Perché la Politica europea di vicinato presenta così tante difficoltà?

Di Ulrike Guérot Giovedì 26 Giugno 2008 18:44 Stampa
Numerose sono le difficoltà con cui la Politica europea di vicinato deve confrontarsi in seguito ai mutamenti nel frattempo intervenuti nelle aree confinanti con l’Unione europea. La PEV risente negativamente del fatto di essere percepita dai paesi che vi partecipano come una seconda scelta rispetto alla piena inclusione nell’Unione, o più spesso come un passaggio preparatorio in vista della piena membership; così come risente della percezione diffusa nell’opinione pubblica europea circa gli effetti negativi del processo di allargamento. Più ampie considerazioni di natura geostrategica portano invece a considerare la PEV come un ottimo strumento per l’espansione dei valori e degli interessi europei.

Una mancanza strutturale: la Politica europea di vicinato è solo una seconda scelta

La Politica europea di vicinato (PEV) presenta alcune difficoltà. La causa risiede nel fatto che, in sintesi, non offre a nessun paese la prospettiva di diventare membro dell’Unione europea. Essa rappresenta solo una scelta di ripiego, che prevede la cooperazione con l’UE per paesi che invece, in gran parte, desidererebbero fosse loro offerta una prospettiva di piena adesione all’Unione. Sin da quando è stata formulata, la PEV si confronta con questa problematica.

Il problema dei confini dell’Europa è, infatti, uno dei più annosi del processo di integrazione europea. Per lungo tempo ogni allargamento, o ampliamento, dell’Unione europea ha provocato anche uno scatto in avanti nel processo di approfondimento: il Regno Unito e l’Irlanda sono diventati membri negli anni Settanta, quando la Comunità si stava preparando per il sistema monetario e l’elezione diretta del Parlamento europeo; la Spagna e il Portogallo si sono aggiunti negli anni Ottanta, quando ci si stava predisponendo all’adozione dell’Atto unico europeo; l’allargamento a nord ha coinciso più o meno con la stesura dei Trattati di Maastricht e di Amsterdam; infine, il più recente allargamento a est del 2004 ha stimolato il processo costituzionale dell’UE e il Trattato di Lisbona, alla cui base stava la “reazione di approfondimento” all’ingresso nell’UE di altri dodici paesi: una ragione ancor più fondamentale per impegnarsi nella Convenzione europea del 2002 era proprio la preparazione dell’Unione all’allargamento. Negli ultimi trent’anni il mantenimento di un equilibrio tra approfondimento e allargamento ha costituito, per l’Unione europea, un problema e una sfida costanti. Ora pare che questo equilibrio non esista più. Mentre un numero sempre maggiore di paesi manifestano la volontà di diventare membri a pieno titolo, l’Unione esprime con sempre maggiore frequenza una posizione pubblica in merito ai propri “confini definitivi”. La PEV si trova al centro di questa difficile discussione. Essa prospetta ai paesi un avvicinamento all’Unione europea, senza che questo possa però mai realizzarsi completamente. Sebbene il linguaggio ufficiale sia molto esplicito nel chiarire che far parte del quadro della Politica di vicinato non significa ottenere in cambio una prospettiva di ingresso nell’UE, per molti paesi la speranza è esattamente che essa sia proprio il primo passo verso qualcosa di più. Questa differente percezione rappresenta uno dei maggiori ostacoli della Politica di vicinato per i paesi che vi sono coinvolti, ma è anche la ragione del successo abbastanza limitato che essa ha avuto dal punto di vista dell’Unione: l’UE dipende dalle buone relazioni con i paesi limitrofi e da un ambiente pacifico, stabile e prospero; e comunque l’accordo a maglie larghe della Politica di vicinato non fornisce all’UE una leva abbastanza forte per cambiare realmente e nella sostanza la situazione politica o economica dei paesi vicini. In tal modo, l’Unione europea non necessariamente ricava dalla PEV ciò che sarebbe nel suo interesse.

Oggi questa discussione si colloca in un contesto internazionale in trasformazione, in cui i fattori geostrategici incidono maggiormente. Concetti come la sicurezza energetica, la politica estera sull’energia, le aree di influenza e l’esportazione della stabilità stanno dominando il dibattito circa i paesi toccati dalla Politica di vicinato. L’intreccio tra la politica interna e quella estera si fa sempre più stretto.

