Governare il mercato globale si può. Il ruolo delle istituzioni finanziarie

Di Maria Grazia Reitano Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

È da tempo un risultato acquisito che nessuna delle due forme estreme di organizzazione dell’economia, la pianificazione centralizzata e il mercato privo di regole, funzionano. La sfida per la politica economica, soprattutto per la politica economica riformista, è allora quella di scegliere forme e istituzioni di governo dell’economia e del mercato appropriate. Governare la globalizzazione non è che l’ultima in termini di tempo, ma probabilmente la più complessa «incarnazione» di questa sfida.

 

È da tempo un risultato acquisito che nessuna delle due forme estreme di organizzazione dell’economia, la pianificazione centralizzata e il mercato privo di regole, funzionano. La sfida per la politica economica, soprattutto per la politica economica riformista, è allora quella di scegliere forme e istituzioni di governo dell’economia e del mercato appropriate. Governare la globalizzazione non è che l’ultima in termini di tempo, ma probabilmente la più complessa «incarnazione» di questa sfida. Si tratta, infatti, di governare un mercato che ha raggiunto l’estensione e la profondità più elevate, e di farlo in assenza di un governo sovranazionale. E per vincere questa sfida è necessario il massimo, e il meglio, della politica.

Il mercato globale è in realtà l’interconnessione, l’integrazione, di più mercati, delle merci, dei capitali, della finanza, del lavoro, della tecnologia. Abbondante evidenza empirica mostra che l’integrazione produce più crescita e che la crescita è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per combattere la povertà. Ma l’espansione dei mercati, sopratutto se mal regolata, provoca squilibri, disuguaglianze e crisi. E le crisi accentuano le disuguaglianze e la povertà perché abbassano la crescita e si scaricano sui più deboli. Per esempio, uno dei problemi più gravi di molti paesi emergenti, di cui solo ora ci si comincia a rendere conto, è che questi hanno perseguito molta liberalizzazione finanziaria per accrescere l’accesso ai mercati internazionali, ma poca liberalizzazione commerciale, con la conseguenza che le loro esportazioni crescono troppo poco per servire il debito e quindi il paese è esposto a un forte rischio di insolvenza. Se il commercio è limitato e i capitali non possono muoversi liberamente, o non si dirigono verso un paese povero, questo rimane tagliato fuori dalla possibilità di importare tecnologia, senza la quale la crescita rimane frenata. Ma per approfittare in pieno dei benefici della tecnologia ci vuole un adeguato livello di istruzione, e non solo di una piccola parte della popolazione. Se la distribuzione delle risorse favorisce le élite, tutto il paese crescerà di meno e la povertà non diminuirà. A parità di distribuzione delle risorse conta poi l’ammontare a disposizione di un governo, che diminuisce se la finanza pubblica è fuori controllo e l’onere del debito è elevato o, come spesso accade, crescente.

Si tratta solo di alcuni, semplici, esempi. Se ne potrebbero fare molti altri ma la lezione da trarre dalle vicende dell’ultimo decennio è una. Per massimizzare i benefici dell’integrazione globale dei mercati ci vogliono regole, per il commercio, per la finanza, per la determinazione delle scelte delle imprese, per l’investimento in capitale umano, per la finanza pubblica. E, naturalmente, le regole non devono solo essere scritte e votate dal parlamento, devono essere applicate, devono «informare» il comportamento. Un altro risultato empirico acquisito, infatti, è che laddove le istituzioni sono forti (perché ben disegnate e ben funzionanti) la crescita è più elevata e la povertà è più contenuta. E le regole devono essere disegnate e applicate nei singoli paesi come nel sistema internazionale nel suo complesso.

 

Istituzioni, domestiche e globali

La costruzione e la gestione delle istituzioni e delle regole domestiche è compito di ciascuno Stato, nel pieno della sua sovranità. Le istituzioni di governo dell’economia globale devono invece essere costruite e gestite dalla cooperazione tra governi nazionali. La complessità dei mercati internazionali richiede una divisione dei compiti e quindi più istituzioni specializzate. Infatti, a partire dal dopoguerra, abbiamo visto la nascita della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale, del GATT (poi WTO), dell’ILO (Organizzazione internazionale del lavoro) tanto per citare le principali. Le prime due costituiscono, assieme alle banche regionali di sviluppo, le IFI (Istituzioni finanziarie internazionali) e il loro compito, definito a Bretton Woods, consiste rispettivamente nel finanziare lo sviluppo dei paesi poveri (la Banca) e nel garantire la stabilità finanziaria internazionale (il Fondo).

