Il premierato è utile all'Italia e all'Ulivo

Di Giorgio Tonini Mercoledì 01 Gennaio 2003 02:00 Stampa

Sono numerose, nel centrosinistra, le voci che avvertono come il rilancio della questione delle riforme costituzionali, da parte della Casa delle libertà, mostri con evidenza i segni di un’operazione strumentale. Si tratterebbe, in buona sostanza, di un diversivo, messo in atto allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai deludenti risultati dell’azione di governo, in particolare nel campo della politica economica e sociale. Di più: con la ripresa del tema delle riforme, Berlusconi si proporrebbe di impaniare l’opposizione in una vischiosissima, e in definitiva inconcludente, discussione sulle regole, utile solo a una sua personale rilegittimazione.

 

Sono numerose, nel centrosinistra, le voci che avvertono come il rilancio della questione delle riforme costituzionali, da parte della Casa delle libertà, mostri con evidenza i segni di un’operazione strumentale. Si tratterebbe, in buona sostanza, di un diversivo, messo in atto allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai deludenti risultati dell’azione di governo, in particolare nel campo della politica economica e sociale. Di più: con la ripresa del tema delle riforme, Berlusconi si proporrebbe di impaniare l’opposizione in una vischiosissima, e in definitiva inconcludente, discussione sulle regole, utile solo a una sua personale rilegittimazione.

Questa diffusa opinione ha, a mio parere, il difetto di essere riduttiva. Essa sembra ignorare il carattere necessitato – e dunque strutturale e non contingente – della crisi «da attese deluse» che mina il consenso al governo Berlusconi e, di conseguenza, inquieta la Casa delle libertà. Si tratta di una crisi nella quale, in tempi più o meno rapidi, finisce col precipitare ogni compagine politica che fondi il suo successo elettorale su una forte componente di tipo populistico, in cui l’irrazionale aspettativa messianica prevale sul consenso ragionato. Proprio perché le aspettative sulle quali si è formato il consenso poggiano su un elevato tasso di irrazionalità, l’impatto col «principio di realtà» è sì differibile nel tempo, ma è comunque inevitabile e, in assenza di correzioni di rotta, inevitabilmente duro. Le correzioni di rotta possono consistere – come per la verità accade raramente – in una maturazione razionale del circuito del consenso sul quale poggia quella operazione politica, una sua disintossicazione dall’eccesso di populismo. Oppure, tutt’al contrario, nel tentativo di «rilanciare» il meccanismo populistico delle aspettative irrazionalistico-messianiche, verso nuovi oggetti del desiderio.

La Casa delle libertà (e Berlusconi in essa) ha cominciato a vedere, in particolare dopo le elezioni amministrative della scorsa primavera, la prospettiva di una collisione col principio di realtà. Non deve quindi meravigliare che si sia aperta al suo interno una discussione vera su come correggere la rotta per evitare lo schianto. Nasce soprattutto da qui – mi sembrerebbe – la contesa tra le due opposte tendenze, che animano il dibattito interno al centrodestra e che prefigurano altrettanti possibili esiti per il governo e per il paese. Sul prevalere dell’una o dell’altra tendenza – è bene non dimenticarlo – non sarà irrilevante il ruolo che vorranno giocare, da un lato, le istituzioni di garanzia (a cominciare dalla presidenza della repubblica) e, dall’altro, l’opposizione di centrosinistra. L’anno passato, il 2002, si è chiuso con un «pronunciamento» da parte delle due ali estreme dello schieramento, entrambe minoritarie per suffragi elettorali, ma tutt’altro che irrilevanti per peso politico. Da una parte, la Lega di Bossi è tornata a mostrare la bandiera della devolution, imponendo l’approvazione al Senato, sotto la minaccia di far saltare prima la Cirami e poi la finanziaria, di quel comma aggiuntivo all’articolo 117 della Costituzione al quale perfettamente si applica un’efficace definizione che Paolo Pombeni propone del populismo: «una visione salvifica dell’evento politico in sé», secondo la quale la portata simbolica dell’evento medesimo sovrasta di gran lunga, ai fini della tenuta del circuito del consenso, la verifica della sua effettiva capacità di risolvere concretamente un problema. All’opposto (e per tutta risposta), il congresso fondativo dell’UDC ha schierato la neonata formazione centrista – figlia dell’intelligenza politica del presidente della Camera, Pierferdinando Casini – in favore di un’evoluzione «moderata» della Casa delle libertà, un’evoluzione compiutamente europea, nella quale il tasso di irrazionalismo populistico scenda ai livelli fisiologici della maggior parte dei partiti popolari europei. Anche a questo fine, il Congresso dell’UDC ha rilanciato la strategia delle riforme costituzionali, come proposta finalizzata, sia nel metodo (il dialogo tra maggioranza e opposizione), sia nel merito (la contrarietà a soluzioni radicali e per la forma di Stato e per quella di governo), a favorire un raffreddamento della temperatura dello scontro politico in Italia.

