La crisi delle politiche energetiche nazionali e la latitanza dell'Unione europea

Di Alberto Clò Giovedì 26 Giugno 2008 18:51 Stampa
La nuova crisi energetica ha posto in evidenza l’incapacità dell’Unione europea e degli Stati membri di darvi positive risposte. Mentre le politiche nazionali si dimostrano sempre di più inefficaci e costose, la via del mercato, cui esse si sono affidate, non sembra sortire migliori risultati. Vi è bisogno di più Europa, a livello interno e internazionale, che sappia trarre insegnamento da quanto fatto dai suoi padri fondatori.

Sino alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, il carbone è stato la fonte di energia e il settore industriale su cui l’Europa ha costruito la sua potenza economica e militare, in condizioni di piena sicurezza.1 Con il consolidarsi dell’uso del petrolio – nella prospettiva di una sua grande, sicura, conveniente abbondanza – il ricorso alle forniture estere divenne sempre maggiore, a fronte di benefici troppo evidenti per rinunciarvi. Nelle cancellerie europee, specie negli ambienti militari, erano comunque ben vivi i timori sui rischi che il “tutto petrolio” avrebbe potuto comportare nel lungo termine sulla sicurezza energetica degli Stati, sullo sviluppo delle loro economie, sulla loro piena sovranità. E ciò avvenne nonostante il pesante interventismo pubblico e il dominio delle maggiori potenze occidentali sugli Stati esportatori di petrolio.

Di quei timori e rischi erano consapevoli i padri fondatori della Comunità economica europea (CEE) quando, nel 1957, in concomitanza con la firma dei Trattati di Roma, istituirono la Comunità europea dell’energia atomica: fonte allora agli albori, ma l’unica in cui una politica comunitaria – negli approvvigionamenti dei materiali fissili, nella ricerca e sviluppo, nella politica industriale – veniva sovraordinata alle politiche nazionali (allora e ancora oggi) dominanti in tutti gli altri ambiti energeti- ci. Una scelta straordinaria nel processo di costruzione dell’edificio comunitario, essendo l’unico caso in cui l’integrazione verticale per settori, propugnata dalla Francia alla Conferenza di Messina del 1955, era fatta prevalere su quella orizzontale che, col mercato unico, sarebbe stata adottata per l’insieme degli altri settori.

Una scelta che alla Conferenza di Venezia del maggio 1956 – pochi mesi prima dell’esplodere della guerra di Suez (ottobre 1956-marzo 1957) – era stata motivata dal presidente del Comitato intergovernativo Paul-Henri Spaak, ministro degli Esteri belga, sul convincimento che l’energia nucleare potesse e dovesse costituire negli anni Duemila la principale risposta al crescente deficit energetico in cui l’Europa sarebbe inevitabilmente incorsa (si era allora intorno al 25%) e all’esigenza di perseguire la più ampia sicurezza energetica. «L’energia nucleare – si legge nel Preambolo al Trattato Euratom – costituisce la risorsa essenziale che assicurerà lo sviluppo e il rinnovo delle produzioni e permetterà il progresso delle opere di pace. (…) Soltanto da uno sforzo comune intrapreso senza indugio è possibile ripromettersi realizzazioni commisurate alla capacità creativa dei loro paesi».

Che il corso della storia sia stato poi altro da quello allora immaginato, per la preferenza degli Stati a muoversi (anche qui) autonomamente, nulla toglie alla lungimiranza di quel disegno politico, specie se il confronto è fatto con il niente d’oggi. Sta di fatto, comunque, che lo sviluppo del nucleare con il forte sostegno degli Stati e l’impegno delle imprese pubbliche, avrebbe costituito – per il molto che si era sin lì fatto – la principale risposta dell’Europa (Italia esclusa) alle crisi petrolifere che hanno sconvolto il mondo del petrolio, rivoluzionato l’“equilibrio diseguale” che aveva regolato i rapporti di forza tra Stati produttori e grandi compagnie petrolifere (e loro paesi di origine), portato alla loro totale estromissione da quelle aree.

La pesante recessione, l’inflazione a due cifre, le decine di milioni di disoccupati causati dallo shock petrolifero, la vulnerabilità politica cui l’intero mondo occidentale si vide esposto, indussero un robusto aggiustamento nella domanda e nell’offerta d’energia ai suoi maggiori prezzi, nella ricerca di più efficienti combinazioni dei fattori produttivi (capitale, lavoro, energia), nella riduzione della dipendenza da aree a esso sempre più ostili. Drastiche ri- strutturazioni industriali, riorganizzazioni produttive, innovazioni tecnologiche avrebbero fatto il resto, consentendo all’Europa di riprendere un sentiero di crescita e di riportare sotto controllo – come ci si illudeva allora – la variabile energetica. Nell’arco di poco più di un decennio (1974-86) le crisi petrolifere potevano dirsi riassorbite.