Come hanno svolto il compito loro affidato queste due istituzioni? Male, se si deve dare credito alla vera valanga di critiche che le due IFI, ma il Fondo in particolare, hanno ricevuto negli ultimi tempi, tanto dai movimenti no global, che da illustri economisti che nel proprio curriculum vitae vantano, come minimo, un premio Nobel. In effetti, a sentire i critici sembra che tutti, ma proprio tutti, i mali della globalizzazione siano da imputarsi alle IFI (ma, ripetiamo, sopratutto al Fondo). È possibile che sia cosi? Se lo fosse ci troveremmo di fronte a una situazione eccezionale e paradossale allo stesso tempo. Eccezionale perché segnalerebbe che in una sola istituzione, il Fondo, è concentrato praticamente tutto (o quasi) il potere di governo dell’economia globale. Paradossale perché la soluzione di tutti i mali sarebbe semplice: chiudere il Fondo. Evidentemente non è proprio così. Dire, con ragione, che il Fondo, le IFI, le istituzioni internazionali hanno commesso, e commettono, errori nel prescrivere e attuare politiche economiche è vero, ma non ci porta molto lontano. È più utile chiarire quali siano gli errori commessi, e cercare soluzioni efficaci. Solo allora sarà possibile esprimere un giudizio sulle istituzioni che sia utile per la politica. Il problema, infatti, non è solo quello di sapere se e dove le istituzioni sbagliano ma, soprattutto, sapere se, e come, reagiscono agli errori.

 

Le colpe del Fondo

Il Fondo, sopratutto dopo la crisi asiatica della seconda metà degli anni Novanta, è stato accusato di compiere tre errori gravi nella conduzione delle sue politiche (cioè nelle condizioni associate ai programmi di finanziamento dei paesi in crisi): perseguire (o imporre) politiche eccessivamente restrittive, che hanno finito per aggravare la situazione dei paesi in crisi; favorire (di fatto) i creditori dei paesi in crisi, le banche e i detentori di titoli; ignorare gli elevati costi sociali delle politiche di aggiustamento. Vediamo questi punti più in dettaglio.

Perché imporre politiche (fiscali o monetarie) restrittive a un paese in crisi? Per capirne la ragione bisogna aggiungere che i paesi in crisi sono, nella gran parte dei casi, paesi con elevato debito, interno ed estero, e la crisi si manifesta appunto come insolvenza sul debito. Un paese fortemente indebitato (e che è diventato tale per scelta propria, non del Fondo) deve ridurre il ritmo a cui il suo debito cresce (in rapporto al reddito) perché altrimenti si innesca un circolo vizioso che, a partire dalla crescita elevata del debito provoca una crescita del tasso di interesse (a causa del rischio crescente) e/o una svalutazione della moneta, che aumenta il valore del debito se questi è in valuta estera. Ne segue una crescita dell’onere del servizio del debito il cui stock aumenta a velocità crescente. Si tratta di un meccanismo che noi italiani conosciamo bene. È quello che si era innescato tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, che portò alla crisi finanziaria del ‘92 e che fu prima interrotto e poi invertito con il processo di ingresso nell’euro, reso possibile proprio grazie a politiche fiscali restrittive, ma che portavano come beneficio la discesa dei tassi di interesse in quanto i mercati riconoscevano l’efficacia dello sforzo di aggiustamento, che così si autoalimentava. In sintesi, lo scopo delle politiche restrittive è di trasformare un circolo vizioso in un circolo virtuoso, attraverso un cambio di direzione nella politica economica. L’evidenza empirica ci dice che, in alcuni casi ma non in tutti, la restrizione fiscale ha, nel breve periodo, un effetto negativo sulla crescita, ma se il circolo virtuoso si innesca gli effetti positivi, via tassi di interesse più bassi e aspettative più positive, sono tali da più che compensare gli effetti negativi. Tre esempi, il Cile e il Messico in America Latina, e la tanto osannata Irlanda in Europa, che prima di ottenere tassi di crescita «irlandesi» ha messo in atto negli anni Ottanta un feroce aggiustamento fiscale.

