A sessant'anni della Dichiarazione universale dei dirtti umani

Di Marcello Flores Giovedì 26 Giugno 2008 18:53 Stampa
L’attualità della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 risiede al tempo stesso nella sempre più diffusa e ampia presenza della cultura dei diritti nel dibattito pubblico e nell’emergere di nuovi problemi e di nuove sfide per affrontare le questioni poste dalla globalizzazione. Tra queste, il confronto tra organismi sovranazionali e sovranità nazionale, il conflitto tra diritti diversi, ognuno dei quali fondamentale, il rapporto delle diverse culture con i temi della dignità e dell’uguaglianza degli esseri umani.

Basterebbe una semplice indagine quantitativa a dimostrare l’attualità del tema dei diritti umani nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale. Mai come oggi le pagine dei giornali e gli schermi televisivi riferiscono quotidianamente di violazioni dei diritti umani e della preoccupazione della comunità internazionale per la negazione di rivendicazioni ormai accettate dalla coscienza collettiva in modo sempre più diffuso e convinto. È difficile trovare chi – che siano Stati, governi, partiti, organizzazioni o semplici individui – proclami l’inutilità o la dannosità di affermare i diritti umani nel mondo e di cercare di realizzare i principi e i valori che li hanno codificati. Chi si oppone alla cultura dei diritti lo fa perché li ritiene vuota retorica, alibi per mantenere le disuguaglianze, prodotto sofisticato della cultura occidentale o addirittura dell’imperialismo, strumento che indebolisce le comunità per favorire le pretese di libertà dei singoli individui – e quindi li valuta “falsi” diritti umani – non perché sia contrario alla difesa della dignità della persona o ritenga infondata l’idea di uguaglianza di nascita di ogni essere umano.

La Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è il risultato conclusivo di un percorso iniziato circa duecento anni prima, a sua volta debitore di contributi che risalivano ai se- coli precedenti. Non è possibile individuare un solo testo, o un gruppo di testi, cui si possa fare riferimento in modo univoco. Se prendiamo, per comodità, lo scritto più significativo della tradizione italiana – “Dei delitti e delle pene”, pubblicato per la prima volta nel 1764 e opera del ventiseienne Cesare Beccaria – ci accorgiamo di quanto sia debitore, anche esplicitamente, dell’“Esprit des lois” di Montesquieu, pubblicato nel 1748, proprio duecento anni prima della Dichiarazione. Volendo tuttavia indicare lo scritto che più riassume un’epoca di rivoluzioni e costituzioni al cui interno emerge con forza la nozione dei diritti umani non si può che fare riferimento a Tom Paine, un inglese protagonista e testimone sia della rivoluzione americana sia della rivoluzione francese, che nel 1791 e nel 1792 pubblicava le due parti del suo “Rights of Men”, un’opera che conobbe in Europa e negli Stati Uniti un successo di pubblico che superava quello dei romanzieri più letti e diffusi.

Accanto agli scritti che prepararono culturalmente la rivoluzione dei diritti di fine Settecento – e ai documenti costituzionali che negli Stati Uniti (1776 e 1787) e in Francia (1789 e 1790) innovarono e arricchirono la tradizione britannica dell’Habeas Corpus e del Bill of Rights – occorre ricordare anche l’azione coraggiosa di gruppi ristretti di uomini e donne che si unirono in associazioni volontarie a carattere morale e umanitario ottenendo, con la loro azione, successi impensabili, come quella dei dodici che nel 1787 dettero vita alla Società per l’abolizione del commercio di schiavi riuscendo, trent’anni dopo, a far sì che la Gran Bretagna fosse la prima nazione europea ad abolire la tratta degli schiavi con un voto del Parlamento.

Altri due piccoli testi scompaginarono, nello stesso periodo, la società francese, quella britannica e quella americana, innestandovi un dibattito che, a più riprese, si è prolungato fino ai nostri giorni. Il primo apparve nel 1791, nel pieno della rivoluzione francese, e ne è autrice Marie Gouze, che si farà conoscere col nome di Olympe de Gouges; il secondo è opera dell’inglese Mary Wollonstonecraft, che lo pubblicò nel 1792. I due titoli – «Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne » e «A Vindication of the Rights of Woman» – mostrano immediatamente il loro debito nei confronti del dibattito sui diritti umani dei due decenni precedenti e delle scelte politiche e legislative compiute dalle due rivoluzioni di fine Settecento. Pubblicati entrambi mentre la rivoluzione francese stava vivendo i suoi giorni più esaltanti e si preparava a vivere quelli più drammatici, la “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” si presentava come una declinazione al femminile della Dichiarazione dell’agosto 1789, mentre “Una giustificazione dei diritti della donna” riuscì a porre a tutte le donne e gli uomini dell’epoca, in modo chiaro, nuovo e diretto, gli interrogativi di fondo di una “questione femminile” che aveva radici lontane ed era destinata a durare nel tempo.

