La carta americana nella politica estera italiana

Di Leopoldo Nuti Martedì 01 Aprile 2003 02:00 Stampa

«Se dobbiamo acconciarci a un’Europa per finta (…) o a un’unione europea sorta da un eventuale pateracchio anglo-francese che lasci de facto l’Italia in situazione di inferiorità (…) meglio varrebbe non prestarci al gioco e farci invece paladini della comunità atlantica (…) abbastanza per dare una buona presentazione “politica” al fatto nudo e crudo che, l’Italia non potendo da sola essere indipendente, e l’Europa non riuscendo a farsi, il padrone più ricco e più lontano è sempre il migliore».

 

Ovvero, il padrone più ricco e più lontano è sempre il migliore

 

«Se dobbiamo acconciarci a un’Europa per finta (…) o a un’unione europea sorta da un eventuale pateracchio anglo-francese che lasci de facto l’Italia in situazione di inferiorità (…) meglio varrebbe non prestarci al gioco e farci invece paladini della comunità atlantica (…) abbastanza per dare una buona presentazione “politica” al fatto nudo e crudo che, l’Italia non potendo da sola essere indipendente, e l’Europa non riuscendo a farsi, il padrone più ricco e più lontano è sempre il migliore».1 È così che nel febbraio del 1963, mentre il processo di integrazione europea sembrava essere ormai sull’orlo del collasso a causa delle iniziative prese da De Gaulle nel corso delle settimane precedenti, l’ambasciatore Roberto Ducci, ricorrendo a un linguaggio che evocava la saggezza antica e un po’ cinica dei contadini della sua Toscana, descriveva il ruolo di guida che gli Stati Uniti rivestivano nella politica estera italiana. Con il passare degli anni quella definizione non sembra aver perso la sua attualità: basta sostituirvi la Germania alla Gran Bretagna nel ruolo di possibile partner della Francia, e potrebbe essere stata rilasciata da un qualunque esponente della Farnesina nelle settimane scorse.

Sono molte le ragioni che contribuiscono a spiegare la straordinaria importanza che gli Stati Uniti hanno assunto nella storia delle relazioni internazionali dell’Italia a partire dal secondo conflitto mondiale, e che integrano quelle sin troppo ovvie collegate alla centralità di Washington nel sistema internazionale contemporaneo. Alcune di esse derivavano direttamente dallo scenario della guerra fredda e dalle caratteristiche del sistema internazionale in cui l’Italia si trovò inserita dopo la disastrosa esperienza della seconda guerra mondiale. Altre, tuttavia, hanno radici più profonde, e sono probabilmente queste ultime che determinano la presenza costante degli Stati Uniti nelle scelte di politica estera dell’Italia anche dopo la fine del confronto bipolare. Vorrei perciò cercare di riflettere su alcune di esse, tenendo sempre presente che è proprio dalla loro combinazione che deriva la buona – e piuttosto insolita – sorte di una formula che è sopravvissuta per più di cinquant’anni. La carta americana ha funzionato al meglio tanto nella politica estera quanto in quella interna dell’Italia, perché ha più volte dimostrato di essere quella giusta per centrare diversi obiettivi con il minimo sforzo.

 

Le ragioni di un successo

Alla base dell’importanza degli Stati Uniti per la politica estera italiana del secondo dopoguerra vi è indubbiamente la traumatica esperienza della guerra mondiale, che lasciò il paese nel caos. L’armistizio fra l’Italia e gli alleati del 3 settembre del 1943 è uno spartiacque concettuale fondamentale per capire la politica italiana del dopoguerra: l’armistizio sancì, infatti, la rinuncia definitiva dell’Italia ad affermare la propria presenza sulla scena internazionale attraverso l’uso della forza e il ricorso agli strumenti della politica di potenza nella sua più tradizionale versione ottocentesca. L’entità del disastro del 1943, preannunciando la prospettiva di un paese a lungo destinato a versare in condizioni di debolezza, fu tale da persuadere la successiva generazione di politici italiani della necessità che l’Italia evitasse in futuro di fare della forza militare l’elemento chiave della propria politica estera. Lo Stato italiano ricostituito durante gli ultimi due anni di guerra si trovò quindi inevitabilmente a fare i conti con un inevitabile complesso di inferiorità, e cercò di riaffermare il proprio status di membro «a pieno titolo» della comunità internazionale inizialmente reclamando il ruolo di cobelligerante contro la Germania nazista, in seguito cercando di evitare gli aspetti punitivi del trattato di pace, poi chiedendone la revisione e infine esercitando una pressione costante per prendere parte a tutte le organizzazioni internazionali a cui il mondo occidentale stava cercando di dare vita (con la significativa eccezione iniziale dell’Unione occidentale di cui gli Stati Uniti non facevano parte).

