Il calcio in un paese solo non basta più

Di Giorgio Tosatti Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

Vi siete mai soffermati a pensare quali siano le reali differenze tra gli sport individuali e quelli di squadra? I primi nascono come sfide fra guerrieri ed hanno obiettivi quasi ascetici: superare gli avversari ma – soprattutto – superare i propri limiti e quelli umani. In una continua, spasmodica ricerca di miglioramento. Tendendo subito a valori assoluti, non a piccole glorie locali. I più bravi nella corsa, nel salto, nei lanci, nella lotta si misurano ad Olimpia sotto gli occhi degli dei. I vincitori saranno trattati quasi come divinità.

 

Vi siete mai soffermati a pensare quali siano le reali differenze tra gli sport individuali e quelli di squadra? I primi nascono come sfide fra guerrieri ed hanno obiettivi quasi ascetici: superare gli avversari ma – soprattutto – superare i propri limiti e quelli umani. In una continua, spasmodica ricerca di miglioramento. Tendendo subito a valori assoluti, non a piccole glorie locali. I più bravi nella corsa, nel salto, nei lanci, nella lotta si misurano ad Olimpia sotto gli occhi degli dei. I vincitori saranno trattati quasi come divinità. Il pubblico stesso partecipa al rito con forti connotati guerreschi e religiosi: infatti, le donne ne sono escluse. A queste discipline se ne aggiungeranno, nel tempo, altre della stessa natura (il nuoto per esempio); sempre improntate al desiderio di spostare più avanti, generazione dopo generazione, i limiti naturali. Un’ansia da record presente anche negli sport con cui l’uomo cerca, attraverso un mezzo, di aumentare la propria velocità sulla terra (cavalli, bici, auto, moto, pattini, ecc.), in acqua e nell’aria. Sport duri, faticosi, in cui la prestazione fa aggio su tutto. Il rapporto col pubblico è importante ma non essenziale, anche finanziariamente. Nel ciclismo e in altre discipline, il pubblico, assiste, infatti, gratis alle gare; l’atletica leggera dopo decenni di miseria trova, grazie a TV e sponsor, una certa agiatezza ma non mobilita certo le masse come il pugilato di un tempo, la formula uno o i campionati di motociclismo. Più popolari gli sport individuali nati come divertimenti borghesi, specie il tennis. Insomma gli sport individuali nascono per selezionare campioni e mezzi di trasporto, non per far divertire il pubblico. Non sono provinciali ed hanno un carattere abbastanza ecumenico: il fuoriclasse appartiene a tutti, dovunque sia nato. Rari i casi di nazionalismo esasperato, rarissimi gli episodi di tifo violento. Contano solo gli allori internazionali: olimpiadi, campionati mondiali e continentali, coppe del mondo. Quasi deserti i campionati nazionali. I protagonisti di queste discipline sono esseri eccezionalmente dotati, ben oltre della media.

Calcio, rugby, pallacanestro, pallavolo, pallanuoto, hockey, football americano, baseball, ecc. nascono – invece – come giochi. Un passatempo fra studenti o borghesi con un po’ di ore libere. Inizialmente alla portata di tutti, anche di chi non ha né il fisico, né le attitudini per misurarsi con gli sport veri. Un modo per giocare insieme in tanti, divertirsi, tenersi in forma, socializzare. Senza sentirsi esclusi perché grassocci, bassi, esili, sfiatati. Col tempo questi giochi fanno proseliti, i piccoli gruppi di pionieri si allargano, i club non rappresentano più un clan di emigranti inglesi o una scuola o una polisportiva. Diventano la bandiera di una città, mobilitano migliaia e migliaia di persone, si misurano con i club di altre città, cominciano a selezionare i giocatori per essere più competitivi. I soci fondatori perdono il diritto ad andare in campo, si cercano i migliori dilettanti in circolazione, poi si comincia a pagarli di nascosto. Quindi si arriva al professionismo, si esce dai confini cittadini e regionali, s’importano gli atleti dall’estero ecc. Col tempo il gioco diventa sempre più uno sport. A livello amatoriale possono farlo tutti, ma a livello professionale la selezione diventa durissima come nelle discipline individuali. Niente basket e pallavolo se non hai una certa altezza, niente rugby se non hai particolari doti fisiche, niente calcio se alla bravura nel colpire la palla non accompagni qualità atletiche che ti consentano di conquistarla e tenere ritmi vorticosi.

Il calcio, come gli altri giochi di squadra, passa da divertimento di gruppo a spettacolo di massa. Vive per pubblico e tifosi; da loro (oltre che dal padrone-mecenate) ottiene, attraverso abbonamenti e biglietti, le risorse per mantenere e rafforzare le squadre. In tutti i paesi dove si sviluppa scalza abbastanza rapidamente gli altri sport, si nutre della rivalità fra una località e l’altra, fra città, fra strati sociali e culture, fra stili di comportamento e di gioco. Diventa un fenomeno di costume, un appuntamento nazionale così radicato da scandire tempi e abitudini della vita collettiva. Pur consentendo un’ampia emigrazione di giocatori da un paese all’altro, vive soprattutto come attività interna a ciascuna nazione: il campionato locale resta il meglio del suo sviluppo organizzativo.