La seconda critica è che, alla fine del processo di aggiustamento, i soldi che il Fondo ha versato per finanziare il paese finiscono nelle tasche dei creditori invece che del governo (che comunque deve, come puntualmente avviene, restituire i soldi al Fondo una volta terminato il programma). È difficile verificare con una qualche precisione questa affermazione, ma un problema del genere esiste. Spesso i costi dell’aggiustamento si sono riversati in modo quasi esclusivo sul paese debitore, colpevole di essersi troppo indebitato, e assai poco sui creditori, che sono almeno altrettanto colpevoli di aver prestato «allegramente» e spesso sulla base di ondate di euforia a paesi (o meglio governi) che poi si sono rivelati inaffidabili. Su questo aspetto di asimmetria di trattamento il ripensamento è in corso, come si dirà più oltre.

Infine, forse la critica più rilevante e che più di altre ha contribuito a rendere «odiosa» l’immagine del Fondo. I costi dei suoi programmi si scaricano sopratutto sui più deboli e i più poveri nei paesi poveri. È vero che i programmi di aggiustamento finanziati dal Fondo implicano tagli di spesa pubblica. Questo è inevitabile per le ragioni esposte in precedenza. Ma è anche vero, (ma puntualmente ignorato, malgrado sia esposto a chiare lettere nei documenti che descrivono tali programmi e che, a meno che il paese in questione non lo permetta, sono disponibili sul sito del Fondo) che le spese sociali e di protezione dei più poveri sono escluse dai tagli richiesti. Anzi l’indicazione del Fondo è spesso quella di aumentarle. Questa critica, inoltre, ignora che, da qualche anno il Fondo, assieme alla Banca Mondiale utilizza una speciale Facility, la Poverty Reduction and Growth Facility (PRGF), destinata ai paesi poveri che non hanno accesso ai mercati finanziari, e il cui obiettivo è di attivare un processo di crescita sostenibile e stabile come condizione di base per la lotta alla povertà. Va aggiunto che i programmi PRGF sono accompagnati da un processo di elaborazione, centrato sul Poverty Reduction Strategy Paper (PRSP), che prevede un ampio ed esteso coinvolgimento del governo e della società civile, comprese le ONG, nel paese interessato, volto alla definizione della priorità del programma PRGF.

 

Tutto bene dunque?

Non direi. Le crisi finanziarie degli anni Novanta, a partire da quella dal Messico, per passare all’Asia, la Russia, il Brasile e la Turchia, hanno messo in luce gravi errori nella gestione macroeconomica delle economie dei paesi ad alto debito, anche per consigli del Fondo, come quelli relativi alla difesa «testarda» (come si sarebbe capito troppo tardi) dei cambi fissi, alla eccessiva rapidità dei processi di liberalizzazione del conto capitale, alla (ignorata) fragilità della esposizione di bilancio delle banche e delle istituzioni finanziarie in molti paesi emergenti. Più in generale gli eventi della seconda metà degli anni Novanta hanno messo in luce che il sistema internazionale era profondamente cambiato, entrando in un’era di elevata integrazione finanziaria, in cui la dimensione e la velocità di spostamento dei capitali era diventata tanto cospicua da rendere la ampiezza delle crisi molto più elevata che in passato (almeno nel periodo del dopoguerra). Insomma, ci si è resi conto che la globalizzazione aveva prodotto un mondo molto diverso da quello di Bretton Woods, dove i problemi per i pagamenti internazionali nascevano, soprattutto o esclusivamente, da squilibri di conto corrente, tra esportazioni e importazioni, e i mercati finanziari internazionali, come li conosciamo oggi, semplicemente non esistevano.

 

La riforma delle IFI

Se il mondo di Bretton Woods è cambiato devono cambiare anche le istituzioni pensate per governarlo. Il processo di riforma delle IFI, e in generale della «architettura finanziaria internazionale» ha conosciuto un momento di accelerazione alla assemblea annuale di Banca e Fondo a Praga del 2000, che è diventata famosa anche per la eccezionale violenza degli scontri tra no global e forze dell’ordine. Questo processo, che è tuttora in corso, si incentra sulla definizione di un nuovo approccio alla prevenzione e alla risoluzione delle crisi.