Parallelamente alla percezione della propria debolezza, si faceva strada la consapevolezza che il futuro dell’Italia come paese europeo non sarebbe stato del tutto roseo, almeno per diversi anni a venire. Lo scenario europeo del secondo dopoguerra sarebbe stato molto presumibilmente dominato da due potenze, Parigi e Londra, che non avrebbero facilmente dimenticato il tradimento del 1940; la Germania sarebbe probabilmente rimasta a lungo in condizioni di debolezza e Mosca era percepita allora come un’entità misteriosa e pericolosa. Benché alcuni diplomatici italiani avessero per un certo periodo immaginato che tramite la carta russa si potesse esercitare qualche pressione sugli alleati occidentali al fine di mitigare il loro atteggiamento nei confronti di Roma, divenne presto chiaro che solo gli Stati Uniti rappresentavano l’unica leva a cui la diplomazia italiana poteva, di fatto, ricorrere per recuperare almeno parte del suo precedente status. Infatti, non solo gli Stati Uniti non consideravano l’Italia un nemico tradizionale, ma il forte attaccamento della comunità italo-americana alla vecchia madrepatria, che l’establishment politico americano non poteva ignorare, rappresentava certamente un vantaggio prezioso per la politica estera italiana. La ricerca di una relazione privilegiata con Washington iniziò dunque prima della fine del conflitto mondiale e precedette l’avvio della guerra fredda. Il timore dell’espansionismo sovietico senza dubbio consolidò questo percorso ma non ne fu la causa originaria. L’armistizio e la cobelligeranza ebbero perciò un duplice effetto sulla diplomazia del dopoguerra, dimostrando la debolezza della posizione italiana ma indicando al tempo stesso nella relazione con Washington una soluzione possibile alla difficile situazione del paese.

La seconda conseguenza dei disastri provocati dalla guerra fu quella di lasciare l’Italia in una condizione pre-rivoluzionaria. Molto prima che la guerra finisse, perciò, le classi dirigenti italiane avevano già cominciato a rivolgere accorati appelli a Washington e a Londra: se gli alleati non avessero aiutato l’Italia, l’equilibrio interno del paese rischiava di essere sovvertito con il risultato che alla fine delle ostilità il probabile vincitore del confronto politico sarebbe stato un partito dall’orientamento rivoluzionario. Anche in questo caso Washington si rivelò il partner chiave per gli italiani: infatti, mentre Londra era troppo strettamente associata alla corona e ai settori più conservatori della società italiana, Roosevelt scommise sul successo di un partito democratico e riformista per contrastare una probabile vittoria comunista. Dal punto di vista americano i democristiani di Alcide De Gasperi assolsero solo in parte questo compito, ma almeno assicurarono, non fosse altro perché in quel momento non esistevano alternative migliori, cinquanta anni di una cooperazione relativamente fruttuosa con Washington. Il secondo risultato della fase finale della guerra fu quindi quello di coinvolgere ulteriormente gli Stati Uniti nelle questioni interne dell’Italia e di rafforzarne il ruolo di referenti principali della sua classe dirigente. Dunque, non solo l’alleato necessario a fornire un contrappeso rispetto alle potenze europee, sfiduciate se non addirittura sdegnate nei confronti dell’Italia, ma anche un attore indispensabile sulla scena politica interna, in grado di prevenire una probabile vittoria di forze rivoluzionarie. Se si tengono presenti questi due punti, ci si rende conto che nel momento in cui gli Stati Uniti assurgevano a garanti supremi della sicurezza europea di fronte all’espansionismo sovietico, la futura classe dirigente italiana aveva già ben chiaro che negli anni a venire Washington avrebbe rivestito un ruolo cruciale sull’orizzonte politico italiano. La minaccia sovietica, quindi, rendeva la protezione americana determinante, e sostanzialmente consolidava, permettendole di svilupparsi a pieno, una realtà già pre-esistente. La sicurezza che conferiva l’ombrello dell’alleanza atlantica, inoltre, permise ai diversi governi italiani del dopoguerra di contenere i costi per la difesa ben al di sotto delle possibilità del bilancio nazionale, malgrado tale politica non fosse affatto condivisa o incoraggiata da Washington, che in questo settore avrebbe certamente apprezzato un alleato più attivo. Ciò non significa peraltro, come invece spesso si legge, che l’Italia per quasi cinquant’anni non abbia avuto una politica estera o di sicurezza, né che l’abbia delegata in toto agli Stati Uniti. Al contrario, la storia della politica estera italiana del dopoguerra ha registrato ripetuti tentativi volti a orientare la relazione con Washington in base all’interesse nazionale del paese, e numerosi contrasti ogni volta che la ricerca di un ruolo più autonomo si è trovata in contraddizione, o abbia minacciato di farlo, con gli interessi statunitensi in particolare nel Mediterraneo o in Medio Oriente.2