La discrepanza tra vantaggi geostrategici e inconvenienti interni

L’Unione europea si trova così a dover affrontare ancora, in un contesto rinnovato, la vecchianuova questione dei confini e dell’allargamento, e la PEV è il punto cruciale di tale discussione. La discrepanza di fondo, però, è che è semplice, per esempio nel caso dell’Ucraina e della Georgia, evidenziare le ragioni geostrategiche dell’avvicinamento di questi paesi all’Unione, mentre al contrario l’opinione pubblica interna è preoccupata per le nuove ondate migratorie e le imprese premono contro la libera circolazione delle persone o la concessione di visti per i paesi vicini. La scissione tra vantaggi esterni o geostrategici da un lato, e difficoltà o inquietudini interne dall’altro, è ancor più lampante nel caso della Turchia, che sta già negoziando con l’UE l’ingresso nell’Unione. Se per un verso è semplice trovare buone argomentazioni geostrategiche per la completa inclusione della Turchia nell’UE – sicurezza energetica, maggiore peso sulla scena mediorientale – le preoccupazioni interne derivano da fattori quali la religione, l’accesso al mercato del lavoro o la paura dell’immigrazione. Troppo spesso la PEV viene considerata una sorta di passaggio preparatorio verso la piena appartenenza all’Unione, almeno nel caso di molti paesi ai confini orientali dell’UE: Ucraina e Georgia lasciano intendere che in definitiva vorrebbero avere una prospettiva in tal senso. È anche vero che, il più delle volte, ciò è quanto desiderano gli stessi paesi limitrofi interni all’Unione: la Polonia spinge con forza affinché l’Ucraina acquisisca una seria possibilità di ingresso, la Romania fa lo stesso per la Moldova e così via. Evidentemente, la teoria alla base degli scambi commerciali suggerisce che nessun paese ha interesse a rimanere ai margini di un’entità economica più forte, e che pertanto gli Stati di confine auspicano sempre di includere i paesi più prossimi nella medesima area economica. Tutto ciò porta a ricavare dalla PEV, modellata in maniera molto poco chiara, una massa indistinta di paesi con i quali l’UE ha bisogno di cooperare e vuole cooperare, senza elaborare un approccio su misura per ciascuno degli interlocutori, e con un impianto legislativo che assomiglia piuttosto a un modello a “taglia unica” – dal Marocco alla Moldova – che non necessariamente si adatta a tutti i paesi coinvolti. Inoltre, la necessità di avere confini permeabili per quanto concerne gli scambi e i flussi economici contrasta nettamente con il bisogno politico dell’UE di costituirsi intorno a un’entità politica di dimensioni importanti.

La discussione relativa alla PEV si fa ancor più confusa se si considera che l’opinione pubblica tende a non fare differenze tra i vari strumenti e status con i quali l’UE intrattiene rapporti con i paesi vicini, per esempio con la Turchia e i Balcani, con l’Ucraina, la Georgia o il Marocco. Per l’opinione pubblica spesso non c’è una distinzione giuridica, ma solo la paura che l’Unione si stia allargando troppo e che invece i confini dovrebbero essere fissati una volta per tutte. La PEV prospetta promesse che l’UE non è in grado di mantenere. Ma soprattutto si è venuta a creare una situazione magmatica e confusa su quali siano i paesi con cui l’Unione sta attualmente negoziando, quali siano quelli inclusi in accordi di pre-accesso, o quali altri facciano “solo” parte della PEV. La differenza, in termini giuridici, è sostanziale: l’Unione europea, al momento, sta negoziando con Croazia e Turchia un ingresso a pieno titolo nell’Unione. I paesi dei Balcani occidentali hanno ottenuto la promessa di essere coinvolti nei negoziati di pre-accesso, oppure, come il Montenegro e la Bosnia, si trovano già in questa condizione; Ucraina e Georgia sono comprese solo nel quadro della Politica di vicinato, come gran parte dei paesi mediterranei.