L’idea portante della prevenzione della crisi è quella che si richiamava in apertura. Il mercato, i mercati hanno bisogno di regole e di istituzioni per funzionare meglio, cioè produrre più ricchezza e meno crisi. E alcune di queste regole sono ora parte integrante delle raccomandazioni che le IFI (ma anche l’OCSE e la Commissione Europea) rivolgono ai paesi nella loro azione di sorveglianza. Questo significa, per esempio, regole più rigorose nel garantire la sostenibilità della finanza pubblica. Maggiore attenzione e prudenza nelle politiche di indebitamento e una più ampia liberalizzazione commerciale, per evitare squilibri come quelli che affliggono sopratutto i paesi dell’America Latina. Significa maggiore trasparenza nelle scelte degli intermediari finanziari e nella governance di impresa (un problema, come sappiamo dopo Enron, non solo dei paesi emergenti). Significa, anche, lotta al riciclaggio del denaro sporco e al finanziamento del terrorismo, (un aspetto negativo della globalizzazione di cui è difficile dare colpa alle IFI). Significa una più efficace organizzazione dei contratti di debito. Un esempio di questo aspetto è rappresentato dalle Clausole di azione collettiva (CAC) che dovrebbero regolare i rapporti tra creditore e debitore in caso di ristrutturazione del debito. Tale esigenza nasce soprattutto negli anni Novanta. A differenza degli anni Settanta, infatti, le transazioni finanziarie oggi sono basate in gran parte sulla emissione di obbligazioni e dunque coinvolgono un elevato numero di creditori, difficili a coordinarsi, sopratutto durante le crisi.

Ma anche se la prevenzione migliora è difficile, forse impossibile, immaginare che le crisi possano scomparire del tutto. A causa di asimmetrie informative, azzardo morale e problemi di azione collettiva, i fallimenti di mercato costituiscono una caratteristica permanente dei sistemi finanziari e le crisi ne sono la manifestazione più estrema. E allora le IFI saranno chiamate a «risolverle». (Ma, non sarebbe meglio che le IFI non ci fossero? Sarebbe come chiedere che il medico sia eliminato anche se le malattie continuano a perseguitarci. Naturalmente la presenza del medico non implica che la medicina sia sempre quella giusta. A volte il medico sbaglia, un po’ perché è incapace, ma spesso anche perché la scienza medica deve fare progressi).

Le IFI, e i governi che ne sono gli azionisti, stanno riconsiderando l’approccio alla risoluzione delle crisi lungo le seguenti linee. La risoluzione delle crisi dovrebbe basarsi su un mix più equilibrato di finanziamento ufficiale, aggiustamento degli squilibri e coinvolgimento del settore privato (cioè dei creditori) nel condividere i costi delle crisi, compresi quelli derivanti da una eventuale ristrutturazione del debito. Per esempio il settore privato dovrebbe essere incoraggiato, anche attraverso la moral suasion, a mantenere aperte le linee di credito verso i paesi in difficoltà e/o ad accettare una riduzione delle proprie attività qualora la ristrutturazione del debito si rivelasse inevitabile. In questo caso si dovrebbe poter disporre di meccanismi istituzionali per una gestione ordinata della ristrutturazione e eventualmente una sospensione temporanea dei pagamenti ai creditori. Infine, attraverso adeguate reti di protezione sociale, i programmi di aggiustamento dovrebbero garantire una più equa distribuzione dei costi tra la popolazione, salvaguardandone le componenti più deboli.

Siamo ancora lontani da un simile scenario. Le CAC, per esempio, sono state, fino ad oggi, introdotte in contratti emessi sotto giurisdizione europea ma non in quelli emessi sotto giurisdizione americana. Gli interventi di salvataggio da parte del Fondo e della Banca Mondiale, sopratutto durante la crisi asiatica, sono stati di dimensioni assai ampie e, come il caso recente del Brasile dimostra, continuano ad esserlo. Inoltre, le IFI sono state accusate di scarsa trasparenza nelle loro decisioni. Il coinvolgimento del settore privato, per esempio attraverso il roll-over dei crediti ai paesi indebitati è stato limitato o, più spesso, assente. Le crisi sono state profonde e prolungate nel tempo e la loro risoluzione è stata a dir poco disordinata e accompagnata da costi, economici e sociali, elevati, che si sono concentrati sopratutto sugli strati più deboli delle popolazioni.

 

Verso una nuova governance delle IFI?