Il sostegno americano al processo di integrazione europea consentì inoltre all’Italia di riconciliare la propria inclinazione a promuovere questo obiettivo con l’aspirazione a costruire una relazione atlantica stabile e privilegiata. L’Europa immaginata dagli statisti italiani dei primi anni del dopoguerra, in particolare Sforza e De Gasperi, corrispondeva a una singolare combinazione di idealismo e realismo. Del tutto consapevoli della debolezza politica italiana, i padri fondatori dell’europeismo italiano scelsero di iniziare un nuovo percorso lontano dalle logiche della politica di potenza e immaginarono invece un’Europa in cui tutti gli Stati avrebbero gradualmente rinunciato ai loro attributi per fondere le loro sovranità in un’unica entità sopranazionale grazie alla quale l’inferiorità italiana sarebbe diventata irrilevante. Un’Europa su base federalista, insomma, si confaceva molto di più agli interessi italiani di una struttura su base intergovernativa, dove l’Italia non sarebbe stata in grado di esercitare un peso politico analogo a quello delle altre principali potenze del continente. Un’Europa di questo tipo sarebbe stata infine fermamente inserita nel quadro atlantico, con gli Stati Uniti pronti tanto a garantire la sua sicurezza quanto a scongiurare l’eventualità che il vecchio equilibrio di potenza europeo potesse tornare in vita. Fu solo quando l’integrazione europea minacciò di volgere nella direzione sbagliata, allontanandosi dal bozzolo atlantico in cui era stata in origine concepita, che l’Italia dovette affrontare la prospettiva estrema di un possibile contrasto fra i due pilastri portanti della propria politica estera del dopoguerra. Quando ciò si è verificato – e negli ultimi cinquant’anni sono state molte le dispute, anche dai toni aspri, in cui all’Italia si è chiesto di prendere posizione per Parigi o Washington – Roma è sempre stata attenta a non compromettere la relazione con nessuno dei suoi due alleati, e tuttavia ha anche spesso dimostrato una certa riluttanza a seguire la strada francese propendendo invece per un atteggiamento più atlantista. La crisi di Suez del 1956 è probabilmente l’esempio più chiaro di questa impostazione: l’Italia in quell’occasione appoggiò la condanna americana dell’intervento anglo-francese contro l’Egitto, nello stesso momento in cui i diplomatici italiani si stavano incontrando con i loro colleghi francesi per redigere i testi dei futuri trattati di Roma. Non solo, si potrebbe anche ricordare la posizione atlantista, meno nota ma altrettanto eloquente, adottata dall’Italia all’inizio del 1963 per contrastare le provocatorie iniziative intraprese dal generale de Gaulle nelle prime tre settimane del gennaio dello stesso anno, quando lo statista francese rigettò la prima domanda inglese di adesione alle Comunità a pose le basi per la creazione dell’asse franco-tedesco con la firma del trattato dell’Eliseo.

 

Alcuni esempi

Dalla fine della seconda guerra mondiale la stretta relazione con Washington si è dunque rivelata una delle strade più sicure per la classe dirigente italiana. Inoltre, poiché le radici di questa politica precedettero l’avvio della guerra fredda, non dovrebbe sorprendere che tale relazione sia sopravvissuta alla fine dell’Unione Sovietica e che abbia continuato ad essere uno degli assi portanti della politica estera italiana. Come ha fatto notare ad esempio Frank Ninkovich, molte delle strutture internazionali create durante il periodo della guerra fredda non erano mere risposte ai problemi del conflitto bipolare, ma costituivano delle soluzioni per una serie di nodi strutturali del sistema internazionale la cui esistenza precedeva l’emergere delle ostilità fra l’Unione Sovietica e l’Occidente.3 Questa interpretazione sembra essere valida anche per alcune caratteristiche della politica estera italiana del dopoguerra. Sono molti gli esempi che potrebbero essere citati per dimostrare come, in circostanze e momenti diversi, i politici italiani siano stati in grado di prevedere i molti vantaggi che sarebbero derivati dal giocare la carta americana al momento giusto, poiché una simile scelta avrebbe verosimilmente consentito loro di perseguire l’interesse nazionale, cogliere dei successi sul piano della politica interna e, al tempo stesso, promuovere le loro carriere personali. Due decisioni strategiche cruciali, prese rispettivamente nel 1958 e tra il 1979 e il 1983, sono fra gli esempi più chiari di questa tendenza. Nel luglio del 1958 il presidente del Consiglio Amintore Fanfani prese personalmente l’iniziativa di comunicare al presidente degli Stati Uniti, Dwight Eisenhower, la sua volontà di procedere con il dispiegamento in Italia dei nuovi missili balistici a raggio intermedio, (IRBM) Jupiter, facendo così dell’Italia il primo paese della NATO ad accettare le armi nucleari offerte da Washington ai propri alleati nel dicembre precedente. I motivi che avevano indotto il presidente del Consiglio italiano ad approvare l’installazione degli IRBM erano molti, e in larga parte attinenti al campo della politica estera. In particolare il dispiegamento avrebbe conferito all’Italia uno status di potenza nucleare e ne avrebbe accresciuto il prestigio internazionale in una fase in cui la questione dello sviluppo militare nucleare si era collocato al centro del dibattito atlantico relativo alla migliore strategia di difesa dell’Occidente. Di fronte al rischio che la posizione italiana potesse indebolirsi in seguito all’acquisizione britannica di un deterrente nucleare e all’intenzione francese di seguire rapidamente l’esempio britannico, Roma si trovò, di fatto, a fare i conti con l’opzione NATO e la relazione con Washington come l’unico strumento per competere con lo status di potenze nucleari dei partner europei, a meno che non decidesse di lanciare un programma nazionale nucleare proprio, che avrebbe tuttavia comportato enormi costi economici e politici.4