Sarebbe tuttavia necessaria una chiara distinzione, per poter condurre un dibattito serio sulla geostrategia europea. Inoltre, sarebbe di grande aiuto una valutazione realistica sulla tempistica prevista. Le discussioni in corso danno a volte l’impressione di un’enorme pressione sui tempi. I paesi coinvolti negli accordi di pre-ingresso, o nell’ambito della Politica di vicinato, talvolta chiedono date certe per l’inizio dei negoziati, ma questo lascia ai cittadini europei l’impressione che una nuova ondata di allargamenti sia questione di pochi giorni. Per trasformare la PEV nello strumento di cui l’Unione ha bisogno sarebbe utile districare la ma- tassa dello status giuridico dei diversi paesi, così come sarebbe opportuna una valutazione realistica dei tempi. Qualcuno potrebbe far notare che questo rappresenta uno dei maggiori punti di forza dell’Unione, che non è statica e può adattarsi alle necessità del domani, e che la PEV, offrendo la possibilità di sintonizzare meglio e di migliorare le relazioni dei paesi coinvolti con l’UE, sia uno strumento politico perfetto a tal fine. In questo senso, la forza della PEV sta proprio nella sua formulazione un po’ vaga e nel lasciare aperte ulteriori opzioni.

La “fatica da allargamento” incide negativamente sulla PEV

Non solo in Germania, ma anche in molti altri paesi europei si rileva una certa “fatica da allargamento”. Il Regno Unito, che ha liberalizzato molto velocemente i mercati del lavoro e dell’immigrazione, deve ora fronteggiare un vasto afflusso di lavoratori immigrati polacchi, che mandano i propri figli nelle scuole britanniche. In Italia arrivano interi pullman di lavoratori rumeni. Le donne ucraine svolgono lavori domestici in Portogallo. L’immigrazione di manodopera è uno dei fenomeni più acutamente avvertiti all’interno dei paesi europei “occidentali” e ha sicuramente portato a cambiamenti nello stato d’animo della popolazione, creando una certa ostilità verso un ulteriore allargamento. I criteri sottesi alla “capacità di assorbimento” dell’UE sono uno dei temi più citati quando si discute dell’inclusione nell’UE.

I dati, tuttavia, parlano un linguaggio diverso. L’allargamento ha portato benefici a tutti i paesi, tanto ai nuovi arrivati quanto, e di più, ai vecchi membri. Per paesi come la Germania, l’Italia o l’Austria, gli scambi Est-Ovest hanno visto una crescita a due cifre percentuali. L’ampliamento ha permesso un’estensione dei mercati, e per l’economia ciò si è tradotto in un evidente guadagno in termini statistici e collettivi. I problemi politici risiedono nel fatto che una vittoria collettiva non significa che non esistano dei perdenti nell’equazione. Sebbene il bilancio statistico sia positivo per la Germania, ciò non impedisce a un lavoratore edile del Brandeburgo settentrionale di perdere il lavoro a causa della competizione al ribasso. Il dibattito non riesce a cogliere correttamente questo punto. La questione non sta nel fatto che, per esempio, la Polonia avrebbe “vinto” grazie all’allargamento mentre la Germania avrebbe “perso”; il punto è che ne hanno tratto dei benefici, con maggiore probabilità, coloro che sono più flessibili, istruiti, giovani e qualificati della media in Polonia e in Germania, mentre tutti coloro che non rientrano in questi criteri possono sentirsi tagliati fuori dal mercato. La Politica di vicinato oggi proietta ancor più nel futuro le stesse paure vissute nel corso dell’ultimo allargamento. Il punto debole nella discussione sulla PEV è che manca ancora una consapevolezza pubblica dell’interconnessione tra i problemi interni e la politica estera. La riflessione politica riguarda più i confini e la protezione che l’apertura. In breve, la discussione verte sui costi dell’allargamento, mentre dovrebbe piuttosto riguardare i costi del non allargamento. L’allargamento viene considerato un problema, non una soluzione. Non si considera che l’ingresso di nuovi paesi all’interno dell’UE offre l’opportunità di adeguare le proprie strutture economiche agli standard del mercato europeo, proprio al fine di evitare il dumping economico e sociale; il che permette di gestire, e non di subire, le migrazioni. Viene anche sottovalutato il fatto che l’UE ha bisogno di confini permeabili con i paesi limitrofi, e che la leva che l’Unione esercita su questi ultimi è maggiore quando tali paesi sono legati alle strutture normative dell’UE, piuttosto che quando non lo sono.

