Riforme istituzionali e transizione repubblicana

Di Cesare Pinelli Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

Negli anni Novanta il termine «transizione repubblicana» ha designato il passaggio dalla «repubblica dei partiti» a un sistema bipolare, in cui, si è detto tante volte, «la maggioranza governi e l’opposizione controlli» (e si prepari a sua volta, se gli elettori la premiano, a governare). Oggi possiamo affermare che i cittadini hanno largamente accettato, e contribuito a strutturare col loro voto, la conformazione bipolare del sistema. Eppure, nonostante le alternanze susseguitesi a partire dalla XII legislatura, gli strumenti istituzionali di cui maggioranza e opposizione dispongono per svolgere i rispettivi compiti sono ancora (salvo le novelle regolamentari della Camera) quelli di prima.

 

Negli anni Novanta il termine «transizione repubblicana» ha designato il passaggio dalla «repubblica dei partiti» a un sistema bipolare, in cui, si è detto tante volte, «la maggioranza governi e l’opposizione controlli» (e si prepari a sua volta, se gli elettori la premiano, a governare). Oggi possiamo affermare che i cittadini hanno largamente accettato, e contribuito a strutturare col loro voto, la conformazione bipolare del sistema. Eppure, nonostante le alternanze susseguitesi a partire dalla XII legislatura, gli strumenti istituzionali di cui maggioranza e opposizione dispongono per svolgere i rispettivi compiti sono ancora (salvo le novelle regolamentari della Camera) quelli di prima. L’assenza di riforme gioca peraltro diversamente, perché mentre un governo che disponga di una forte maggioranza avrà solo il problema di mantenerla coesa per attuare il suo programma di legislatura (o quel che ritiene prioritario allo stesso programma: vedi le rapide approvazioni di pur contestatissimi private bills sulla giustizia), un’opposizione priva di efficaci garanzie in parlamento non potrà assolvere ai suoi compiti di controllo.

Intorno al 2000 si è aggiunta un’altra transizione, quella che riguarda l’impianto delle autonomie territoriali e il loro rapporto con lo Stato. Due leggi costituzionali vanno ancora in buona parte attuate, con nuovi statuti regionali e in sede di legislazione ordinaria. E, soprattutto, vanno completate con la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie territoriali, per dare loro voce in sede nazionale, per evitare il ritorno al centralismo che si fiuta nell’aria e per non disperdere le nostre forze nel sistema dell’Unione europea, che presenta momenti di forte competizione fra gli Stati membri. La transizione investe oggi tutte le nostre istituzioni politiche, centrali e locali. E i costi costituzionali di una transizione che non si conclude, e che perciò diventa piuttosto una stagnazione, sono inesorabilmente alti in termini di democrazia, di efficienza, di certezza del diritto e dunque degli stessi diritti dei cittadini. Il presidente della repubblica li ha più volte messi in luce esortando il parlamento a procedere, e i presidenti delle due Camere hanno avviato iniziative di riflessione culturale e anche di innovazione normativa conformi all’obiettivo. In un altro paese, sarebbe il governo ad assumersi le proprie responsabilità, compilando un Libro bianco delle riforme da completare e chiamando l’opposizione a fare la sua parte. Perché noi non avremo nessun Libro bianco? Forse perché la transizione non è compiuta?

A porre una pesante ipoteca sul completamento della transizione è proprio il presidente del Consiglio, quando afferma che, in caso di indisponibilità dell’opposizione, la maggioranza approverà da sola il progetto di devolution e quello sull’elezione a suffragio popolare diretto del presidente della repubblica. L’onorevole Bossi ha più volte dichiarato di volersi attenere soltanto alla Costituzione e che essa prevede un procedimento del genere. Molti altri aggiungono che anche la legge costituzionale n. 3 del 2001 fu votata a maggioranza dal centrosinistra, il che legittima l’attuale maggioranza a comportarsi allo stesso modo. I due argomenti sono diversi e vanno trattati separatamente. L’art. 138 della Costituzione consente che una legge costituzionale sia approvata a maggioranza assoluta in seconda deliberazione, e che in tale ipotesi debba essere sottoposta a referendum ove lo richiedano certi soggetti (un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali). Nel caso che ci interessa, almeno uno di essi richiederebbe il referendum. Ma il quesito sottoposto agli elettori li orienterebbe a sufficienza nella loro scelta?