D’altra parte, poiché Fanfani aveva elaborato un proprio ambizioso progetto politico, aveva anche alcune motivazioni del tutto personali per accettare l’installazione dei missili. Al momento dell’incontro con il presidente Eisenhower il suo governo era stato appena formato, ma già si preannunciava come determinato a seguire un programma di politica estera coraggioso e innovativo. Prima del viaggio a Washington, a Roma si erano già diffuse varie voci secondo cui il nuovo presidente del Consiglio auspicava una politica italiana più audace che in passato rispetto alla questione mediorientale, e più in generale verso tutti i paesi di recente indipendenza del Terzo mondo. Inoltre si diceva che Fanfani intendesse effettuare un rimpasto radicale ai vertici del ministero degli Esteri per trasformarlo in uno strumento più consono alla sua politica – cose che fece effettivamente nelle settimane successive. E infine, il nuovo presidente del Consiglio sembrava intenzionato a adottare un programma di politica interna tale da preparare il terreno ad un riavvicinamento con i socialisti di Nenni. Affinché nessuna di queste decisioni potesse essere interpretata in senso anti-americano o come un indebolimento dell’orientamento atlantista dell’Italia, è probabile che Fanfani ritenesse opportuno ancorare fermamente il suo programma di governo a un contesto atlantico inequivocabile, dimostrando la sua buona volontà agli Stati Uniti attraverso il rapido dispiegamento dei missili. Egli era assolutamente consapevole dell’ampio appoggio, ufficiale e non, che gli Stati Uniti avevano offerto al suo partito e soprattutto alla sua corrente personale nel corso degli anni precedenti, e voleva dimostrare ai suoi alleati di meritare la fiducia che gli era stata accordata. Non solo intendeva quindi comunicare personalmente a Eisenhower la propria approvazione per il programma, ma durante i successivi negoziati per l’installazione dei missili intervenne almeno in due occasioni per accelerare i colloqui verso una conclusione positiva.5

Perché non si pensi che questo atteggiamento fosse prerogativa esclusiva dei democristiani, basti pensare alla posizione analoga del primo presidente del Consiglio socialista, Bettino Craxi, venticinque anni dopo: il ruolo di Craxi fu, infatti, cruciale in due fasi importanti del controverso dibattito sul dispiegamento in Europa dei missili Cruise e Pershing II. Craxi accordò una prima volta il suo consenso per il futuro dispiegamento NATO di un nuovo sistema di armamenti negli ultimi mesi del 1979, nel momento in cui il sostegno del Partito socialista era, di fatto, diventato indispensabile per consentire al parlamento italiano di approvare la decisione che il Consiglio atlantico prese il 12 dicembre 1979. L’approvazione italiana di tale decisione era infatti sospesa a un filo sottile, quello della scelta del partito Socialista, poiché senza i voti dei socialisti la coalizione di governo non avrebbe potuto ottenere l’approvazione parlamentare per l’installazione dei Cruise. Nonostante il partito non facesse parte della maggioranza e si astenesse di solito dal votarne le iniziative in parlamento, Craxi riuscì a ricomporre sapientemente le opposizioni interne orientando le correnti del PSI verso un voto favorevole al dispiegamento dei nuovi missili.6

