Etica della ricerca biomedica: per una visione cristiana

Di Ignazio R. Marino Martedì 01 Aprile 2003 02:00 Stampa

La valutazione della condotta umana in ambito medico e scientifico alla luce di valori e principi morali si è resa sempre più necessaria negli ultimi decenni, parallelamente all’avvento di scoperte e ricerche che hanno rivoluzionato la posizione stessa dell’uomo nei confronti della natura, della vita e della morte. Oggi è impensabile ignorare gli innumerevoli quesiti morali emersi dall’inarrestabile progresso scientifico e la ricchezza (e al contempo complessità) della riflessione bioetica nasce dalla sua stessa natura interdisciplinare. Un concreto contributo agli interrogativi posti dalla ricerca biomedica può derivare soltanto dal confronto continuo fra studiosi e operatori di diversa formazione: medici, biologi, teologi, giuristi, psicologi, economisti, politici.

 

La valutazione della condotta umana in ambito medico e scientifico alla luce di valori e principi morali si è resa sempre più necessaria negli ultimi decenni, parallelamente all’avvento di scoperte e ricerche che hanno rivoluzionato la posizione stessa dell’uomo nei confronti della natura, della vita e della morte. Oggi è impensabile ignorare gli innumerevoli quesiti morali emersi dall’inarrestabile progresso scientifico e la ricchezza (e al contempo complessità) della riflessione bioetica nasce dalla sua stessa natura interdisciplinare. Un concreto contributo agli interrogativi posti dalla ricerca biomedica può derivare soltanto dal confronto continuo fra studiosi e operatori di diversa formazione: medici, biologi, teologi, giuristi, psicologi, economisti, politici. Questa caratteristica ribadisce il ruolo della ragione nell’etica, un ambito in cui l’inconciliabilità di posizioni diventa non impasse argomentativo ma, piuttosto, il motivo stesso per dare avvio al dibattito pubblico. Ma per «pubblico» non dobbiamo intendere semplicemente la cerchia multidisciplinare a cui si è accennato bensì il ben più ampio pubblico dei non-tecnici. Da un lato, infatti, i tecnici devono possedere un bagaglio formativo adeguato che permetta loro di discutere del problema ma anche di presentarlo ai non addetti ai lavori. Dall’altro, dobbiamo auspicare che il dibattito su questioni che investono la nostra stessa natura diventi pratica comune fra l’opinione pubblica e adoperarci affinché quest’ultima acquisisca strumenti e sensibilità adatte alla valutazione ragionata e non sensazionalistica.

In un’ottica di dibattito pubblico un ruolo particolarmente importante dovrebbe essere assunto dalla politica attraverso i rappresentanti dei cittadini, chiamati ad un compito affatto secondario. La politica dovrebbe, infatti, rappresentare il trait d’union tra il mondo scientifico e la società, avendo tra le sue funzioni anche quella di decidere che cosa è ragionevolmente lecito fare per regolamentare ciò che il progresso scientifico mette a nostra disposizione. La politica dovrebbe, in altre parole, accompagnare la scienza, garantendone il fondamento etico sulla base di valori comuni che caratterizzano la nostra società. Allo stesso tempo il legislatore, interpretando le opportunità offerte da una scienza in continua evoluzione, dovrebbe mirare ad elaborare norme e regolamenti volti a garantire a tutti l’uguaglianza di accesso a ciò che il progresso scientifico offre concretamente all’intera società, sempre che si concordi sul presupposto che l’obiettivo comune sia il miglioramento della qualità della vita umana.

Un principio irrinunciabile resta comunque quello della responsabilizzazione dell’uomo, dello scienziato come del paziente/cittadino che, di fronte a quesiti morali profondi in grado di influire sul futuro stesso dell’umanità, sappia fermarsi e decidere in coscienza. Questo (il concetto a-culturale e a-religioso di assunzione di responsabilità personale) può costituire il primo passo fondamentale per la definizione delle caratteristiche di una bioetica universale e per la mitigazione delle differenze fra bioetica cattolica, bioetica protestante, ortodossa ec. Ciò si rende necessario dal momento che la medicina non è più solo assistenza ma è anche un modo di intervenire sulla vita stessa: si può creare la vita in provetta o posporre la morte oltre i limiti naturali, utilizzando la straordinaria tecnologia disponibile nei reparti di rianimazione e terapia intensiva.