Le posizioni delle due ali estreme della Casa delle libertà, antitetiche tra loro in campo politico, si sono articolate in altrettante posizioni, ugualmente alternative, sul terreno istituzionale. La Lega agita populisticamente la devolution come non definito (né definibile) «altro» e «ultra» rispetto al federalismo; ed è disposta a legare alla devolution il presidenzialismo, più per ragioni politiche che di merito: il presidenzialismo, come la devolution, ha infatti il pregio, agli occhi di Bossi, di impedire qualunque intesa bipartisan, ossia qualunque «cedimento» alla ragione dialogica, inconcepibile in una prospettiva populista, ossia in una visione capace di ogni tatticismo e trasformismo, ma invece aliena e ostile a qualunque trasparente mediazione razionale.

All’opposto, e per gli opposti motivi, l’UDC – non senza qualche contraddizione interna, soprattutto al Senato – si è schierata per una ricomprensione della devolution nell’ambito di una revisione, neppure necessariamente «in avanti», del federalismo introdotto in Costituzione dall’Ulivo con la riforma del Titolo v; ed ha espresso un’opzione preferenziale, quanto alla forma di governo, per il cancellierato alla tedesca, ovvero per l’elezione parlamentare del capo dell’esecutivo, per l’introduzione dell’istituto della sfiducia costruttiva, per il ritorno alla proporzionale. Quest’ultimo – il ritorno alla proporzionale, sia pure corretto con qualche forma di soglia e/o di premio di maggioranza – è anche l’unico (e non insignificante) punto di contatto tra leghisti e centristi, tra «populisti intransigenti» e «moderati dialoganti».

In modo meno estremizzato, almeno nella sua espressione esterna, un analogo bipolarismo si è venuto affermando anche dentro Forza Italia. Da una parte, con la posizione del ministro Tremonti, fortemente e palesemente schierato con la Lega, per un rilancio «populistico» attraverso la devolution e il presidenzialismo, anche nell’attesa, o nella speranza, che una ripresa dell’economia eviti (o almeno differisca nel tempo) l’impatto col principio di realtà. Dall’altra parte, si è venuta profilando, con crescente nettezza, la posizione «neo-liberale» del presidente del Senato, Marcello Pera: una posizione che vede nel «completamento della transizione», attraverso riforme costituzionali, coerenti con la cultura del bipolarismo e del maggioritario affermatasi in Italia con i referendum del 1991-1993, e da realizzare in modo bipartisan, l’uscita «in avanti» per il paese e per la stessa Casa delle libertà.

Al momento, non è ragionevole azzardare previsioni su quale delle alternative in campo finirà col prevalere, anche perché non è affatto chiaro per quale di esse propenda Silvio Berlusconi. Fortissime sono le spinte, interiori prima ancora che esterne, che lo orientano verso un rilancio «populistico» e quindi verso la via tracciata da Bossi e Tremonti – e lungo la quale parrebbe incamminato anche il ministro Urbani – di un’approvazione a maggioranza di devolution e presidenzialismo, della conseguente battaglia referendaria e infine delle elezioni presidenziali. Riprendendo la lezione di Leo Loewenthal, Carlo Bastasin definisce i populisti come «psicanalisti al contrario», «manipolatori che anziché sciogliere i nodi delle paure degli individui, li suscitano, fanno leva sui timori estendendoli a una collettività di impauriti per poi proporre ad essa un transfert, un processo di purificazione politica attraverso l’identificazione emozionale con un capo carismatico che assicura di disporre con certezza delle soluzioni alle paure che egli stesso suscita». Quale via migliore, per esaltare l’anima populistica del centrodestra italiano e del suo demiurgo, di una lunga sequenza di «giorni del giudizio»?