Successivamente, durante la difficile estate del 1983, poco dopo essere diventato il primo presidente del Consiglio socialista, Craxi dimostrò che l’Alleanza atlantica poteva nutrire piena fiducia nei suoi confronti dichiarando nel suo primo discorso che l’Italia avrebbe tenuto fede all’impegno preso dal governo Cossiga nel dicembre 1979 e che, se i negoziati sul disarmo con l’Unione Sovietica allora in corso a Ginevra non avessero dato un esito positivo, il suo governo avrebbe proceduto al dispiegamento dei Cruise, nel frattempo diventati il punto centrale di un dibattito politico sempre più acceso tanto nelle strade quanto nei parlamenti di tutta l’Europa occidentale. Ribadendo la ferma intenzione di accettare i missili in occasione del suo primo viaggio a Washington, e dando effettivamente seguito alle promesse con i fatti di lì a breve, malgrado il crescendo di tensioni all’interno del paese, Craxi permise all’Italia di recuperare almeno parte del prestigio e dello status internazionale che aveva perso negli anni Settanta, quando il deterioramento del suo sistema politico aveva pesato negativamente sulla sua posizione internazionale. La decisione italiana di schierare i Cruise rivestì inoltre un ruolo fondamentale nella realizzazione del progetto NATO, e fece dell’Italia un vero e proprio perno del disegno atlantico, dal momento che il governo tedesco occidentale aveva più volte reso noto il suo desiderio di non essere l’unica potenza dell’Europa continentale ad accettare le nuove armi sul proprio territorio. Anche in questo caso, come nel precedente, le motivazioni principali dell’iniziativa italiana sono dunque da ricondursi soprattutto al campo della politica estera, dal momento che il progetto di procedere allo schieramento dei Cruise nacque anche come reazione allo smacco subito con l’esclusione dell’Italia dal vertice della Guadalupa in cui i principali capi di governo, nel gennaio del 1979, avevano concordato di procedere verso la modernizzazione delle forze nucleari di teatro della NATO. Craxi era comunque consapevole anche delle profonde implicazioni di natura politica interna della sua doppia iniziativa del 1979 e 1983, poiché fu attraverso di essa che egli dimostrò alla Casa bianca di essere un convinto atlantista al pari di qualsiasi democristiano, usando quindi la carta atlantica sia contro gli avversari comunisti che contro gli alleati democristiani.7 Una posizione come quella adottata nel corso di questa vicenda, infatti, offriva al PSI l’ulteriore vantaggio di isolare il PCI all’opposizione, rendendo meno probabile il possibile ritorno alla linea politica del compromesso storico che avrebbe consentito al PCI di reinserirsi all’interno della maggioranza di governo.

 

Dopo la guerra fredda: plus ça change…

Negli anni Novanta la centralità degli Stati Uniti nel dibattito politico italiano sembra essere sopravvissuta pressoché immutata alle rapide trasformazioni del sistema internazionale e della struttura politica interna italiana. L’importanza del rapporto con gli Stati Uniti resta indiscussa, e benché le sue implicazioni interne abbiano ormai una rilevanza decisamente minore che in passato, allo stesso tempo conserva un ruolo molto importante per la politica estera dell’Italia. Di nuovo, non è difficile trovare esempi che lo confermino. All’inizio del decennio, quando la Francia cominciò timidamente a promuovere il proprio progetto di una politica europea di sicurezza e difesa comune, il governo italiano affermò che, pur appoggiando l’iniziativa francese, non avrebbe rinunciato a una posizione saldamente inserita nel contesto atlantico per salvaguardare la relazione con Washington. Ciò emerse in modo chiaro nel corso del dibattito che precedette la firma del trattato di Maastricht. L’Italia fu uno dei paesi che insistettero sulla necessità che la futura Unione europea si dotasse di una propria politica estera e di sicurezza, spingendosi fino a proporre la fusione della Unione europea occidentale con la futura UE, ma chiese anche che le funzioni della nuova UEO fossero interamente compatibili con l’alleanza atlantica. Una posizione, questa, su cui in quel momento Roma si trovava in piena sintonia anche con Londra.8 L’orientamento italiano a mantenere la propria politica di sicurezza all’interno del quadro atlantico è apparso evidente anche dalla freddezza mostrata dai militari italiani nei confronti del riavvicinamento militare franco-tedesco, che mosse in quegli stessi anni i primi passi con la creazione del cosiddetto Eurocorpo.9 Questo atteggiamento non è sostanzialmente mutato nel corso del decennio, come ha confermato il sostegno fornito alla posizione americana rispetto a quella francese nel 1996-97, in occasione del dibattito relativo alla possibilità di nominare un ufficiale francese a capo delle forze alleate del sud Europa qualora la Francia fosse tornata a far parte della struttura militare integrata della NATO.