 

Una morale, tante bioetiche? Una modest proposal per il superamento del particolarismo etico

I più cogenti interrogativi morali vengono posti oggi dal fatto che la ricerca permette all’uomo di intervenire in modo sempre più (onni)potente sulla stessa vita, sulla sua origine e fine. Sempre più frequentemente i rischi vengono offuscati in nome del progresso scientifico e la cosiddetta neutralità morale della ricerca è diventata sempre più tristemente illusoria. È quindi necessario ribadire, oggi più che mai, che scienza e tecnica devono rispettare i criteri fondamentali dell’etica. Il vero dibattito si apre sull’individuazione e delimitazione universale di tali criteri. Da un lato si avverte la necessità di stabilire linee guida universalmente valide, dall’altro sembra che il campo stesso di indagine lo impedisca. La conseguenza diretta di questo impasse o, meglio, la sua soluzione abituale è molto spesso di tipo puramente legale-giuridico, influenzata da argomenti politici ed economici. Ci troviamo a confrontarci con quello che il Sommo Pontefice nel capitolo III della Enciclica «Evangelium Vitae»1 definisce «relativismo etico», spesso sancito da una maggioranza parlamentare o sociale il cui carattere morale non è mai assolutamente automatico. Il compito della legge civile resta diverso e più limitato rispetto a quello della legge morale, tanto che in alcune circostanze possiamo addirittura parlare di abdicazione dell’etica. Per rompere questo cerchio si richiede una ripresa vigorosa della volontà di bene, di un anelito sincero verso la verità della persona e della società che è chiamata a costruire, mediante la ritessitura dell’ordine dei valori e un appello rivolto alla coscienza di tutti, anche dei legislatori e delle forze educative.

Come accennato la scienza deve necessariamente passare attraverso una «coscientizzazione» delle diverse discipline. Fermo restando che la valutazione razionale è prerequisito indispensabile a quella morale, l’arbitrio del ricercatore deve essere disciplinato dal senso di responsabilità, bilanciato dalla valutazione non solo dei rischi ma anche delle conseguenze. Ciò è possibile su base razionale, tecnica e non sulla spinta di una coscienza morale particolarmente sviluppata, né della fede religiosa. Si tratta quindi di una concreta finalità che ogni uomo di scienza (credente o meno) dovrebbe rispettare, dimostrando di comprendere e di saper gestire il potere che le innovazioni tecnologiche mettono a sua disposizione e di essere padrone dei propri strumenti cognitivi. Questa può affermarsi come una visione antropologica che esula da categorizzazioni religiose o culturali e che può davvero costituire la chiave di accesso alla soluzione del problema della specificità di etiche particolari: la forza di fermarsi, di evitare, di non spingersi oltre, di non valicare il punto di non ritorno. Ciò non deve essere frainteso con una volontà bigotta di arrestare il progresso scientifico, bensì con quella di preservare il bene più prezioso: la vita umana e l’amore verso di essa – valori che nessuna cultura potrà mai arrivare a negare.