Dal 1978, la Corte costituzionale afferma che il quesito referendario, a pena di inammissibilità, non deve confondere l’elettore, ma deve porlo di fronte a una scelta univoca, che gli consenta di votare per il sì o per il no. Si è sempre trattato di referendum di abrogazione di leggi ordinarie, e la Corte è estranea al procedimento di formazione delle leggi costituzionali. Ma la richiesta che il quesito sia univoco è stata ricavata dal principio della sovranità popolare e dal diritto di voto (artt. 1 e 48), diritto che presuppone ed esige, come sostennero autorevoli costituzionalisti di fronte ad ipotesi di revisione a colpi di referendum, la libertà di scelta dell’elettore in riferimento a qualsiasi consultazione. Il quesito (o i quesiti) di Bossi e Berlusconi porrebbero gli elettori in grado di compiere una scelta chiara? Se il quesito fosse unico la risposta sarebbe negativa, per la semplice ragione che l’elettore può volere una cosa e non l’altra. Se i quesiti fossero due, non si può rispondere, in assenza di testi, per il quesito sull’elezione diretta del capo dello Stato; si può rispondere per il progetto di devolution, almeno nel testo approvato dal Senato in prima lettura.

Le disposizioni del progetto si presentano come integrative di quelle del Titolo V, mentre invece le modificano sostanzialmente, perché possono portare a venti sistemi sanitari e scolastici, e a una frammentazione del corpo di polizia, in contrasto con le previsioni costituzionali vigenti. Ancora, il progetto dice che le regioni «attivano» la competenza legislativa esclusiva nelle materie indicate, il che equivale a dire (volutamente) che possono anche non attivarla, in violazione della regola che attribuisce al parlamento il potere di fissare «i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, lett. m), Cost.). Infine il progetto non indica fonti e modalità di finanziamento delle nuove competenze, senza escludere l’ipotesi di un finanziamento tutto statale, cioè a un massiccio ritorno di centralismo, né l’ipotesi di un finanziamento tutto regionale per cifre enormi, e di corrispondenti sperequazioni interregionali.1 La situazione sarebbe talmente caotica che vi si potrebbe rimediare solo dal centro, in pieno contrasto con le declamazioni federalistiche. Il progetto di devolution non è solo un corpo estraneo alla nostra Costituzione (Titolo V compreso) ma è prima ancora un pasticcio, un ginepraio in cui nessun elettore saprebbe orientarsi con un minimo di razionalità.