I mondiali arrivano solo nel 1930 in un’ottica prettamente dilettantistica; solo dagli anni Ottanta in poi saranno veramente rappresentativi dell’intero pianeta. La cadenza quadriennale è punitiva per molti campioni e per l’immensa platea degli appassionati. Il campionato europeo nasce nel 1960, quello africano nel 1957, quello asiatico nel 1956, quello arabo nel 1963, quello nordamericano nel 1991. Tutti molto tempo dopo quello sudamericano (1916). Anche le competizioni per club decollano veramente dopo il secondo dopoguerra: la coppa campioni nasce nel 1955 come la coppa delle fiere (poi diventerà coppa UEFA), la coppa libertadores (sudamerica) nel 1960, la coppa campioni d’Africa nel 1965, la coppa campioni d’Asia nel 1967, la coppa campioni CONCACAF (centro e nordamerica) nel 1962, la coppa campioni araba nel 1981, la coppa intercontinentale nel 1960.

Nel giro di non molti anni il calcio cambia radicalmente. Il club sportivo finanziato da soci benemeriti diventa una società (talvolta quotata in borsa) con fine di lucro in cui costi e guadagni sono enormemente cresciuti. Il giocatore che prima era una proprietà del club, ora può andare ovunque, mettendosi all’asta fra chi se ne vuole assicurare le prestazioni. La TV aumenta sia il numero degli appassionati sia la clientela del calcio, trasmettendo le partite criptate in diretta. È ormai la maggiore fonte d’introiti per i club. Grazie ai diritti televisivi cresce la competitività in Europa, dove il mercato dei calciatori non è più in mano ad Italia e Spagna. L’Inghilterra ed in misura minore la Germania, diventano paesi importatori. Molto più competitiva anche la Francia, grazie soprattutto all’ottimo lavoro svolto sui vivai e sulla qualità del gioco. I club europei sono il polmone finanziario dell’intero movimento: razziano i migliori talenti del pianeta. Qualunque aspirante campione sogna di giocare nel vecchio continente.

Nell’ansia di primeggiare, i club si contendono le «stelle» del pallone a cifre sempre più alte: sia come prezzo di trasferimento sia come ingaggio. Vincere gli scudetti e, soprattutto, imporsi nelle coppe europee significa aumentare le entrate. L’economia mondiale, negli anni di Clinton, vola e volano anche i diritti televisivi del calcio, nonché le sponsorizzazioni. Presi dall’euforia molti dirigenti investono su un campione quanto incassano dalla TV: tanto si potrà sempre rivenderlo a prezzo maggiorato. Non è forse vero che in pochi anni i 30 miliardi di lire pagati dall’Inter per Ronaldo sono diventati irrisori rispetto ai 90 per Vieri, i 130 per Figo, i 145 per Zidane? Naturalmente ci sono paesi e club assai più accorti dove l’improvvisa ricchezza piovuta sul calcio non viene regalata a tecnici, atleti, procuratori o sensali, ma utilizzata per costruire o rammodernare gli stadi, creare centri sportivi e commerciali, arricchire il club con strutture in grado di produrre reddito.

La crisi mondiale dell’economia mette in forte difficoltà il settore. Crollano gli investimenti sulla pubblicità e sulle sponsorizzazioni, le aziende televisive vedono sfumare una grossa parte delle loro entrate. Non sono in grado di rispettare gli impegni presi col calcio; alcune emittenti in diversi paesi europei falliscono o vengono cedute. Tutte debbono ridimensionarsi. Così il calcio si trova davanti a contratti non rispettati (come in Germania e in Inghilterra), ridiscussi su basi decisamente inferiori, nonché accordi rinnovati al ribasso. Un disastro per chi ha firmato impegni con i calciatori per più anni nel periodo delle vacche grasse. Ora deve onorarli ma non ha le risorse per farlo. Tanto più che pur essendoci paesi dove la situazione è meno drammatica rispetto, per esempio, all’Italia la crisi è generale. Così non se ne può uscire neppure vendendo i calciatori più bravi, perché le loro quotazioni sono crollate. Non c’è liquidità. Chi un anno fa valeva cento miliardi di lire ora può ottenere un terzo di quel prezzo, sempre se interessa ai non molti club con i bilanci in attivo. Come accade a tutte le attività sviluppatesi in modo caotico e sull’onda di una tendenza in continua e fortissima ascesa, il calcio paga la sua imprevidenza e una crisi economica aggravata da eventi e scenari non prevedibili. Ci saranno fallimenti di svariati club europei, ci saranno due o tre anni di forti tensioni e feroci scontri d’interesse. Ma il settore ne uscirà, recuperando un logico rapporto fra spese e ricavi, riducendo di molto i compensi ai giocatori (più problematico ottenere un taglio ai contratti in essere), dando più spazio ai giovani, ponendo dei vincoli severi per chi non rispetta gli impegni amministrativi. Tutto sommato la crisi risulterà utile. Tanto più che il prodotto-calcio è ancora graditissimo dal pubblico, anzi sta facendo sempre nuovi adepti: fra le donne ed in molti paesi finora calcisticamente marginali.