E tuttavia, non meno forti delle spinte populistiche, sono anche le controspinte, i freni, i veri e propri ostacoli. Tra quelli interni alla Casa delle libertà, ai centristi dell’UDC va aggiunto Fini, che fatica a riconoscersi in una strategia pilotata dall’asse Bossi-Tremonti: una strategia che farebbe pagare ad Alleanza Nazionale il presidenzialismo – del quale peraltro nell’immediato godrebbe Berlusconi – al prezzo altissimo di una devolution scomposta e di un insidiosissimo ritorno alla proporzionale. Poi ci sono i freni istituzionali: dei presidenti delle Camere si è già detto, resta da richiamare la posizione del presidente della repubblica. A quanto è dato capire guardando al Quirinale dalle sue pendici, il presidente Ciampi non è stato e non sta a guardare, ma si è mosso e si muove per favorire un’evoluzione non populistica della lunga transizione italiana. Questo per Ciampi non significa, non è mai significato, contrastare la coalizione risultata vincente alle elezioni, ma piuttosto favorirne un’evoluzione pienamente democratica e contrastarne una deriva populistica. Nelle ultime settimane, in particolare, il presidente della repubblica ha per così dire «ricapitolato» il suo insistente magistero civile, in numerosi interventi natalizi e in particolare nel discorso di fine anno agli italiani, definendo come un grave problema nazionale la mancanza di coesione, di dialogo, di collaborazione tra le forze politiche e indicando nel dialogo sulle riforme costituzionali il terreno privilegiato per superare questo stato di cose, pericoloso non solo per la tenuta civile, ma per la stessa prosperità economica del paese. Il presidente si è dunque «schierato», con tutto il peso della sua popolarità. Una popolarità consapevole, come ha confermato, al di là di ogni aspettativa, un clamoroso sondaggio pubblicato da «L’Unità» – un giornale certo non propenso, per linea editoriale, al dialogo bipartisan – dal quale emerge che più del 90% degli italiani condivide la via dialogica alle riforme.

Se il ruolo di Ciampi è chiaro, non altrettanto può dirsi di quello dell’opposizione di centrosinistra, nella quale è diffuso – stando a «L’Unità», più tra i militanti che tra gli elettori – un sentimento ostile all’idea stessa del dialogo, per quanto giustamente e rigorosamente circoscritto alle regole istituzionali, «con questa maggioranza». Sergio Cofferati, in modo particolare, si è fatto interprete di questo sentimento, sostenendo che il dialogo sulle riforme finirebbe per offrire alla Casa delle libertà e a Silvio Berlusconi un’inaccettabile legittimazione. Si tratta di un argomento non peregrino. E tuttavia, non si può neppure negare come in democrazia – e in particolare nella democrazia competitiva bipolare – la legittimazione reciproca non sia una scelta, ma un dato di realtà. La scelta riguarda le modalità e le finalità della reciproca legittimazione. Ci si può legittimare a vicenda per dar vita a uno scontro tra opposte fazioni e faziosità o, invece, per promuovere le condizioni di un convergente impegno per il paese, pur nella rigorosa distinzione dei ruoli rispettivamente assegnati dal corpo elettorale, secondo quella dialettica bipolare che è l’ossigeno della democrazia.

Più in concreto, l’Ulivo si trova oggi dinanzi alla scelta non «se» legittimare l’attuale maggioranza di governo, ma «quale» evoluzione di essa concorrere a legittimare: se quella del rilancio populistico, o quella dell’evoluzione liberale ed europea. Fermo restando che la partita è assolutamente aperta, incerta e quindi rischiosa, per il paese innanzi tutto, ma anche per le prospettive dell’Ulivo, è del tutto evidente che un «no» pregiudiziale al confronto sulle istituzioni, finirebbe per legittimare l’esito populista. E l’esito populista dell’evoluzione del centrodestra, finirebbe a sua volta per retroagire anche sul centrosinistra, allontanandolo dalla sua originaria radice prodiana di «alleanza per il governo» e favorendone una mutazione genetica in senso massimalista e, in definitiva, populista. La via del dialogo, indicata da Ciampi e sostenuta da un largo consenso popolare, va quindi esplorata: con prudenza, ma anche con coraggio. E la via del dialogo possibile passa oggi per il nodo del cosiddetto «premierato forte», strettamente connesso a un altrettanto forte sistema di garanzie e a una non meno incisiva riforma federalista, completando il nuovo Titolo V con la riforma del Senato.