 

Per una bioetica cristiana

L’approccio cristiano parte dall’assunto fondamentale che la natura della persona umana è al tempo stesso corporale e spirituale e che tale persona fa riferimento ad una legge morale naturale. La prima conseguenza è che qualsiasi intervento sulla persona coinvolge sia corpo, sia spirito. Da qui, un aumento di responsabilità morale da parte del medico o ricercatore. L’uomo è «corpore et anima unus»:2 questa è la cosiddetta visione antropologica a cui fare riferimento quando si cercano risposte ai quesiti posti dalle nuove scoperte biomediche. Questo può aiutare la cristianità a prendere decisioni etiche anche in presenza di valori e significati di ordine personale che spesso determinano il senso (o l’assenza di senso) morale degli interventi biomedici sull’uomo. In questo contesto il ruolo della Chiesa potrebbe essere riconosciuto non solo dai fedeli ma da quanti vedono in essa un magistero posto al servizio del bene ultimo, la vita. È la missione evangelica della Chiesa ed il suo dovere apostolico che la autorizzano a giocare un ruolo fondamentale nella ricerca e valutazione di risposte etiche di fronte ai quesiti posti dalla ricerca biomedica. Il superamento del particolarismo etico all’interno di una visione morale universalmente accettabile diventa occasione di sensibilizzazione alla «cultura della vita» che si concretizza nel chiarimento del complesso equilibrio tra responsabilità sociale ed autonomia individuale. Questi valori non possono essere estranei ai non fedeli, rifacendosi al concetto di responsabilità ragionata e lungimirante del tecnico così come del singolo cittadino, resi consapevoli della possibilità di un atto di rinuncia in nome dell’amore per la vita.

 

Il caso delle gemelline siamesi e la donazione d’organo da vivente

Dibattito pubblico, relativismo e particolarismo etico, bioetica giustificativa e bioetica cristiana, sono tutti argomenti che possono essere discussi alla luce di un fatto realmente accaduto e delle sue implicazioni generali. L’esempio riguarda la vicenda che nel maggio 2000 in Italia ha coinvolto due gemelline siamesi neonate, entrambe vigili e cerebralmente intatte, per una delle quali si è ipotizzata la possibilità di sopravvivenza attraverso il «prelievo» di tessuto cardiaco dell’altra. Una sorta di «donazione da vivente» che implicava il «sacrificio» di una delle due bambine. Ripercorrere analiticamente tale vicenda non solo ci consente di ragionare su quali pratiche oggi «tecnicamente» possibili siano anche «eticamente» lecite, ma ci permette anche di considerare il valore del dibattito pubblico ed il peso in esso della bioetica giustificativa. L’intervento chirurgico, al di là degli aspetti tecnici, poneva infatti un importante quesito di bioetica: è lecito condurre in sala operatoria due individui con attività cerebrale integra avendo scelto che uno di essi dovrà essere ucciso per prelevare organi necessari alla sopravvivenza dell’altro? Personalmente credo che la risposta debba essere un fermo «no» ma in quell’occasione il dibattito pubblico, una sorta di bioetica giustificativa sollevata dai media e, infine, l’approvazione del Comitato etico dell’ospedale dove erano ricoverate le due bambine portarono ad eseguire l’intervento che si concluse con la morte di entrambe le pazienti. Il tragico epilogo è irrilevante nella valutazione bioetica e nella scelta di coscienza che motivò la mia personale decisione di non partecipare né alla preparazione, né all’intervento stesso. Il quesito però rimane tuttora aperto: è accettabile sacrificare una vita per salvarne un’altra? Rifacendosi ancora all’Enciclica «Evangelium Vitae» la risposta appare chiara: «La vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza». Questa sacralità della vita non è un concetto riconducibile all’esclusiva visione cristiana, ma è certamente condivisa anche da una bioetica a-religiosa, che si riconduce al valore della vita senza attribuzioni di sacralità e/o soprannaturalità. Ed ecco quindi l’importanza della bioetica come materia non di esclusivo possesso di scienziati o dotti che ne discutano in convegni specializzati; ecco il valore del coinvolgimento diretto dei singoli individui, dei cittadini non addetti ai lavori per pervenire ad un’opinione «informata». Nella società attuale, largamente influenzata dai media, questo si realizza molto raramente a causa di un giornalismo divulgativo-scientifico spesso gestito da professionisti privi della necessaria preparazione e che in simili circostanze favorisce una «bioetica giustificativa», quasi di consumo. La responsabilità sia degli scienziati che dei professionisti della comunicazione è altissima: una condotta superficiale da parte di entrambi può determinare aspettative irreali nella popolazione e nei singoli pazienti. Gli uomini di scienza hanno il compito di spiegare ma d’altra parte chi si occupa di comunicazione dovrebbe avere il rigore di comprendere e verificare il senso dell’informazione che fornisce. Probabilmente entrambe le categorie (scienziati e giornalisti) dovrebbero partecipare a corsi di bioetica che li rendano responsabilmente consapevoli del valore dell’informazione nel contribuire alla costruzione di una società pluralista preparata a decidere come utilizzare le innovazioni tecniche.