Affermare che la legge costituzionale del 2001 «fa precedente» è irrilevante sul piano strettamente giuridico, perché in base all’art. 138 il parlamento ha sempre potuto ricorrere al procedimento di fatto impiegato per la prima volta nel 2001. L’approvazione a maggioranza della riforma del Titolo V rileva invece molto sul piano delle convenzioni costituzionali. Le circostanze di fatto vanno però valutate tutte. Un conto è l’approvazione a maggioranza di una legge ai cui contenuti essenziali l’opposizione aveva inizialmente aderito, e sostenuta dall’intero arco delle autonomie territoriali. Cosa completamente diversa è l’approvazione a maggioranza di una legge in cui la stessa maggioranza si riconosce a fatica, da sempre osteggiata fortemente dall’opposizione, non voluta dalle autonomie territoriali e criticata duramente da Confindustria, CISL, Chiesa cattolica e una quantità di associazioni e movimenti di ogni tendenza politica. Il discorso sui precedenti andrebbe a questo punto rovesciato. Dalla seconda metà degli anni Settanta, non c’è stata legge (ordinaria e costituzionale) di trasferimento delle funzioni alle regioni che sia stata approvata senza l’adesione almeno tacita e informale delle regioni, e così sta avvenendo anche per il d.d.l. La Loggia di attuazione del Titolo V. L’unica eccezione è il progetto Bossi, al quale gli stessi presidenti delle regioni di centrodestra avevano mosso obiezioni che sono state seccamente respinte. In pratica, la devolution non la vuole quasi nessuno. Per salvarla da una bocciatura in sede referendaria, Berlusconi punta sull’abbinamento con la proposta di elezione diretta del capo dello Stato, che avrebbe un effetto di trascinamento e gli aprirebbe la via del Quirinale. Quando, nel 1969, De Gaulle volle legare la sua permanenza all’Eliseo all’approvazione di un referendum su una legge sulle autonomie dei dipartimenti, la maggioranza dei francesi votò contro e il generale si ritirò dalla vita politica. Berlusconi vorrebbe fare il contrario: costretto da un suo alleato a far passare un progetto sulle autonomie fortemente osteggiato, tenta come sempre di rilanciare con un appello al popolo che sposterebbe tutta l’attenzione sulla sua persona. Questo rischia di diventare il punto discriminante della legislatura, e il problema costituzionalmente più scabroso che si sia aperto da quando si parla di riforme istituzionali. Prima di rispondere all’invito a «sedersi al tavolo», ben avrebbe fatto l’opposizione a chiedere conto della prima dichiarazione sull’abbinamento, che Berlusconi rilasciò subito dopo aver compreso che l’approvazione del progetto Bossi incontrava forti contrasti. Esse lasciavano intendere che l’operazione derivava da un vincolo di maggioranza, non dalla convinzione che il contenuto della proposta fosse così buono da meritare comunque l’approvazione, in presenza di un’opposizione divisa e poco credibile.

Come affrontare il nodo del rapporto tra forma di governo e impianto delle autonomie in modo da concludere le due transizioni con un assetto istituzionale coerente? Il punto di saldatura più evidente sarebbe costituito dalla trasformazione del Senato in una Camera delle autonomie territoriali. Oltre ad eliminare il serio pericolo di un risultato elettorale difforme fra Camera e Senato,2 e a fare della Camera dei deputati la sola sede del circuito fiduciario col governo, essa basterebbe a bilanciare le temute spinte centrifughe delle autonomie. Sarebbe in linea, infine, con le esperienze degli Stati europei a struttura federale o regionale, nei quali la forma di governo nazionale si basa su un rapporto di fiducia fra governo e Camera bassa, e su un capo dello Stato che (tranne il non entusiasmante caso austriaco) non è eletto dal popolo.3 Solo un’innovazione del genere coinvolgerebbe le autonomie in un assetto istituzionale nazionale coerente. Il presidente eletto dai cittadini sarebbe, casomai, una compensazione dei nuovi poteri che le autonomie hanno acquisito, e una soluzione che, nello specifico contesto italiano, presenterebbe forti incognite e, nel migliore dei casi, ritarderebbe la fine della transizione.

Negli Stati Uniti d’America il sistema si basa su presupposti non riproducibili in Europa, tanto che gli stessi Bossi, Fini e Berlusconi, immaginano piuttosto una diarchia fra presidente eletto e governo simile al sistema francese (che rimane invece fortemente accentrato). Per innestare il presidente eletto dal popolo nel sistema, occorrerebbe perciò sperimentare strade sconosciute, e ristrutturare buona parte del sistema stesso, comprese le strutture apicali delle pubbliche amministrazioni. Prima di raggiungere un nuovo equilibrio, anche fra centro e periferia, ci vorrebbe più di qualche anno.