Il ritorno a condizioni di abbondanza, sicurezza e bassi prezzi avrebbe favorito le rivoluzioni in senso liberale che si avviarono dagli anni Ottanta negli Stati Uniti di Ronald Reagan e nella Gran Bretagna di Margaret Thatcher e un decennio dopo (con molta gradualità) nell’intero Vecchio continente. La filosofia del mercato avrebbe portato i governi a smantellare l’intero e desueto strumentario di cui si erano sin lì avvalsi, nel fermo convincimento che l’energia non manifestasse più alcuna criticità e specificità – politica, economica, strategica – rispetto alle altre commodities, così che il mercato fosse in grado di dare piena soddisfazione a ogni sorta di problema.

Nell’uscita dalle crisi, la Comunità europea non svolse alcuno specifico ruolo decisionale, rimanendo l’energia nello stretto ambito delle sovranità nazionali, ma ebbe un non indifferente ruolo propositivo: indicando condivise «linee di indirizzo strategico» lungo cui le politiche nazionali si sarebbero mosse in modo convergente ancorché individuale.

A molti anni di distanza, non si può negare, senza per questo rimpiangerle, che quelle politiche seppero dimostrarsi utili ed efficaci: con un robusto sostegno politico e finanziario, come detto, al nucleare; con la messa in produzione dei grandi giacimenti del Mare del Nord; con un forte e del tutto innovativo impegno nel risparmio energetico; con la promozione – in uno stretto rapporto Statiimprese – di grandi progetti infrastrutturali di importazione del gas metano; con enormi impegni finanziari in ricerca e sviluppo.

Il richiamo a quelle esperienze, ai lungimiranti disegni tracciati all’alba della Comunità europea, alla capacità della politica di dare risposte concrete ai problemi posti dalle crisi, è utile non tanto per ribadire i positivi risultati che si seppero allora conseguire, ma, venendo all’oggi, perché costituisce una formidabile pietra di paragone con l’assoluta incapacità – di Bruxelles come dei governi – di fornire oggi una qualsiasi risposta alla nuova crisi che è andata consolidandosi con il nuovo millennio, carat- terizzata da prezzi del petrolio (e del correlato metano) aumentati di circa otto volte (135 dollari al barile), rinnovate minacce alla sicurezza politica delle forniture, la cupa prospettiva di un progressivo peggioramento degli equilibri ambientali. Questa incapacità ha più cause. In primo luogo, la (pur ineludibile) scelta del mercato, che ha reso le politiche nazionali impotenti e orfane di ogni strumento di intervento, dipendendo il “che fare” dalle libere scelte degli agenti economici, nell’affanno delle politiche di regolazione di conciliare interessi generali e interessi particolari. In secondo luogo, il contraddittorio contesto istituzionale europeo, una sorta di regime duale, che rimanda ancora agli Stati il primato formale in materia energetica e alla Commissione un potere esclusivo in materia di concorrenza di cui essa dispone con una continua e defatigante tensione tra le sue proposte pro-concorrenziali (si pensi all’annosa questione della separazione proprietaria delle reti di metano) e le resistenze poste da molti governi per le implicazioni negative che, a loro dire, ne potrebbero derivare sulla sicurezza energetica. In terzo luogo, la complessità della crisi, per la sua multidimensionalità politica, economica, ambientale, con l’enorme difficoltà a individuare soluzioni accettabili sui diversi fronti; la sua globalità sovra-nazionale che rende le politiche nazionali inefficaci e costose, senza che sappiano supplirvi politiche sovranazionali; la diversità e lo scontro di interessi e di obiettivi tra i molti soggetti che interagiscono sui mercati internazionali.