La decisione di continuare a investire sulla relazione con Washington è confermata ulteriormente dall’appoggio dato dall’Italia all’intervento della NATO nei conflitti in ex-Jugoslavia, sia quando si è trattato di applicare l’embargo (in quel caso all’Italia fu attribuito il ruolo di mediatore fra la richiesta francese di una forza esclusivamente europea e la pressione americana per riaffermare la supremazia della NATO), sia, soprattutto in seguito, durante le missioni militari.10 Nonostante una forte ondata di dissenso interno, e nonostante alcuni legami politici ed economici con il governo serbo, l’Italia si impegnò a sostenere l’intervento armato della NATO sia in Bosnia, nell’operazione Deliberate Force condotta tra l’agosto e il settembre 1995, sia nella molto più complessa e drammatica campagna aerea in Kosovo e in Serbia del marzo-giugno 1999. La politica estera non è stato tuttavia l’unico ambito in cui l’Italia ha dimostrato l’importanza delle relazioni con gli Stati Uniti, dal momento che sia il centrosinistra sia il centrodestra hanno continuato a coltivare i loro rapporti con i partiti democratico e repubblicano. Durante gli anni di Clinton, la coalizione dell’Ulivo si fece promotrice di un’iniziativa che intendeva dare vita a una rete mondiale di tutte le forze del centrosinistra, mentre più di recente il governo Berlusconi non ha certamente fatto mistero delle forti simpatie ideologiche per l’amministrazione di George W. Bush junior, rafforzate, sembrerebbe, dalla passione che accomuna i due leader per lo sport professionale e il loro comune penchant a presentarsi come uomini di successo.

Due ulteriori esempi sembrano indicare che la relazione con Washington è più forte di quanto si potrebbe pensare, e che va oltre il ruolo assunto durante la guerra fredda. Il conflitto in Serbia nella primavera del 1999 sollevò pesanti discussioni all’interno della stessa maggioranza parlamentare, che costrinsero in ultima istanza il governo a rivolgersi all’opposizione per poter avere un appoggio parlamentare sufficientemente ampio per prendere parte alla campagna aerea della NATO. La partecipazione italiana alla guerra della NATO contro il regime serbo assunse quindi quasi il valore di un test che confermasse la piena e completa affidabilità del primo governo guidato da un ex membro del partito Comunista. Come ha confermato l’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema nella sua intervista sul conflitto, Washington continuava a nutrire alcune riserve sulla sincerità dell’allineamento internazionale del governo, o almeno sulla sua capacità di rivestire un ruolo significativo durante una fase di crisi internazionale. Nei primi mesi del governo D’Alema, inoltre, tali dubbi erano stati certamente rafforzati da diverse tensioni con gli Stati Uniti, in particolare nel caso relativo al leader curdo Abdullah Ocalan. Di fronte alla decisione della NATO di ricorrere alla forza per porre fine alla crisi del Kosovo, il presidente del Consiglio italiano ritenne pertanto necessario superare la forte opposizione interna contro la partecipazione all’intervento. In primo luogo la scelta fu certamente motivata dalla sua convinzione che la partecipazione del paese alla guerra fosse necessaria e pienamente giustificata dall’odioso comportamento del regime di Belgrado verso la popolazione kosovara, ma probabilmente fu anche influenzata dalla volontà di dimostrare agli Stati Uniti la sua credibilità personale come partner legittimo e la sua piena affidabilità come membro di una sinistra moderata e filo-occidentale.11

Dopo le elezioni del 2001, il nuovo governo Berlusconi sembra avere ridimensionato il tradizionale sostegno italiano all’integrazione europea e sembra aver scelto invece un tipo di diplomazia che enfatizza l’importanza di strette relazioni personali con i leader di alcuni paesi chiave, in particolare Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna e Spagna. Il fatto che alcuni leader europei, tedeschi e francesi in particolare, abbiano preferito altre frequentazioni rispetto a quella del presidente del Consiglio italiano, a quanto pare percepito come un parvenu sul proscenio della politica europea, potrebbe avere ulteriormente giocato a favore dell’orientamento atlantista piuttosto che europeo della politica estera del nuovo governo. Tuttavia la crescente inclinazione verso gli Stati Uniti fa chiaramente parte di un disegno a più ampio raggio che mira a promuovere l’immagine del presidente del Consiglio sul piano interno e internazionale. E contemporaneamente questa diplomazia personale intende dare all’Italia un alto profilo internazionale, pur non aderendo agli sforzi di Parigi e Berlino per rilanciare il loro dialogo europeo e intensificare la loro cooperazione.12 Un esempio di questa strategia viene dalla prontezza dimostrata dal governo italiano non solo ad allinearsi praticamente con ogni iniziativa intrapresa dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, ma anche prima di allora. Già nel marzo 2001, quando la nuova amministrazione americana dichiarò l’intenzione di accelerare la creazione di un sistema antimissile, l’Italia fu uno dei paesi europei che si dimostrarono interessati a cooperare al progetto a prescindere dalle implicazioni potenzialmente dirompenti che le difese antimissile avrebbero potuto avere sul regime internazionale di controllo degli armamenti. In seguito, il governo Berlusconi si è impegnato con convinzione per dimostrare che l’Italia era pronta a partecipare alla guerra al terrorismo del dopo-11 settembre, e truppe italiane sono già impegnate in Afghanistan in una delle missioni più pericolose dalla fine della seconda guerra mondiale. Infine, durante la drammatica escalation della crisi irachena, il governo italiano ha dimostrato di essere più incline di molti altri Stati europei nel sostenere l’amministrazione di Bush junior nella sua azione contro il regime di Baghdad.