Nel corso dell’Ottocento la contesa sui diritti è stata lunga, complessa e spesso contraddittoria, non solo nei suoi risultati ma anche nelle sue premesse. Due sono le questioni di fondo che hanno sfidato alla coerenza le dichiarazioni sui diritti di fine Settecento – l’uguaglianza “naturale” di ogni essere umano era data per autoevidente, e i diritti che ne discendevano erano considerati inalienabili – e cioè il problema della schiavitù e quello della condizione della donna. È sulla base dei principi enunciati che è stata possibile una battaglia che, in entrambi i casi, sarebbe stata difficile e sarebbe apparsa interminabile ai soggetti coinvolti. Le ambigue e spesso manipolate convinzioni della scienza si sono affiancate nell’accentuare i pregiudizi e gli interessi che hanno impedito un rapido riconoscimento dei diritti di tutte le persone, limitandone il godimento ai maschi bianchi e proprietari, e solamente in una dozzina di paesi.

Altri due nuovi campi si sono aperti nel corso del Diciannovesimo secolo, ampliando il fronte dei diritti rivendicati e considerati necessari: quello dell’autodeterminazione dei popoli da una parte e quello che riguarda il mondo del lavoro dall’altra. Questione nazionale e questione sociale hanno posto alcuni fondamentali diritti collettivi accanto ai diritti individuali, ampliando ma anche complicando il percorso tutt’altro che lineare che la cultura dei diritti cercava di realizzare. È nel corso dell’Ottocento, quindi, che si presenta nelle sue linee fondamentali quella divisione tra diritti che costituirà un motivo di conflitto e difficoltà nei decenni seguenti. Da una parte i diritti civili e politici (alla vita e all’integrità fisica; alla libertà di pensiero, di religione, di espressione; al giusto processo e al divieto della tortura e della detenzione arbitraria; al voto e alla partecipazione politica); dall’altra i di- ritti economici e sociali (al lavoro, all’alimentazione, alla casa, all’educazione, alle cure sanitarie, ad uno standard di vita dignitoso), con in più il diritto all’autodeterminazione per ogni popolo, alla sovranità nazionale e quindi al controllo sulle risorse del proprio territorio, alla pace e alla convivenza tra i popoli.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento quasi nessuno di questi diritti è davvero reso concreto per tutti, neppure nei paesi più liberi o che godono dei governi più democratici, ma essi costituiscono il parametro di valutazione sull’effettivo progresso di civilizzazione e la richiesta crescente di gruppi sempre più ampi di individui consapevoli. Lo scoppio della prima guerra mondiale sembrava interrompere questo processo, anche se in alcuni casi il suo esito pareva aprire diritti a gruppi che prima ne erano esclusi (voto alle donne, nuovi Stati indipendenti, diritti delle minoranze, garanzie sociali). Con la Grande guerra, tuttavia, ha inizio quel terribile periodo di «guerra dei trent’anni» o di «guerra civile europea» (come è stato definito il 1915-45) che, nel suo insieme, ha comportato un drastico ridimensionamento o la totale abolizione di diritti che sembravano per sempre acquisiti in molte regioni d’Europa e del mondo, per concludersi con la conquista europea da parte nazista e con la tragedia della Shoah che ha reso ancora più drammatici gli esiti di una guerra distruttiva come nessun’altra prima. Poco prima di guidare il proprio paese nello scontro che avrebbe sconfitto i fascismi e il militarismo nazionalista giapponese, il presidente americano Franklin D. Roosevelt aveva indicato in «quattro libertà» l’obiettivo per riformare il mondo: la libertà di parola e d’espressione, la libertà di religione, la libertà dal bisogno e la libertà dalla paura. Le Nazioni Unite, nate a San Francisco alla fine di aprile 1945 (quando Roosevelt era morto da due settimane e la guerra stava ormai volgendo al termine), hanno reso ancora più esplicito quell’invito, inserendo nel Preambolo della Carta della nuova organizzazione internazionale la ferma intenzione «a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole; a creare le condizioni in cui la giustizia e il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti; a pro- muovere il progresso sociale e un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà».