I dirigenti internazionali del settore e i rappresentanti dei club più importanti non sono, però, capaci di organizzarlo in modo da sfruttarne tutte le possibilità. Già la confusione dei calendari, l’eccessivo numero di partite, il sovrapporsi dell’attività di club e nazionali, il logoramento dei campioni costretti a disputare oltre settanta gare l’anno, l’eccesso di presenza televisiva anche per incontri di scarsissimo interesse, testimoniano di questa pessima gestione. Sottolineata, peraltro, in negativo dagli ultimi mondiali, cominciati una ventina di giorni dopo la conclusione dei principali campionati europei; con l’ovvia conseguenza di ridurre la competitività delle nazionali più forti, perché i loro giocatori non avevano avuto il tempo di recuperare energie e freschezza.

Eppure la situazione è abbastanza chiara. In tutti i paesi europei esistono differenze di valori più accentuate che in passato fra grandi e piccoli club. Quelli coinvolti ogni anno nella champions league hanno fatturati, organici, risorse, qualità infinitamente superiori a quelli il cui unico orizzonte è il campionato nazionale. Gli scudetti sono il monopolio di questa aristocrazia; in alcuni paesi finiscono invariabilmente ad una, massimo due o tre squadre. La champions league ha ucciso le altre coppe europee. La coppa coppe venne chiusa dopo la vittoria della Lazio. La coppa UEFA ha scarso appeal ed ancora più scarso valore televisivo, a differenza di quando opponeva il meglio di ogni paese, fatta eccezione per le scudettate. La stessa champions league ha perso fascino, tanto da spingere l’UEFA a rivederne la formula, cancellando il secondo girone eliminatorio, incrementando i confronti ad eliminazione diretta, riducendo il numero delle partite.

Ma in tutto questo manca una linea di logica ed il coraggio di adeguarsi alla nuova realtà europea. Da una parte si chiede ai club di attrezzarsi per vincere la champions league (aumentando investimenti ed organici), dall’altra si riduce il numero di gare e quindi le possibili entrate. Probabilmente caleranno di parecchio anche gli introiti televisivi, perché molte emittenti considerano troppo onerosi i diritti della champions league. Ha senso tutto questo? È logico che l’unica novità della programmazione sia un ritorno al passato, per quanto insoddisfacente sia la formula attuale della coppa? È logico che i campionati nazionali vedano aumentare il distacco fra grandi e piccoli, che vincano sempre le stesse squadre, che organici costati cifre enormi debbano recitare su palcoscenici di provincia davanti a poche migliaia di spettatori?

Possibile che quindici paesi europei si siano fusi in uno solo, abbiano tutto in comune tranne dei campionati sportivi? Non sarebbe indispensabile mandare in soffitta la champions league (sostituendola magari con una sola coppa ad eliminazione diretta) e rimpiazzarla con un campionato europeo di serie A e di serie B da far gestire all’UEFA? Destinandogli il mercoledì, mentre il sabato e la domenica sarebbero riservati ai campionati nazionali. Magari dividendo il campionato europeo in due gironi (tenendo conto anche dei problemi climatici) per ridurre il numero delle partite, prevedendo play-off per il titolo e play-out per le retrocessioni. Prevedendo un meccanismo rispettoso dei titoli ed un flusso fra campionati nazionali ed europei. Facendo partecipare i club ad entrambi. Dovrebbero aumentare un po’ gli organici ma ne varrebbe la pena: un prodotto-calcio in cui si misurino i migliori club europei diventerebbe televisivamente formidabile, sarebbe seguito in tutto il mondo, otterrebbe alti diritti televisivi, stuzzicherebbe pubblicità e sponsor. Credo sia arrivato, anche per gli sport di squadra, il momento di diventare ecumenici come gli sport individuali, di privilegiare il confronto internazionale rispetto a quello localistico pur rispettandone attrattive e valori, di opporre realtà omogenee in modo stabile e non occasionale, di dare ai campioni ribalte adeguate, di sprigionare nuovi entusiasmi. Sul piano politico, culturale e sociale, considero piuttosto bizzarro che i paesi comunitari non sentano l’obbligo di fare sport insieme.