La diplomazia italiana, tuttavia, ha sempre lavorato intensamente per smussare i contrasti fra le due dimensioni – europea e atlantica – della propria politica estera, e nel caso della convulsa trattativa che ha preceduto l’inizio del conflitto ha mostrato una netta preferenza per la possibilità che un’eventuale iniziativa americana contro l’Iraq avvenisse con la legittimazione dell’ONU. Le grandi manifestazioni contro la guerra che hanno affollato le piazze italiane nei giorni precedenti l’inizio del conflitto, così come i malcelati dubbi all’interno della sua coalizione sulla bontà dell’iniziativa dell’amministrazione Bush, sembrerebbero inoltre avere avuto qualche conseguenza sul pensiero politico del presidente del Consiglio, determinando un graduale ammorbidimento della precedente politica filo-americana. Contemporaneamente, tuttavia, è emerso un evidente disagio rispetto al rafforzamento di un asse Parigi-Bonn che ha poco a che fare con la vera integrazione europea e molto invece con le tradizionali politiche di potenza; il bon mot che è iniziato a circolare all’interno della diplomazia italiana dopo la dichiarazione congiunta di Chirac-Schroeder la definiva un esempio di «unilateralismo franco-tedesco», rimandando ai due partner europei l’accusa di non consultarsi con gli alleati, tradizionalmente indirizzata all’amministrazione Bush.13 Il governo Berlusconi sembra pertanto orientato a mantenere tutto sommato una linea di cauto sostegno per gli Stati Uniti anche se la distanza tra Parigi e Washington dovesse aumentare: poiché una frattura permanente nella struttura euro-atlantica finirebbe però per ostacolare seriamente la capacità di manovra dell’Italia, limitando i possibili benefici che l’allineamento con l’America potrebbe altrimenti portare,14 è abbastanza probabile che da parte italiana si operi per cercare di ricucire lo strappo tra l’amministrazione Bush e il tandem franco-tedesco.

In conclusione, quando si analizzano i rapporti tra l’Italia e gli Stati Uniti, sembra opportuno non lasciarsi fuorviare dai tentativi un po’ goffi di alcuni politici italiani di modellare le proprie strategie e i propri atteggiamenti personali sulla base dell’ultima moda di oltre atlantico. Gesti teatrali a parte, questi sforzi rivelano un’inclinazione strutturale a guardare a Washington con la stessa intensità con cui le forze politiche italiane guardano al Mediterraneo e all’Europa, e dimostrano che per il futuro prossimo è probabile che il padrone più ricco e lontano continui a svolgere un ruolo importante per la politica estera italiana15.

 

 

 

 

Bibliografia

1 Cfr. lettera dell’ambasciatore R. Ducci al ministro degli Esteri A. Piccioni, 4 febbraio 1963, in Archivio Centrale dello Stato (ACS), Archivio La Malfa, b. 75, f., La grossa questione dell’Inghilterra.

2 Per le relazioni fra Stati Uniti e Italia nei primi anni del secondo dopoguerra cfr. A. Tarchiani, Dieci anni tra Roma e Washington, Mondadori, Milano 1955; D. Ellwood, L’alleato nemico, Feltrinelli, Milano 1975; E. Di Nolfo, The United States and Italian Communism: World War II to the Cold War, in «Journal Of Italian History», 1/1978, pp.74-94; Di Nolfo, Vaticano e Stati Uniti. Dalle carte di Myron Taylor 1939-1952, F. Angeli, Milano 1978; Di Nolfo, Stati Uniti e Italia tra la Seconda guerra mondiale e il sorgere della guerra fredda, in AA.VV., Atti del I congresso Internazionale di Storia americana, Genova, 1978; M. Fini e R. Faenza, Gli americani in Italia, Feltrinelli, Milano 1979; M. Margiocco, Stati Uniti e PCI, 1943-1980, Laterza, Bari 1981; L.J. Wollemborg, Stelle, strisce e tricolore. Trent’anni di vicende politiche tra Roma e Washington, Mondadori, Milano 1983; J.E. Miller, The United States and Italy, 1940-1950. The Politics and Diplomacy of Stabilization, North Carolina University Press, Chapel Hill 1984; E. Ortona, Anni d’America, Il Mulino, Bologna 1984; Ortona, La ricostruzione 1944-1951, Il Mulino, Bologna 1984; J.L. Harper, L’America e la ricostruzione dell’Italia, 1945-1948, Il Mulino, Bologna 1987; M. Ledeen, Lo Zio Sam e l’elefante rosso, Sugarco, Milano 1987; N. Perrone, De Gasperi e l’America: un dominio pieno e incontrollato, Sellerio editore, Palermo 1995; R. Gatti, Rimanga tra noi, Leonardo, Milano, 1990; S. Romano, Lo scambio ineguale. Italia e Stati Uniti da Wilson a Clinton, Laterza, Bari 1995; E. Caretto e B. Marolo, Made in USA: le origini americane della repubblica italiana, Rizzoli, Milano 1996.