La Commissione sui diritti umani è lo strumento che le Nazioni Unite si sono date per giungere al più presto a una «dichiarazione internazionale» capace di riaffermare quei principi che l’Europa e buona parte del mondo avevano perduto negli ultimi anni, e riprendere le fila interrotte del percorso che la cultura dei diritti aveva compiuto nei secoli precedenti. Si riaffermava, attraverso il nuovo organo politico internazionale per eccellenza, le Nazioni Unite, che l’idea dei diritti umani è un’idea politica con un forte fondamento morale, che essa è alla base delle relazioni politiche che devono intercorrere tra individuo e società, e che implica dei limiti in quello che un governo – sia pure democratico e dotato di maggioranza – può fare rispetto al bene comune e all’interesse pubblico. Anche la legge è soggetta ai dettati dei diritti umani fondamentali, e le costituzioni devono contemplare o assumere quei principi come propri. Riprendendo il lungo dibattito sui «diritti naturali» e sulla «autoevidenza» dell’uguaglianza di ogni persona, si affermava che i diritti umani non sono garantiti dalla società, ma appartengono per nascita a ogni individuo, che il loro «valore» è assoluto e indipendente dall’appartenenza alla comunità. Per la prima volta, accanto al riconoscimento che «tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza» (articolo 1) si aggiungeva che «ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità» (articolo 2). L’universalità dei diritti umani è certamente il portato più originale e innovativo della Dichiarazione del 1948 che, nei rimanenti articoli, sia pure con una chiarezza, efficacia e lungimiranza notevoli, riprendeva il corpus dei diritti umani che si era affacciato alla ribalta e costruito precedentemente. Combattuta in passato dai tradizionalisti antirivoluzionari e dai progressisti utilitaristi, dai positivisti e dai socialisti, così come da praticamente tutte le correnti religiose, l’idea di universalità veniva ora avversata – a seguito di una richiesta di opinione da parte della Commissione guidata da Eleanor Roosevelt – dagli antropologi, che rifiutavano di dare alla cultura occidentale, al cui interno è nata ed è progredita l’idea dei diritti umani, quel carattere universale che i diritti umani rivendicano. Eppure quella coraggiosa scelta di universalità – in una Dichiarazione che impegna politicamente e moralmente gli Stati che la sottoscrivono – è stata man mano accolta e diffusa nelle numerose convenzioni sui diritti umani che si sono succedute dagli anni Sessanta fino agli anni Novanta del Ventesimo secolo. Il crollo del comunismo e i limiti del mercatismo liberale hanno permesso alla cultura dei diritti umani di proporsi come lingua franca del Ventunesimo secolo, come terreno comune di valori e principi riconosciuti necessari per un’epoca di globalizzazione come l’attuale. Non è un caso, allora, che il processo di internazionalizzazione dei diritti umani si sia intrecciato a quello di una costituzionalizzazione che li ha resi sempre più spesso parte integrante dei principi fondamentali che ogni Stato si è dato (e che i numerosissimi nuovi Stati democratici o in transizione verso la democrazia hanno voluto adottare spesso con enfasi). La riscoperta dei diritti umani a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta, dopo la rimozione dei decenni della guerra e il tentativo coraggioso, ma perdente nel breve periodo, della Conferenza di Helsinki del 1975, è stata resa possibile dal fatto che la Dichiarazione del 1948 prefigurava una realtà che non era quella del suo tempo, ma di un futuro auspicabile. Il fatto che i principi contenuti nella Dichiarazione fossero in contrasto con la politica di tutti gli Stati dell’epoca – si pensi alle pratiche dittatoriali dei governi comunisti, alle pratiche coloniali delle democrazie europee, alle pratiche discriminatorie all’interno e aggressive all’esterno degli Stati Uniti – non ha impedito che proprio quei principi potessero essere presi a simbolo e bandiera di coloro che lottavano per la fine del colonialismo, della discriminazione, delle dittature politiche. È in questo senso che il mondo degli anni Novanta può apparire più recettivo – e più coerente – dei decenni precedenti in tema di diritti umani. È all’interno di questo nuovo e diffuso consenso sui diritti umani che, a metà degli anni Novanta, si è assistito ad un nuovo dibattito sulla loro reale portata universalistica e, di fronte a episodi tragici di conflitti regionali, sui mezzi e i limiti del loro rispetto nei luoghi dove vengono violati. Nella Conferenza di Vienna sui diritti umani del 1993 alcuni Stati hanno contrapposto «valori asiatici» fondati sui bisogni e gli interessi della collettività ai «diritti umani occidentali» costruiti attorno al primato dell’individuo. Per quanto strumentale e ingenua sia la protesta di Cina, Malaysia, Indonesia e Singapore, e l’appoggio ad essa da parte della Siria e di Cuba – interessati a giustificare la propria azione statuale di repressione – si assiste alla ripresa di un dibattito che apre in prospettiva a una visione dei diritti capace di far compiere un salto di qualità. Si affaccia la consapevolezza di essere entrati in un’epoca di “conflitto tra diritti” (tra quelli collettivi e quelli individuali, tra quelli economico-sociali e quelli civili e politici) e che la Dichiarazione, in quest’ottica, rappresenta il documento più significativo attorno a cui attestarsi per potere, tuttavia, continuare ad andare avanti.