Una nuova partita: Sarkozy e l’Unione mediterranea

In un certo senso Nicolas Sarkozy ha fatto un grosso favore all’Unione europea quando ha dato il via alla discussione sull’Unione mediterranea. Il progetto ha obbligato l’UE a riflettere sui progressi fatti sinora dal Processo di Barcellona, che è stato lanciato più di dieci anni fa e non ha portato a grossi risultati. Ormai è sul tavolo la consapevolezza della necessità di fare di più rispetto al versante meridionale. Uno dei vantaggi dell’Unione mediterranea – senza considerare le recenti controversie, specialmente tra Francia e Germania, in merito alla sua struttura e alla sua concezione – è che essa si fonda sia sul Processo di Barcellona sia sulla PEV, tentando di aggiornare il complesso delle politiche europee verso l’area mediterranea. L’Unione mediterranea punta a una maggiore responsabilità dell’Europa nella regione, vuole aumentare la cooperazione dei paesi tra loro, vuole ricercare partnership pubbliche e private e investimenti privati arabi da affiancare ai finanziamenti europei. Va da sé che l’Europa, e in particolare la Francia, non sta certo facendo tutto ciò per altruismo. L’Europa, specialmente i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, è colpita dall’immigrazione che parte dal Maghreb. La povertà del Nord Africa inizia pertanto a essere un problema reale. Inoltre, in termini geostrategici più ampi, alcuni dei paesi interessati dispongono di preziose risorse energetiche. L’Africa inizia a essere materia di grande interesse e appare sempre più in cima alle priorità dei grandi protagonisti delle relazioni internazionali, come gli Stati Uniti e la Cina. La Cina sta attuando una politica di intervento in Africa, mentre gli USA hanno di recente costituito i propri Africa Corps. A ragione, quindi, l’Europa si interessa all’Africa e soprattutto alla zona settentrionale del continente, potendo vantare una lunga tradizione in questo senso. L’Unione mediterranea rappresenta un tentativo di strutturare meglio e in modo più completo gli interventi che l’UE potrebbe e dovrebbe fare sul versante meridionale con i paesi vicini e che potrebbe andare al di là della PEV, senza offrire, ovviamente, una prospettiva di ingresso nell’Unione. La denominazione di Unione mediterranea è stata scelta appositamente per creare una specie di seconda entità politica esistente al di fuori dell’UE e, di conseguenza, per tagliare le gambe a ogni possibile ambizione di ingresso nell’Unione europea da parte dei paesi interessati, offrendo anche una potenziale seconda sistemazione per la Turchia, almeno nell’iniziale formulazione francese, qualora dovessero fallire le prospettive di una sua piena integrazione nell’Unione.

Il controverso potenziale dell’Unione mediterranea

Questa attenzione verso il fronte meridionale dell’Unione, comprensibilmente, non ha fatto piacere ai paesi dell’Europa orientale, e specialmente alla Polonia. Lo dimostra la recente proposta polacca di creare, in reazione ai progetti francesi, una Unione orientale, con un focus particolare sull’Ucraina. Alcuni paesi dell’UE sono riluttanti ad accettare un “trattamento speciale” per il Sud come quello prefigurato dall’Unione mediterranea, che sarà presto istituzionalizzata dalla creazione di un segretariato, mentre la gestione della PEV rimane prerogativa della Commissione e non dà vita a ulteriori dinamiche istituzionali. L’UE, se la Polonia dovesse portare avanti il progetto di una Unione orientale, si muoverà verso una crescente divisione Est-Sud.

Questa divisione risale a molto tempo fa e possiede un’impronta franco-tedesca. Già nel vertice europeo di Essen, nel 1994, nel momento in cui all’orizzonte stava prendendo forma con sempre maggior precisione l’allargamento a est, vi fu una disputa tra Francia e Germania su quanto denaro occorresse spendere per l’Est e quanto per il Sud. Da allora la distinzione tra quei paesi che avevano una vocazione a entrare nell’UE e quelli che non l’avevano divenne una precisa esigenza tedesca. In poche parole, la Francia è stata sempre riluttante all’allargamento a est e ha tentato di ritardare le politiche di ampliamento, spinta dal sospetto che queste andassero ad alimentare solo il “cortile” tedesco e a rinnovare gli interessi politici ed economici tedeschi nell’Unione. La Francia si sentiva – a torto o a ragione – emarginata nell’UE allargata e l’Unione mediterranea è stata la reazione a tutto ciò.