La morale che se ne può trarre è che la crisi si è avvitata su se stessa in modo indisturbato, così che vi è chi ritiene che l’unico modo per spezzarne la spirale sia il raggiungimento di una soglia dei prezzi (vi è chi dice 150, chi 200 dollari al barile) tale da degenerare in recessione economica. Con i governi che stanno a guardare, impotenti e incapaci di fare alcunché. Non un solo indicatore – dai prezzi energetici alle emissioni inquinanti, dalla dipendenza estera ai risparmi di energia, dalle spese in ricerca e sviluppo alla dinamica degli investimenti – ha registrato nell’Unione un qualche pur minimo miglioramento. Alla similarità delle cause delle passate e dell’attuale crisi – crescita della domanda, incapacità dell’offerta a tenervi dietro, rigidità dei flussi commerciali per la bassa capacità inutilizzata, forti tensioni geopolitiche – si è contrapposta così una forte diversità delle risposte. Nella primavera del 1974, sei mesi dopo lo scoppio della guerra del Kippur, il Parlamento francese approvò il Piano nucleare di oltre cinquanta centrali predisposto dal governo di Jacques Chirac, poi realizzato nonostante il variare delle maggioranze politiche. Stessa determinazione si è avuta nelle risposte della generalità dei paesi industrializzati (Italia esclusa). Diversamente da allora, nessuna significativa decisione è stata adottata dai governi, mentre l’idea che possano soccorrere le virtù dei mercati si sta rivelando del tutto illusoria. I molti auspici, le raccomandazioni e le parole d’ordine – sicurezza, diversificazione, sostenibilità, competitività e via andare – contenuti nei numerosi e voluminosi green o white papers della Commissione, dei governi, degli organismi internazionali, sono rimasti letteralmente lettera morta.

L’inadeguatezza delle risposte e il fondato rischio che la crisi possa peggiorare sono tanto più evidenti ove si ponga attenzione ai futuri scenari (al 2030), difficilmente modificabili nelle loro tendenze di fondo. Vale la pena in particolare evidenziarne tre. In primo luogo il forte peggioramento della dipendenza dall’estero, causato dal progressivo declino naturale della produzione interna di idrocarburi, che ci si attende crescerà di circa venti punti fino a raggiungere il 62% del consumo totale, il minor apporto del nucleare, con l’atteso dimezzamento della sua quota sull’offerta globale (a oggi vi sono solo due centrali in costruzione); il definitivo smantellamento dell’industria europea del carbone, sacrificata sull’altare del mercato nonostante la notevole consistenza delle sue riserve.

La speranza che la panacea d’ogni male possa essere un mix tra crescita delle mitiche risorse rinnovabili (fissate d’autorità dal Consiglio europeo al 20% dei consumi entro il 2020) e maggior risparmio energetico (stessa percentuale alla stessa data) è del tutto illusoria e tale da non modificare la seconda tendenza: l’inevitabile maggiore ancoraggio a petrolio e metano per circa i due terzi della domanda di energia. La terza tendenza consiste in un forte aumento del ricorso al metano estero (a causa della maggior domanda e della minore produzione interna), reso altamente critico dall’elevata e crescente concentrazione geopolitica dei fornitori, con Russia e Algeria che porteranno al 70% la loro quota di tutte le importazioni. Queste tendenze sollevano delicati problemi d’ordine economico e politico. Sul piano economico, cruciale è il “vuoto di investimenti” che si registra nella totalità delle filiere energetiche, nonostante gli straordinari profitti che i processi di liberalizzazione, più formali che sostanziali, non hanno saputo minimamente scalfire. Per soddisfare la futura domanda elettrica e sostituire le centrali obsolete, Bruxelles stima che si debbano (o meglio, si dovrebbero) investire in Europa nei prossimi due decenni sino a 1.200 miliardi di euro: una centrale a gas di 400 MWe ogni settimana! Questo non sta assolutamente avvenendo. Emblematico è il caso inglese. Nel rapporto “The Energy Challenge” del 2006, l’allora premier Tony Blair ha scritto «Senza un’azione che assicuri disponibilità affidabili e sostituisca gli attuali impianti, si verificherà una drammatica scarsità nella nostra capacità energetica con gravi rischi per la nostra sicurezza energetica».2 Che ad ammetterlo sia il paese che prima e in modo più radicale ha fatto la scelta del mercato, non è cosa da poco, anche se pochi sono disposti a riconoscerlo.

Non meno critica è la situazione nel caso del metano, ove la sottoscrizione di nuovi contratti di importazione a lungo termine o la realizzazione degli investimenti nelle infrastrutture di trasporto non paiono (a oggi) in grado, nonostante la miriade di progetti annunciati, di dare soddisfazione all’incremento della domanda. La sua quasi obbligatorietà, a fronte di una scarsa capacità d’offerta internazionale, va determinando una pressione al rialzo dei prezzi e un rafforzamento del potere di mercato dei fornitori. Il convincimento che il “passaggio al metano” potesse migliorare i conti e i costi europei non trova riscontro nei fatti. Ancora: nei prossimi anni l’Europa potrebbe trovarsi a corto di metano, se il monopolista russo Gazprom, cui si va legando mani e piedi, non realizzerà gli immani investimenti necessari per accrescere la produzione interna e rafforzare il fatiscente sistema di gasdotti.3 Se ciò dovesse accadere, e i prodromi si vanno avvertendo, si aprirebbe una situazione di scarsità difficilmente rimediabile.

