(Gorizia, Trieste, Pola, Istria, Fiume, Zara, Dalmazia), Centro studi Silentes Loquimur, Pordenone 1995; Ballarini, Il tributo fiumano all’olocausto, Società Studi Fiumani, Roma 1999; F. Dapiran, L’eccidio delle «foibe», in «L’arena di Pola», 18 settembre 1999. Sul termine «genocidio», e l’uso più o meno improprio che ne ha fatto la storiografia e la magistratura, si veda il saggio di G. Miccoli, Genocidio: una parola nuova nel nostro secolo, in «Qualestoria», 25, II, 1997, pp. 96-126.

8 Definire uno schieramento non è facile, anche perché studi sulla storia della storiografia locale non sono ancora stati condotti. Qui mi limito a citare solo alcuni nomi, alcuni remoti, altri più vicini, altri ancora solo in parte accostabili allo schieramento di sinistra: M. Pacor, Confine orientale, questione nazionale e Resistenza nel Friuli-Venezia Giulia, Feltrinelli, Milano 1964; G. Miccoli, Risiera e «foibe». Un accostamento aberrante, in «Bollettino dell’Istituto per la storia del movimento di liberazione», 1, IV, 1976, pp. 3-4; G. Fogar, «Foibe» e deportazione nella Venezia Giulia, in «Qualestoria», 3, XI, 1983, pp. 67-85; Fogar, «Foibe» e deportazione. Nodi sciolti e da sciogliere, in «Qualestoria, 2-3, XII, 1989, pp. 11-20; N. Troha, Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro, in Valdevit (a cura di), «Foibe», op. cit., pp. 59-95. In quest’ambito sottolineo in particolare l’intervento di Giovanni Miccoli, che, pur non avendo studiato il fenomeno delle «foibe» in presa diretta, con l’editoriale Risiera e «foibe», ha impresso un forte indirizzo a questo filone di studi. La tesi di fondo di Miccoli, che riassumeva le posizioni di tutto lo schieramento di sinistra, rigettava la possibilità di una comparazione equipollente tra «foibe» e «Risiera».

9 Anche per lo schieramento di destra vale quanto detto per quello di sinistra. Segnalo quindi solo alcuni nomi: A. Tamaro, Trieste, storia di una città e di una fede, I.E.I., Milano 1945; F. Rocchi, L’esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati, Ed. Difesa Adriatica, Roma 1998; Pirina e D’Antonio, Genocidio, op. cit.; Rumici, Infoibati, cit.

10 In questo terzo gruppo, le distinzioni e le diversità sono semmai più sfumate e complesse. A parte alcune opere pionieristiche, come quella di Maserati, e alcune lucide considerazioni di Apih, mi pare che solo l’ultima generazione di storici locali ha tentato di uscire dal duopolio destra-sinistra. Il risultato, a mio modesto parere, è alto dal punto di vista dell’analisi delle fonti, ma resta esile dal punto di vista interpretativo, nella direzione di fornire un senso compiuto e largo dell’evento «foibe». Si vedano: E. Apih, Trieste, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 159-167; E. Maserati, L’occupazione italiana di Trieste (maggio-giugno 1954), Del Bianco, Udine 1965; R. Pupo, G. Valdevit e R. Spazzali in Valdevit (a cura di), «Foibe», cit.

11 Si veda a questo proposito: C. Colummi, L. Ferrari, G. Nassisi, G. Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1980. Si tratta di un primo importante contributo che rappresenta la base per un successivo salto di qualità sui temi della politica e della libera interpretazione. Ma non è un caso che non abbia avuto seguito. Sul tema non si può non ricordare che quest’anno in parlamento sono state presentate due proposte di legge per istituire un «giorno della memoria» del grande esodo. Non è un caso che lo schieramento di centrodestra, capitanato da Alleanza Nazionale, abbia proposto il 10 febbraio 1947 (giorno della firma del trattato di pace), come momento che sancisce la rinuncia alle terre italiane della sponda orientale. In verità si vuole inficiare il senso e il valore della pace nonché attribuire alla repubblica democratica la responsabilità di una firma «infamante». Il centrodestra vuole confondere chi ha causato il danno (in primis il regime fascista) con chi ha dovuto assumersene la tragica responsabilità. Ne deriva un grave discredito verso la democrazia e la repubblica. Lo schieramento di centrosinistra ha viceversa proposto il 20 marzo 1947 come data per ricordare l’esodo, quando l’ultimo bastimento si staccò dalla banchina di Pola per portare gli italiani in madrepatria. Si tratta solo di un episodio tra i molti, ma fu quello che vide un’intera città italiana abbandonata dal suo gruppo nazionale.

12 M. Cattaruzza, M. Dogo, R. Pupo (a cura di), Esodi. Trasferimenti forzati di popolazioni nel Novecento europeo, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 2000.