Dalle proposte finora depositate in parlamento, si direbbe poi che la soluzione presidenzialista si proponga solo di rafforzare l’esecutivo, senza precostituire garanzie per l’opposizione parlamentare.4 Anche per tale ragione, il referendum dividerebbe radicalmente gli italiani su quella Costituzione che è ormai divenuta «la soglia cruciale tra presente e futuro, la vera trincea dello scontro, l’epicentro consacrato di qualunque esito politico».5 Le due transizioni non si concluderebbero, poiché, con qualunque esito, bisognerebbe riassestare l’intero sistema istituzionale e nello stesso tempo riconciliare gli italiani fra loro. Nel frattempo, andrebbe in porto la Costituzione europea. Chiudere bene e presto le due transizioni serve ai cittadini italiani, e tutta la classe politica deve saper rispondere. Il bandolo delle riforme sta però nel progetto di devolution. E, come si dice, non ci si siede al tavolo con una pistola puntata alla tempia: chi davvero vuole discutere dovrebbe mettere sul tavolo le pistole che ha, chiedere lo stesso ai suoi alleati, e accettare di toglierle di mezzo.6

Come scrive Sergio Fabbrini nell’articolo pubblicato su questo numero di Italianieuropei, «le democrazie elettorali contemporanee hanno davvero poco in comune con quelle dell’immediato dopoguerra. I processi di trasformazione sociale e cognitiva si sono così sviluppati da rendere sempre meno proponibile un’interpretazione paternalistica della politica. Non spetta più ai partiti fare e disfare i governi come è avvenuto nell’Europa (prima) liberale e (poi) democratica della seconda metà del XIX secolo e della prima metà del XX secolo (...) i partiti debbono abbandonare in fretta le loro predisposizioni elitarie, se non vogliono essere portati via dal vento  populista». Questa è la cornice teorica e storica in cui si colloca la proposta del cosiddetto «premierato forte», che presuppone una legittimazione diretta del primo ministro da parte del corpo elettorale, aggiustando tutti i congegni della forma di governo parlamentare intorno a quel solo presupposto. La cornice presenta una curiosa sfasatura temporale. Nei paesi europei insistentemente richiamati, la necessità di abbandonare una visione paternalistica non ha oggi più nulla a che vedere col potere di fare e disfare i governi, poiché il problema è stato risolto nella seconda metà del XX secolo. Ed è stato risolto con sistemi elettorali, congegni costituzionali e raccordi convenzionali che non vanno confusi l’uno con l’altro solo perché hanno ovunque prodotto alternanze regolari. Che, a loro volta, non escludono cambiamenti di governo in corso di legislatura nemmeno nel Regno Unito, stella polare dei sostenitori del «premierato forte», dove se ne sono avuti ben quattro solo nel periodo considerato.

I politologi insegnano che i sistemi elettorali vanno contestualizzati, e hanno ragione. Ma lo stesso vale per i congegni costituzionali delle forme di governo, i quali vanno studiati per gli effetti sostanziali che possono provocare, anche quando possono apparire relitti formalistici, o sono usati di rado. Lo scioglimento della Camera dei comuni è sostanzialmente deciso dal primo ministro ma è formalmente decretato dalla regina. La cosa non è indifferente: se la signora Thatcher avesse potuto sciogliere i comuni con un proprio atto, o formulare una proposta vincolante in tal senso, il gruppo parlamentare conservatore avrebbe forse designato John Major quale suo successore? Per essere coerenti, i fautori del «premierato forte» dovrebbero considerare la destituzione della signora Thatcher come uno degli ultimi scampoli dell’epoca del paternalismo dei partiti. E ciò sembrerebbe piuttosto bizzarro a uno studioso inglese. Non solo. Se e quando può farlo, il primo ministro può decidere di sciogliere i comuni. Ma non lo decide per proteggere il governo dall’instabilità della sua maggioranza, ma quando ritiene che il suo partito abbia le maggiori probabilità di vincere le elezioni, o almeno di perderle dignitosamente. Benissimo, ribattono i fautori del «premierato forte». Sappiamo anche noi che, a differenza di quelli del Regno Unito, i nostri sono governi di coalizione, ma crediamo di poter raggiungere gli stessi esiti attraverso congegni che garantiscano un vincolo di coalizione in corso di legislatura. Se così è, continuano, non ci interessa il sistema tedesco della sfiducia costruttiva, che da noi legittimerebbe i cambiamenti di governo in corso di legislatura e non risolverebbe il problema delle crisi extraparlamentari. Ci interessano sistemi, come quelli spagnolo e svedese, nei quali il primo ministro sia titolare del potere di sciogliere le Camere, o di formulare una proposta vincolante di scioglimento all’organo che debba decretarlo.