La proposta di legge che insieme ad autorevoli colleghi abbiamo presentato in Senato, «Norme per la stabilizzazione della forma di governo intorno al Primo ministro e per il riconoscimento di uno Statuto dell’opposizione »,1 non è passata inosservata e ha quindi riscosso apprezzamenti, ma anche critiche. Tra le critiche più diffuse, in particolare nel centrosinistra, c’è quella di «cedimento» alla cosiddetta «deriva plebiscitaria», mediante l’inopportuna introduzione di un «presidenzialismo mascherato», attraverso l’elezione diretta del Primo ministro. Si tratta di una critica a mio avviso del tutto infondata. Il premierato si differenzia dal presidenzialismo e per questo è sempre stato preferito dal riformismo di centrosinistra – proprio in quanto attribuisce agli elettori il potere di eleggere non «un uomo solo al comando», per quanto bilanciato da robusti contrappesi parlamentari, ma una maggioranza parlamentare di governo, col suo programma e il suo Primo ministro. Il testo da noi proposto rilancia il premierato (e non il presidenzialismo), proprio in quanto introduce in Costituzione il principio della «elezione contestuale». Un principio che esclude come contraddittorio l’istituto della «sfiducia costruttiva», ossia la possibilità per il parlamento di alterare l’indirizzo politico espresso dal corpo elettorale. Ma anche un principio con il quale la nostra proposta ritiene più coerente, non la rigidità (sconosciuta ai sistemi anche neoparlamentari) del simul stabunt, simul cadent, ma un più flessibile bilanciamento tra potere di sfiducia del Primo ministro, in capo al parlamento, e potere di scioglimento della Camera, la cui titolarità politica è attribuita al Primo ministro, fermo restando il ruolo di garanzia costituzionale mantenuto in capo al presidente della repubblica.

Al di là dei rilievi tecnico-costituzionali, la principale obiezione raccolta in questi mesi è tuttavia politica: come potete pensare, ci è stato detto, che Berlusconi abbia bisogno di più poteri? La nostra risposta è che dobbiamo rovesciare la domanda, nel modo seguente: perché è diventato presidente del Consiglio, col consenso degli elettori, l’uomo che in Italia dispone della maggiore concentrazione di potere privato? La nostra risposta è: per la debolezza del sistema politico. Una debolezza «passiva», innanzi tutto: dopo la tempesta dei primi anni Novanta, il potere politico si è presentato come facilmente «scalabile» da parte dei poteri non politici e Berlusconi ha saputo approfittarne. Vanno dunque rafforzate le difese passive della politica dall’invadenza degli altri poteri. Innanzitutto, contrastando la concentrazione dei poteri extrapolitici, a cominciare da quello sui media, e la loro sovrapposizione col potere politico (vigilanza sul conflitto d’interessi). Così come vanno irrobustiti i contrappesi al maggioritario, tutelando meglio le istituzioni di garanzia, prevedendone di nuove e definendo un organico Statuto dei diritti dell’opposizione in parlamento. Il nostro disegno di legge avanza proposte in questi campi, cercando con ciò di corrispondere alla sacrosanta domanda di nuove garanzie democratiche che emerge da molti settori della società civile.

Ma c’è anche una debolezza «attiva» del nostro sistema politico. Un sistema che grazie al maggioritario (e alla legge Mattarella, che può essere migliorata, ma non va in nessun modo rimessa in discussione) ha realizzato il duplice obiettivo della creazione di maggioranze e dell’alternanza di esse, ma non la coesione interna alle coalizioni e la stabilità dei governi. In assenza di regole, costituzionali o convenzionali, che garantiscano, o quanto meno favoriscano, la stabilità (e l’esperienza dei quattro governi dell’Ulivo, più la candidatura di Rutelli, ha impietosamente evidenziato questa assenza), è possibile che la società cerchi di soddisfare il suo bisogno di governabilità per vie extrapolitiche ed extracostituzionali. È vero, quindi, che Berlusconi non ha bisogno di ulteriori poteri, ma i poteri di cui parliamo – e che proponiamo nel disegno di legge – avrebbero fatto comodo a Prodi e all’Ulivo. E faranno comodo all’Ulivo in futuro, se vorrà che il suo candidato premier possa competere con Berlusconi anche sul terreno della garanzia della stabilità. È così che si combattono, sul serio, i rischi di deriva populistico-plebiscitaria. La nostra proposta, nella sua organicità, è allo stato l’unico possibile terreno di intesa con un centrodestra che decida di imboccare la via dell’evoluzione liberale e non quella del rilancio populistico. Può darsi che non se ne faccia nulla. Mi basterebbe sapere che, se non se ne farà nulla, non sarà stato per responsabilità di noi dell’Ulivo.

  

 

Nota

1 A.S. 1662.