Le tragedie che si sono verificate, sempre a metà degli anni Novanta, nella ex Jugoslavia e in Ruanda e successivamente in Kosovo, hanno posto agli Stati e all’opinione pubblica un dilemma nuovo (o almeno percepito in modo diverso che nel passato): se sia possibile, e in alcuni casi doveroso, intervenire anche militarmente contro uno Stato per impedirgli di continuare a violare gravemente – fino al limite del genocidio – i diritti di una parte della sua popolazione, e quali possano essere i limiti di quell’intervento dal momento che ogni intervento militare porta con sé, inevitabilmente, una limitazione e violazione di diritti più o meno estesa.

Può sembrare paradossale che proprio negli anni in cui la cultura dei diritti sembrava affermarsi, ed essi venivano riconosciuti quasi universalmente, anche se con particolari declinazioni e specificazioni, abbiano avuto luogo episodi che rinviavano a quella tragedia collettiva di metà Novecento dopo la quale era stato deciso di non permettere – «Mai più» – una sua ripetizione, sia pure su scala ridotta. Al di là delle spiegazioni e valutazioni che si possono dare di ciascuno di questi episodi, della loro origine e dei meccanismi politici e sociali che li hanno permessi, è indubitabile che essi abbiano contribuito a porre la questione dei diritti umani al centro della scena internazionale – come avverrà di lì a qualche anno in occasione e successivamente all’attentato terroristico di New York dell’11 settembre 2001.

I diritti umani, negli ultimi anni, sono stati al centro di un conflitto di interpretazioni che riguarda tanto la sfera teorica quanto la sfera pratica e politica. Sul primo versante continuano a essere di attualità i problemi relativi al fondamento morale e biologico dei diritti umani e al processo storico che riguarda gli stessi convincimenti morali e le dinamiche politiche e giuridiche che hanno cercato nel tempo di formalizzarli e renderli diritto e dovere comuni. La vecchia contrapposizione tra diritti naturali e diritto positivo è stata rinnovata dalla cultura dei diritti umani, che pretende una concezione capace di abbracciare gli aspetti ontologici e storici della vita degli esseri umani. Il tema dell’universalità vive oggi una sfida legata a pretese relativistiche sul terreno culturale e a rivendicazioni di sovranità da parte di singoli Stati. Il dibattito corrente sembra rendere più agevole, sul terreno teorico, il punto di vista di un universalismo storicamente attento alle diversità; che rischia d’indebolirsi, tuttavia, di fronte all’incapacità concreta di difendere e allargare i diritti o all’uso strumentale della cultura dei diritti per giustificare comportamenti che ne sono agli antipodi. Il conflitto tra diritti (tra libertà e sicurezza, tra lavoro e ambiente, tanto per citarne due che sono presenti quotidianamente) pone di fronte a scelte e decisioni di priorità e d’incisività che non possono mettere in discussione, tuttavia, una visione unitaria del corpus complessivo dei diritti umani.

Il campo dei diritti è aperto, oggi, a contributi rilevanti e innovativi come mai nel passato: da parte di studiosi, organizzazioni non governative, Stati e organizzazioni internazionali. È importante che la cultura dei diritti mantenga un carattere di controversia e discussione, e non si riduca, come a volte rischia di fare, a una pratica di tipo giuridico o di procedimenti giudiziari. Oggi la cultura dei diritti può essere il sale della democrazia, ma solo se la partecipazione si realizza davvero e se il tema dei valori non viene ridotto a strumento di una battaglia politica e ideologica di corto respiro. In questo quadro la Dichiarazione del 1948 – e il modo in cui è stata formulata e approvata – costituisce ancora oggi un punto di riferimento ineliminabile.