3 F. Ninkovich, The United States, NATO, and the Lessons of History, in D.J. Kotlowski (a cura di), The European Union. From Jean Monnet to the Euro, Ohio U. Press, Athens 2000.

4 Il fallimento del vago tentativo effettuato tra il 1957 e il 1958 di concertare un’opzione nucleare europea sembra costituire la riprova dell’importanza dell’opzione atlantica basata sul rapporto con gli Stati Uniti: la ricostruzione più completa dell’episodio in G.H. Soutou, L’alliance incertaine. Les rapports politico-strategiques franco-allemands, 1954-1996, Fayard, Paris 1996. Cfr. Inoltre gli articoli di C. Barbier, E. Conze e L. Nuti in «Revue d’Histoire Diplomatique», 104, 1990; P. Fischer, Das Project einer trilateralen Kooperation, in «Historisches Jahrbuch», 112, 1992; Fisher, Zwischen Abschreckung und Verteidigung, in K. Maier e N. Wiggershaus (a cura di), Das Nordatlantische Bündnis, 1949-1956, Militärgeschichtliches Forschungsamt, Friburgo 1993.

5 L. Nuti, Dall’operazione Deep Rock all’operazione Pot Pie: una storia documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia, in «Storia delle Relazioni Internazionali», 11-12/1996-1997 e 2/1996-1997, pp. 95-138 e 105-149.

6 L. Lagorio, L’ultima sfida. Gli euromissili, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1998.

7 Nuti, Italy and the Battle of the Euromissiles, in O. Njolstad (a cura di), The Cold War in the 1980s, Frank Cass Publishers, London, in corso di pubblicazione. Si potrebbe affermare che in seguito Craxi adottò un atteggiamento piuttosto anti-americano ai tempi della questione della «Achille Lauro», la cosiddetta crisi di Sigonella. Quell’episodio, tuttavia, ebbe luogo tre anni dopo il dispiegamento dei Cruise, e la sua importanza deve probabilmente essere considerata nel contesto generale determinato dalla presenza dei Cruise sul suolo italiano: il suo impatto sulle relazioni Italia-Stati Uniti, in altre parole, sarebbe state molto peggiore se Craxi non avesse prima dimostrato la volontà di cooperare strettamente con Washington. Sull’episodio cfr. in particolare A. Silj, (a cura di), L’alleato scomodo. I rapporti tra Roma e Washington nel Mediterraneo: Sigonella e Gheddafi, Corbaccio, Milano 1998.

8 Si veda il comunicato congiunto italo-britannico del 4 ottobre 1991. Per la posizione italiana in quel momento cfr. R. Aliboni, Il dibattito sulla politica europea di sicurezza e difesa, in Istituto Affari Internazionali, L’Italia nella politica internazionale, 1993, SIPI, Roma 1993, pp. 142-154.

9 C. Jean, La nostra sicurezza nel mondo balcanizzato, in «Limes», 4/1994, pp. 201-212; M. Cremasco, L’Italia e la sicurezza internazionale, in IAI¸ L’Italia nella politica internazionale, SIPI, Roma, 1994, pp. 63-79.

10 E. Greco, Italy, the Yugoslav Crisis and the Osimo agreements, in «The International Spectator», 29, 1992, pp. 60-71.

11 M. D’Alema, Kosovo. Gli italiani e la guerra, Mondadori, Milano 1999; si veda anche L. Dini, Tra Casa Bianca e Botteghe Oscure. Fatti e retroscena di una stagione alla Farnesina, Guerini e associati, Milano 2001.

12 Questo orientamento non dovrebbe tuttavia essere costruito come una strategia univoca, ma semplicemente come uno spostamento di accenti, come è dimostrato dal continuo interesse dimostrato dalle forze armate italiane nella predisposizione della forza europea di intervento rapido e nel più ampio processo di costruzione dei una politica estera e di difesa comune.

13 Per un esempio di serio criticismo francese delle ultime iniziative di Chirac e Schroeder, si veda P. Hasner, Guerre: qui fait le jeu de qui?, in «Le Monde 2», 27 marzo 2003, pp. 62-64.

14 G. Sacco, Tra Europa e mare aperto: Un’agenda per il nostro governo, in «Limes», 5/2002, pp. 75-86.

15 Una versione in lingua inglese di questo testo è pubblicata sul numero 1/2003 di «The International Spectator», rivista dell’Istituto Affari Internazionali.