Il caso citato può essere integrato con altri esempi che pongono problemi di bioetica gravi e spesso ignorati come la compravendita degli organi a scopo di trapianto. Premesso che il prelievo di un organo da un donatore vivente, che faccia liberamente questa scelta, è oggi un intervento molto sicuro, è necessaria una valutazione dal punto di vista bioetico affinché il semplice fatto della eseguibilità dell’intervento non divenga la motivazione ad eseguirlo. Si tratta, infatti, di una prestazione chirurgica su una persona assolutamente sana che, per essere donatore, si espone agli inevitabili rischi di morbilità e mortalità connessi all’intervento. Per questo il meccanismo di consenso informato e la procedura di selezione della coppia donatore-ricevente devono essere particolarmente rigidi e controllati. Con preoccupazione si assiste, però, alla diffusione di questa pratica non solo come atto d’amore ma come opportunità di organizzare un vero commercio di organi ma, d’altra parte, negli ultimi anni si è assistito ad un fiorire di proposte ed articoli su riviste scientifiche che tendono a giustificare la compravendita degli organi, seppure in maniera regolamentata, e ne teorizzano l’applicabilità. Anche l’American Medical Association ha proposto di avviare una ricerca su campioni di cittadini americani con lo scopo di testare in quale misura l’introduzione di incentivi economici potrebbe influire sulla decisione di diventare donatore di organi. La comunità scientifica si chiede dunque se sia eticamente ammissibile il pagamento degli organi destinati al trapianto, confermando il generale rafforzarsi del rapporto fra sanità ed economia, salute e denaro, bene fisico e (im)mobile. Il ragionamento alimenta un dibattito, che va ben oltre la problematica del trapianto, tra chi sostiene che gli incentivi economici possono contribuire a far aumentare le donazioni e di conseguenza a salvare vite umane e chi, invece, pensa che esistano limiti invalicabili e che il corpo umano non possa essere considerato come una merce, con un prezzo fissato per la vendita. È lecito domandarsi infatti se sia etico e moralmente accettabile un sistema in cui le donazioni, di fatto, risulterebbero a carico dei meno abbienti mentre le fasce di popolazione più agiate si potrebbero accontentare di ricevere un organo pagando. Io credo che qualunque strada che preveda una forma di compenso economico debba essere evitata perché porta ad una allocazione iniqua degli organi, basata sulle differenze di censo e non sull’urgenza medica o priorità in lista di attesa.

 

Dalla compravendita degli organi alle cliniche per il suicidio

In un recente articolo pubblicato dal quotidiano «The Wall Street Journal Europe»3 vengono descritte in modo agghiacciante le ultime ore di vita di una signora, Marie Hascoet e il suo viaggio da Parigi a Zurigo per essere sottoposta alla pratica, a pagamento, di suicidio assistito. L’articolo descrive come l’organizzazione svizzera Dignitas dal 1998 ad oggi abbia assistito circa centoquaranta individui che si sono recati a Zurigo per mettere fine alla propria esistenza in maniera legale. Cittadini americani, inglesi, egiziani, israeliani, tedeschi e di altri paesi ancora giungono in Svizzera, firmano un consenso informato (chiamato «Declaration of Suicide») e vengono aiutati a suicidarsi in una clinica specializzata. Il suicidio assistito viene eseguito utilizzando una combinazione di farmaci (antiemetici e barbiturici) secondo un preciso protocollo farmacologico coordinato da personale medico ed infermieristico specializzato. Il tutto viene gestito con l’accuratezza tipica di una struttura di eccellenza che accoglie pazienti che si affidano alle risorse più avanzate della ricerca medica per potersi curare e salvare la propria vita. Le cartelle cliniche vengono preventivamente inviate ed esaminate; successivamente il «paziente» viene convocato per una accurata visita medica che confermi «l’indicazione al suicidio»; questi, infine, ritorna nella propria città per «sistemare le proprie cose» ed acquistare il biglietto di sola andata per il suo ultimo viaggio. Anche di fronte a simili racconti è necessario, e sempre più urgente, porsi il quesito se si possa considerare eticamente lecito tutto questo.