Probabilmente per via di questa sensazione di essere “lasciata indietro”, la Francia ha tentato inizialmente di modellare l’Unione mediterranea in modo da escludere la Germania, per esempio tagliandola fuori dal vertice euromediterraneo pianificato per il 13 luglio prossimo. Questa scelta ha provocato, nelle scorse settimane, alcune tensioni tra Francia e Germania. Il problema è stato risolto: tutti i paesi dell’UE saranno invitati al vertice. Comunque, è difficile non vedere che Francia e Germania non sono convinte di doversi prendere allo stesso modo cura di entrambi i versanti, quello orientale e quello meridionale, invece di competere per le zone di influenza. I sospetti tedeschi che l’ideazione dell’Unione mediterranea risponda in primo luogo agli interessi economici francesi rimangono forti, così come lo erano quelli francesi dieci anni fa riguardo all’allargamento a est. Forse è ora che la Francia si renda conto di quanto abbia anch’essa ampiamente beneficiato dall’allargamento a est, e che la Germania si preoccupi con sincerità per il Sud. Occorre che la nuova geostrategia europea complessiva provenga insieme da Parigi e Berlino.

Una più ampia geostrategia dell’Unione europea

Nel prossimo decennio l’Europa verrà valutata sulla base dei successi ottenuti in politica estera. Perciò l’Europa ha bisogno di superare la linea di divisione tra politica “esterna” e “interna” e di iniziare a vedere la geostrategia come parte delle politiche interne. Inoltre, l’Europa deve superare la distinzione tra Est e Sud, partendo dalla considerazione che entrambi i versanti hanno identica importanza; senza tuttavia arrivare al punto che le politiche verso il Sud e verso l’Est arrivino necessariamente a coincidere: al contrario, i paesi orientali e quelli meridionali necessitano di politiche tagliate su misura all’interno della cornice della PEV. L’approccio geostrategico deve comunque essere onnicomprensivo, e per far questo l’UE deve, per prima cosa, ammettere di avere degli interessi geostrategici. L’Unione europea ha bisogno di uno scatto in avanti, da una politica estera basata sui valori a una politica estera basata sugli interessi, ma deve anche essere consapevole che ciò non avverrà senza comportare costi. Riorganizzare il nostro impegno economico, politico, militare o culturale nei confronti dei paesi limitrofi – a est o a sud – avrà un costo. L’UE dovrà affrontare una discussione più approfondita in merito a vari temi come quelli del protezionismo o dell’apertura. Solitamente il protezionismo comporta benefici a breve termine e costi a lungo termine, mentre una politica di apertura prevede costi immediati – adattamento del mercato del lavoro, problemi legati all’immigrazione – contro benefici sul lungo termine.

Ancora, i prossimi cento anni saranno caratterizzati da una nuova geostrategia e da nuove aree di interesse da parte degli attori presenti sulla scena globale, a dispetto del mantra del multilateralismo consensuale. L’Europa deve decidere se vuole avere una geostrategia comune, considerando che in gioco ci sono interessi euro-nazionali. Se dovesse optare in tal senso, l’UE dovrebbe davvero rallegrarsi ed essere orgogliosa per ogni paese che riuscisse a vincolare maggiormente alle disposizioni, alle norme e agli standard europei, e in generale per ogni paese che volesse entrare a far parte dell’UE: ciò semplicemente rafforzerebbe la zona euro e l’area di Schengen, il mercato comune e di conseguenza l’influenza dell’Europa, posto che in parallelo procedano i progressi istituzionali interni all’Unione. La PEV, per cominciare, è un ottimo strumento per espandere i valori e gli interessi europei. È già vero che, per esempio, la Russia e l’UE sono in competizione in termini di politiche di vicinato nelle zone in cui vi sono dei “conflitti congelati”, e non è poi così sicuro che l’UE, agli occhi dei paesi in questione, abbia il miglior modello da offrire. Quando si discute dei potenziali costi dell’allargamento, per esempio rispetto ai paesi dei Balcani occidentali, a partire dalla PEV, bisognerebbe anche sottolineare il fatto che la guerra, nel lungo periodo, è più costosa della pace; o che ventidue milioni di nuovi clienti ed euro-utenti nell’area del mercato unico sono un vantaggio per l’UE; o che, per quanto riguarda le aree di conflitto congelato, la PEV è uno strumento perfetto per stringere legami con i paesi vicini, fino a che le cose non saranno più chiare.

L’unica condizione è che l’UE si rafforzi e dimostri coraggio in questo processo.