Ora, secondo la Costituzione spagnola, la proposta di scioglimento del presidente del governo al re, adottata, si badi, «previa deliberazione del Consiglio dei ministri», non può essere presentata se sia stata avviata una mozione di sfiducia costruttiva. In Svezia, il primo ministro è eletto dalla Camera (Riksdag) su proposta del suo presidente, la legislatura dura solo tre anni, e lo scioglimento del Riksdag provoca la mera interruzione anziché l’estinzione della legislatura. È nell’ambito di questo sistema che il governo può decidere di indire elezioni straordinarie nell’intervallo fra le elezioni ordinarie, e in caso di sfiducia parlamentare può indire le elezioni straordinarie del Riksdag se «approva nella settimana successiva al voto di sfiducia una decisione in tal senso» (art. 5, Cap. VI, Cost.). Peraltro queste regole, introdotte nel 1974 al fine di estraniare il monarca dal funzionamento del circuito parlamento-governo, non sono state finora messe alla prova, poiché la stabilità è stata assicurata dalla tradizionale compattezza interna del partito dominante.7

Nelle più recenti esperienze europee, la personalizzazione della politica e il declino della mediatizzazione partitica non hanno provocato una trasformazione delle forme di governo parlamentari razionalizzate in modelli incentrati sull’elezione popolare diretta del premier, e meno ancora ne legittimerebbe il potere di appellarsi in via esclusiva all’elettorato contro la maggioranza parlamentare. Se «premierato forte» vuol dire questo, bisogna sapere che sarebbe un sistema inedito,8 che la transizione deraglierebbe dai binari, con esiti imprevedibili, e che i suoi proponenti sarebbero i primi a «venire portati via dal vento populista». Se invece si cercano rimedi all’instabilità delle coalizioni nel quadro della nostra forma di governo, alcuni dei congegni previsti altrove possono avere una certa utilità.

I congegni di stabilizzazione delle coalizioni ai quali si può fare riferimento riguardano da una parte i poteri di nomina e revoca dei ministri, dall’altra il potere di scioglimento delle assemblee elettive. Sul primo punto la nostra Costituzione si limita ad attribuire al presidente della repubblica il potere di nominare i ministri su proposta del presidente del Consiglio (art. 92, secondo comma), e la maggioranza degli studiosi ne desume l’inammissibilità di una revoca dei ministri, anche se vi è sempre stata una vivace opinione contraria. Un’attribuzione del potere di nomina e revoca dei ministri al presidente del Consiglio, prevista in molti sistemi, allineerebbe la struttura dei rapporti endogovernativi all’andamento della transizione repubblicana.9 Sul secondo punto la Costituzione attribuisce al presidente della repubblica il potere di sciogliere le Camere, o anche una sola di esse, sentiti i loro presidenti, e prescrive che il decreto di scioglimento sia controfirmato dal presidente del Consiglio, sulla base della generale previsione per cui «Nessun atto del presidente della repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che ne assumono la responsabilità» (art. 89, primo comma). Il procedimento relativo allo scioglimento dovrebbe essere il seguente: proposta del presidente del Consiglio, richiesta (obbligatoria) di parere (non vincolante) ai presidenti delle Camere, decreto presidenziale di scioglimento recante la controfirma del presidente del Consiglio. Nella prassi, a partire dalla presidenza Einaudi il decreto di scioglimento non reca la proposta del presidente del Consiglio, né il parere del Consiglio dei ministri, viceversa sempre menzionati nei decreti di scioglimento in periodo statutario, e presupposti dagli stessi costituenti quali requisiti dell’atto.10