La latitanza dell’Unione europea in politica estera è il secondo aspetto critico per quanto riguarda soprattutto i rapporti con la Russia di Vladimir Putin. La strategia russa nel mercato del metano va trionfando su tutti i fronti, potendo far leva su tre atouts. In primo luogo, sull’incapacità dell’Unione di addivenire a una qualsiasi comune strategia interna ed estera, nonostante assorba i due terzi delle esportazioni ex sovietiche, e di adottare una qualsiasi azione interna4 tale da accrescere i margini di sicurezza e indebolire le minacce di ricatto: non una sola iniziativa in tal senso è stata attuata. Il secondo atout è l’asimmetria degli assetti istituzionali dei sistemi europei e di quello russo: coi primi ampiamente liberalizzati e privatizzati, e quindi pienamente contendibili, e il secondo ermeticamente chiuso in un monopolio pubblico nazionale sotto lo stretto controllo politico del Cremlino. «L’esigenza europea di sicurezza dell’offerta di energia – ha dichiarato Peter Mandelson, commissario europeo al Commercio – comporta una simmetrica sicurezza della domanda, di cui la Russia può essere la principale beneficiaria. Regole più chiare ed esplicite e reciproci obblighi potrebbero rimuovere la dimensione politica dal nostro commercio energetico con benefici reciproci».5 Ma sinora regole, garanzie, obblighi sono stati fatti valere, paradossalmente, solo verso i paesi dell’Unione e le loro imprese, e non verso la controparte russa, rafforzandone così il potere.

Terzo atout è la disomogeneità, se non addirittura il contrasto di interessi all’interno dell’Unione – che si va progressivamente accentuando con l’ampliarsi dei suoi confini territoriali – abilmente sfruttato dal Cremlino con una strategia, insieme, di cooptazione e di divisione. Di cooptazione, attraverso strategie di partnership industriali/commerciali con singoli paesi che fanno leva sui timori di una futura scarsità di metano. Ne è derivata una competizione al rialzo tra i singoli paesi (e i rispettivi campioni nazionali) – negoziando da soli il prezzo della propria debolezza – per guadagnare “rapporti preferenziali” individualmente vantaggiosi con la Russia, ma senza curarsi degli effetti sull’insieme dell’Unione, specie nei confronti dei nuovi Stati membri, estremamente dipendenti dalle forniture russe.