Possono la ricerca medica e la tecnologia oggi a nostra disposizione essere utilizzate allo scopo di assistere chi ha deciso di porre fine alla propria esistenza o, addirittura, per sopprimere un individuo in sala operatoria per salvarne un altro, solo perché forme di bioetica giustificativa insieme a pressioni sociali ed economiche sembrano suggerirlo? Qual è il limite che dobbiamo porci come individui, membri di una società pluralista, nell’utilizzare gli strumenti che la scienza ci mette a disposizione e quali sono invece le caratteristiche di una visione cristiana di questi complessi problemi? È difficile conciliare integralmente entrambe le esigenze ma è sicuramente possibile individuare un denominatore comune. Chi crede nella vita eterna e vive nella fede ha una visione diversa ed anche un conforto differente nel valutare le situazioni che l’esistenza pone a ciascuno. Tuttavia, il rispetto della sacralità della vita e della dignità degli individui non è patrimonio esclusivo dei cristiani, il valore incomparabile della persona umana è certamente patrimonio comune di tutti gli appartenenti alla società, o almeno dovrebbe esserlo, al di là di qualunque fede. A questo elemento è forse più opportuno ricondursi perché si possano studiare ed applicare nella società principi e leggi che proteggano la vita umana ed impediscano la sua soppressione, mercificazione o la sua riduzione ad un bene di consumo. Questo obiettivo può essere raggiunto da tutti coloro che in una società pluralista abbiano a cuore i valori essenziali della vita. Vi sono aree dove la ricerca medica pone quesiti bioetici per i quali è difficile trovare pieno accordo tra tutte le componenti sociali, ma anche in queste aree deve esservi un impegno alla regolamentazione: non deve più accadere (come, invece, spesso si è verificato anche nei paesi più avanzati) che la scienza individui nuovi percorsi che vengono poi lasciati senza normative per anni.

L’appello è dunque rivolto anche al mondo politico perché intervenga non in senso difensivo nei confronti di un’umanità in balia del progresso scientifico, ma piuttosto perché favorisca una maggiore interazione e dibattito tra due mondi che si conoscono ancora poco e che hanno convissuto fino ad ora in un clima di reciproca estraneità e diffidenza. L’impegno in questo senso richiede investimento intellettuale e di risorse sia da parte del mondo scientifico che dei rappresentati della società e la creazione di apposite commissioni di esperti, affinché cittadini e parlamenti possano partecipare al dibattito in maniera informata e decidere di conseguenza quale percorso seguire. Il percorso più sciocco e pericoloso, per laici e cristiani, è quello di dimenticare queste esigenze etiche come parte essenziale della nostra esistenza.4

 

 

 

Bibliografia

1 Cfr. Lettera Enciclica Evangelium Vitae del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, ai fedeli laici e a tutte le persone di buona volontà sul valore e l’inviolabilità della vita umana, Città del Vaticano 25 maggio 1995.

2 Concilio Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, cap. 1, 14, Città del Vaticano 1965.

3 G. Naik, Assisted-suicide group makes more final exits go through Switzerland, in «The Wall Street Journal Europe», XX, 206, 1 novembre 2002.

4 Ringrazio Alessandra Cattoi e Claudia Cirillo per la collaborazione alla stesura e revisione del testo.