Stabilizzatasi la prassi repubblicana nel senso ora detto, il dibattito scientifico si è concentrato sul significato della controfirma apposta dal presidente del Consiglio al decreto di scioglimento, nell’ambito di una generale classificazione degli atti del capo dello Stato, quanto all’imputazione sostanziale di volontà, in atti governativi, presidenziali e complessi. La ricerca, meno utile quando la decisione effettiva di sciogliere le Camere risaliva ai maggiori partiti,11 ha ripreso senso in riferimento ai decreti presidenziali del 1994 e del 1996: e si spiega come mai nessuno abbia sostenuto che la decisione di sciogliere le Camere dovesse farsi risalire al presidente del Consiglio. Se così è, un’attribuzione costituzionale espressa al presidente del Consiglio della proposta di scioglimento (non subordinata a una previa deliberazione del Consiglio dei ministri, che contrasterebbe con l’obiettivo perseguito) non avrebbe nulla di sconvolgente; e, nello stesso tempo, consentirebbe di riequilibrare l’asse del potere decisionale fra presidente del Consiglio, quale titolare dell’iniziativa dello scioglimento, e capo dello Stato, che manterrebbe il potere di accettare la proposta.12

Su questa premessa, va valutata l’ulteriore e più innovativa previsione per cui il presidente del Consiglio possa entro un breve termine proporre lo scioglimento anche a seguito di un voto di sfiducia. L’eventuale rifiuto del capo dello Stato di dare seguito alla proposta sarebbe formalmente legittimo, ma dovrebbe anche trovare giustificazione, apprezzate le nuove circostanze palesatesi col voto di sfiducia, nella sostanziale continuità di indirizzo di un possibile futuro governo rispetto a quello scaturito dalle elezioni. Dopotutto, in presenza di governi di coalizione ancora assai articolati, sarebbe illusorio (e rischioso) fare sempre e comunque del premier in carica l’angelo protettore della stabilità. E i protagonisti di un sistema maturo devono saper riconoscere le loro nevrosi, comprese la diffidenza per l’esercizio di qualsiasi funzione arbitrale del presidente della repubblica e l’ossessione dei ribaltoni.

Più che progetti compiuti, le proposte di legge costituzionale finora presentate sui temi della forma di governo sembrano delle sonde lanciate per tastare il terreno. Non a caso, le due principali soluzioni attraversano gli schieramenti politici. Mentre le proposte Buttiglione (AC, n. 376) e Mancino-Salvi-Villone (AS, n. 1678), costituzionalizzano il sistema della mozione di sfiducia costruttiva, le proposte Tonini (AS, n. 1662) e Malan (AS, n. 1889) prevedono una soluzione che è passata nel gergo giornalistico sotto il nome di «premierato forte». Ma la lettura dei testi porta a conclusioni diverse. I due disegni di legge attribuiscono al primo ministro, rispettivamente, la «richiesta» e la «proposta» di scioglimento al presidente della repubblica, e la relazione Malan affida al capo dello Stato la funzione di «garante del rispetto della sovranità popolare», che in caso di crisi parlamentari consiste nel «verificare se è possibile formare un governo sulla base dei risultati elettorali, dai quali è scaturita una ben determinata maggioranza parlamentare, oppure sciogliere le Camere». Per il resto, tutte le proposte prevedono l’attribuzione al presidente del Consiglio dei poteri di nomina e revoca dei ministri, e le proposte Tonini e Malan aggiungono una serie di misure a garanzia dell’opposizione parlamentare e il riconoscimento di un «capo dell’opposizione». Le differenze rimangono anche dopo aver letto i testi; ma il punto è di vedere se siano incomponibili, se cioè electa una via non datur recursus ad alteram.