Una strategia, in secondo luogo, di divisione politica nella “guerra dei gasdotti” per convogliare verso l’Europa il gas russo e/o quello concorrente dell’area caspica. Gasdotti disegnati in base a logiche politiche più che di razionalità economica, con l’obiettivo di rafforzare i propri interessi a danno di quelli altrui. «I ministri di Putin – ha scritto Paul Kennedy – sono usi ad utilizzare quella che è stata definita come la “pipeline diplomacy” per forzare i paesi confinanti come Bielorussia e Ucraina a sottostare al volere di Mosca e a riconoscere la loro dipendenza dalle forniture russe, anche per determinare un effetto intimidatorio sugli Stati dell’Europa occidentale».6 Il caso più emblematico è la partnership russo-tedesca sottoscritta a Berlino nel 2005 da Vladimir Putin e Gerhard Schröder (poi divenutone presidente) per realizzare il gasdotto Nord Stream, che, attraverso il Mar Baltico, dovrebbe collegare i due paesi, aggirando e indebolendo Bielorussia, Polonia e Ucraina attraverso cui transita la quasi totalità delle esportazioni russe verso l’Europa. «Nord Stream – ha scritto il ministero della Difesa svedese7 – rafforzerà l’effetto leva della Russia [su questi paesi] perché le consentirà di dirottare i flussi di gas senza coinvolgere le esportazioni verso l’Europa. Un progetto che non può, quindi, essere considerato come un common European project perché contrario alle priorità di diversi paesi dell’Unione, spostando il potere regionale a favore della Russia». Nonostante ciò, Bruxelles gli ha riconosciuto questo status, sebbene a volerlo fosse la sola Germania. Paradossalmente, ma non più di tanto, questo status era stato prima riconosciuto a un altro gasdotto, il Nabucco, sponsorizzazione proprio di Bruxelles per ridurre la dipendenza dal gas russo! Un progetto che molto difficilmente riuscirà a realizzarsi, perché ben altri tre progetti – tutti di marca russa – sono stati messi in campo al solo scopo di neutralizzarlo. Che Bruxelles sia arrivata a sponsorizzarli tutti – con la solita un po’ ridicola motivazione della maggior concorrenza interna che ne deriverebbe, non si sa bene tra chi e chi, essendovi un solo fornitore – dà conto dell’incapacità europea di affrontare, in un complessivo disegno strategico, la questione metanifera europea. Alla luce di quanto detto è possibile trarre alcune conclusioni. La prima è che, perdurando le attuali contraddizioni che attraversano la scena europea, l’uscita dalla crisi, al di là delle sue dinamiche internazionali, si palesa come molto più problematica di quanto non sia accaduto in passato. La seconda è che, nonostante la dimensione delle sfide sia divenuta globale, la materia energetica è rimasta nell’alveo delle sovranità nazionali, in un “regime duale” con la Commissione che di fatto impedisce ogni efficace azione. Né l’acuirsi della crisi, né il cammino verso la costruzione di un mercato unico, né i rischi sul versante della sicurezza hanno spinto gli Stati europei a intraprendere una politica energetica che possa dirsi comune, specie sul duplice versante della scelta delle filiere energetiche da sviluppare, così da conseguire un mix capace di coniugare convenienza, sostenibilità, sicurezza, e della strategia verso i paesi fornitori, specie di metano. Non vi potrà essere politica comune fino a quando l’Europa non saprà dotarsi d’una comune diplomazia energetica.

La terza conclusione è che il mercato non pare in grado di per sé di toglierci dai guai. Come combinare liberalizzazioni, concorrenza e regolazione con le nuove circostanze esterne dei mercati internazionali, così da poter avviare un nuovo robusto ciclo di investimenti capace di ricreare abbondanza di offerta e virtuose dinamiche concorrenziali, è il compito prioritario cui le politiche, comunitarie e nazionali, sono chiamate a dare positiva risposta. Dell’Europa di Jean Monnet e Robert Schuman, che portò alla creazione nel 1952 della Comunità europea del carbone e dell’acciaio allo scopo di «ridurre ogni forma di asservimento o di conflitti» e dell’Euratom nel 1957 «per contenere in uno sforzo comune le importazioni di petrolio e carbone», non v’è traccia ai giorni d’oggi: nonostante le ragioni di preoccupazione siano o dovrebbero essere ben maggiori di quelle di allora. Di fronte a questo fallimento, le politiche nazionali, che pure ne sono la principale causa, conoscono una recrudescenza nazionalistica, che è, tuttavia, del tutto incapace di sortire alcun positivo risultato.

[1] Nel 1960 nella Comunità a 6 (più l’associata Gran Bretagna) si contavano più di un milione e mezzo di minatori che estraevano carbone per oltre la metà del fabbisogno energetico europeo.

[2] Cfr. HM Government, The Energy Challenge. Energy Review Report 2006, DTI, luglio 2006, p. 4.

[3] La produzione di metano oscilla sui 550 miliardi di metri cubi, mentre pochi nuovi giacimenti sono in fase di sviluppo. I progetti su cui si fa maggiore affidamento tardano a essere avviati e molto difficilmente rispetteranno i tempi programmati, anche a seguito dei vincoli posti alle imprese estere. Secondo l’Institute of Energy Policy di Mosca il deficit di offerta potrebbe arrivare a circa 125 miliardi di metri cubi o addirittura al doppio secondo il Centre for European Policy Studies.

[4] Come, ad esempio, messa in comune delle scorte strategiche, aumento delle capacità di stoccaggio, adozione di meccanismi di solidarietà intraeuropea.

[5] Cfr. il discorso di P. Mandelson, The EU and Russia: our joint political challenge, Bologna, 20 aprile 2007, disponibile sul sito ec.europa.eu/commission_ barroso/mandelson/speeches_ 2007_en.htm.

[6] Cfr. P. Kennedy, Worried about Putin? Read on, in “Herald Tribune”, 21 agosto 2007.

[7] Cfr. R. L. Larsson, Nord Stream, Sweden and Baltic Sea Security, Swedish Defence Research Agency, Stoccolma 2007, p. 9.