Mutamenti significativi nel comportamento delle IFI richiedono una forte spinta in questa direzione da parte degli azionisti delle stesse, cioè i paesi. Quelli più ricchi hanno in questo una responsabilità particolare. Per esempio la introduzione di CAC potrebbe essere imposta, sia da parte UE che da parte USA nei contratti stipulati sotto la giurisdizione di competenza, dando cosi «il buon esempio» agli altri paesi. Analogamente i paesi avanzati potrebbero accrescere, attraverso la moral suasion, il coinvolgimento del settore privato durante la crisi. Potrebbero, inoltre, usare la loro autorità per introdurre un meccanismo di gestione della ristrutturazione del debito come lo SDRM (Sovereign Debt Restructuring Mechanism), anche se questo dovesse richiedere la modifica di trattati internazionali. Infine, potrebbero usare la loro influenza nelle IFI per modificarne significativamente i criteri di gestione dei finanziamenti e linee di condotta. Cosa che, peraltro, sta già in parte avvenendo.

In pratica la riforma delle IFI lungo queste linee non ha finora prodotto risultati significativi perché gli incentivi non si sono dimostrati sufficienti. I paesi industriali sono divisi tra loro e nei confronti dei paesi emergenti. Questi ultimi temono che l’introduzione di nuove forme di regolazione, di CAC e di meccanismi di ristrutturazione del debito accrescano il costo dell’indebitamento, sopratutto ai loro danni. L’evidenza empirica dell’impatto della regolazione sul costo del debito internazionale è ancora troppo limitata per poter giungere a qualche conclusione. Va però ricordato che la storia dei sistemi finanziari è caratterizzata da una alternanza di deregolamentazione e «riregolazione», la prima spinta dall’obiettivo di espandere il credito e la seconda da quello di fronteggiare l’instabilità derivante dall’eccesso di credito. La crisi asiatica ha fatto seguito a una fase di eccezionale espansione del credito ai paesi emergenti e non ci si deve sorprendere che la fase attuale sia segnata da una maggiore propensione alla regolazione. Ma nulla autorizza a pensare che la direzione di marcia sia effettivamente questa. I due principali attori, gli USA e la UE, hanno opinioni differenti sulla desiderabilità di una maggiore regolazione. I primi prediligono un approccio «di mercato» alla ristrutturazione del debito mentre gli europei sono a favore di un meccanismo istituzionale che affianchi le CAC. La diversità delle preferenze riflette (anche) diversi interessi in quanto l’amministrazione USA è particolarmente sensibile alle pressioni della comunità bancaria e finanziaria, che è contraria a una maggiore regolazione, mentre l’UE favorisce un approccio maggiormente istituzionalizzato. I paesi emergenti, infine, non vedono con favore né un maggiore uso di CAC né l’introduzione di un meccanismo istituzionale di gestione delle ristrutturazioni in quanto, come già evidenziato, temono che ne derivi un maggiore costo di finanziamento oltre che una maggiore difficoltà di accesso ai mercati. Passi avanti importanti, inoltre, si potrebbero ottenere attraverso una modifica delle politiche di gestione delle crisi, per esempio stabilendo criteri più rigorosi per il finanziamento dei programmi di salvataggio di grande dimensione. Si potrebbe, inoltre, rendere più efficace il coinvolgimento del settore privato, attraverso una azione più valida e coordinata di moral suasion.

Mantenere elevato l’impegno alla costruzione di una nuova architettura finanziaria richiede una forte leadership. A Praga nel 2000 i paesi membri delle IFI avevano stabilito precisi impegni in questo senso ma da allora i progressi sono stati modesti, ostacolati in buona parte da differenze di vedute, e di impegno, tra USA e paesi europei. Gli USA, come detto, sono restii ad accelerare il processo di «riregolazione». Gli europei hanno fatto e continuano a fare, progressi nella definizione di linee comuni, ma la capacità di influenza degli europei nelle IFI è limitata dall’ancora insufficiente sviluppo di un mercato finanziario europeo e da un limitato ruolo internazionale dell’euro. Ma la debolezza della posizione europea non è spiegata solo da fattori strutturali, che comunque richiedono tempo per dispiegare i loro effetti. Manca, nel sistema internazionale, nelle sedi istituzionali rilevanti, e in primo luogo nelle IFI, una voce comune dell’area dell’euro e dell’UE. La ragione di una tale assenza è la stessa che impedisce il passaggio a una gestione unificata della politica economica in Europa, il prevalere di visioni e interessi nazionali su una visione e interessi comuni. Paradossalmente, proprio il rispetto del principio di sussidiarietà, che così spesso si invoca per guidare il processo di riforma istituzionale dell’UE, suggerisce che per affrontare problemi globali, come quelli della regolazione finanziaria, i meccanismi decisionali siano spostati al più elevato livello possibile.