I giudizi dei politologi sul rendimento dell’istituto della sfiducia costruttiva soffrono spesso del limite prima denunciato. Se un certo congegno costituzionale «formale» è stato adoperato raramente (è il caso della sfiducia costruttiva in Germania), vuol dire che è inutile: come se non abbia avuto un potente effetto collaterale di deterrenza contro l’instabilità dei governi. Detto questo, l’onere della prova dovrebbe spettare ai proponenti: potrebbe la sfiducia costruttiva funzionare da noi in modo soddisfacente, oppure richiederebbe qualche opportuno adattamento? Tornano qui in gioco i giudizi politici sulla transizione repubblicana. Risponderà nel primo senso chi vorrebbe riportare all’indietro le lancette dell’orologio, al punto da considerare irrilevanti gli orientamenti espressi dagli elettori di fronte alla sovranità parlamentare (e da dimenticare così le ragioni e la prassi della sfiducia costruttiva in Germania). Chi davvero vuole concludere la transizione cercherà invece gli adattamenti del caso alla sfiducia costruttiva, e strada facendo si troverà in compagnia dei sostenitori meno scalmanati del rafforzamento dei poteri del premier. Gli uni e gli altri cercheranno, infatti, di combinare misure di stabilizzazione del circuito istituzionale maggioritario insediato dal corpo elettorale con una delimitazione dei poteri arbitrali del presidente della repubblica. Dal punto di vista tecnico, l’impresa non parrebbe troppo complicata.

 

 

Bibliografia

1 L.Vandelli, Devolution e altre storie. Paradossi, ambiguità e rischi di un progetto politico, Il Mulino, Bologna 2002, p. 65 ss., anche con riferimenti a un apposito dossier del Servizio studi del Senato; cfr. C. Pinelli, Sui livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, lett. m, Cost.), in «Diritto pubblico», 2003, in corso di pubblicazione.

2 Lo ha giustamente ricordato Roberto D’Alimonte nella sua relazione al seminario sulle riforme

istituzionali del 9 gennaio 2003 della Fondazione Italianieuropei.

3 Cfr. Vandelli, Devolution e altre storie, cit., p. 108.

4 Le proposte Selva (AC, n. 875) e Nania (AS, n. 1898) si limitano, infatti, a modellare modalità di elezione e ruolo del presidente della repubblica sulla falsariga della Costituzione della V repubblica francese.

5 F. Ceccarelli, La Carta suprema contestata ma intramontabile, in «La Stampa», 6 gennaio 2003, p. 9.

6 Peraltro alcuni gruppi parlamentari della maggioranza hanno preannunciato emendamenti in sede di esame del disegno di legge sulla devolution alla Camera dei deputati.

7 Cfr. S. Ceccanti, «L’esperienza svedese tra monismo radicale del testo costituzionale e bipolarismo asimmetrico del sistema dei partiti, ovvero un neoparlamentarismo alternante?», in S. Gambino (a cura di), Democrazia e forme di governo. Modelli stranieri e riforma costituzionale, Maggioli, Rimini 1997, p. 566.

8 F. Lanchester, «Il premier nostro e quello degli altri», in La Stampa, 10 gennaio 2003, p. 26.

9 Cfr. A. Maccanico, Rapporto sulle questioni istituzionali, Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per le riforme istituzionali, Roma 2000, p. 40.

10 L. Carlassare, «Commento all’art. 88», in Il presidente della repubblica. II. Commentario della Costituzione fondato da G.Branca e continuato da A.Pizzorusso, Zanichelli - Il Foro Italiano, Bologna- Roma 1983, p. 73 ss.; anche per le ragioni sottostanti all’abbandono della proposta di scioglimento nella prassi.

11 Tanto da configurarsi piuttosto come autoscioglimento: G. Filippetta, Modelli e vicende dello scioglimento anticipato delle Camere nell’esperienza repubblicana. Saggio sull’appropriazione partitica dello scioglimento, ed. provv, Roma 1990.

12 L. Carlassare, op. cit., p. 76.