E l'Ulivo? Sei domande ai segretari dei partiti del centrosinistra

Di Redazione Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

Italianieuropei è convinta che occorra riportare al centro della discussione politica il tema della costruzione di una coalizione di centrosinistra solida e propositiva. Serve un Ulivo capace di incalzare il centrodestra, in sempre più evidente difficoltà, e di preparare le condizioni per un’alternativa di governo. Per questo abbiamo chiesto all’Associazione Artemide e ad un gruppo di sindaci del centrosinistra – tra quelli eletti o riconfermati alle elezioni dello scorso maggio – di indirizzare ai segretari dei partiti del centrosinistra una riflessione e una serie di domande sul futuro dell’alleanza dell’Ulivo.

 

Italianieuropei è convinta che occorra riportare al centro della discussione politica il tema della costruzione di una coalizione di centrosinistra solida e propositiva. Serve un Ulivo capace di incalzare il centrodestra, in sempre più evidente difficoltà, e di preparare le condizioni per un’alternativa di governo. Per questo abbiamo chiesto all’Associazione Artemide e ad un gruppo di sindaci del centrosinistra – tra quelli eletti o riconfermati alle elezioni dello scorso maggio – di indirizzare ai segretari dei partiti del centrosinistra una riflessione e una serie di domande sul futuro dell’alleanza dell’Ulivo.

Artemide associa un gruppo di parlamentari del centrosinistra. L’obiettivo è la rifondazione dell’Ulivo. Inizialmente la strada scelta è stata soprattutto quella di definire i contenuti di un moderno riformismo europeo, lavorando al rafforzamento del bagaglio interpretativo e progettuale da mettere in comune. La prima decisione prevede dunque di cimentarsi proprio sugli aspetti di policy lasciando fuori dal nostro campo di elaborazione il tema del soggetto politico.

È stato sufficiente, tuttavia, diffondere un primo documento imperniato sull’obiettivo del rilancio dell’Ulivo, per raccogliere molti più consensi di quanto non avessimo immaginato, anche da parte di parlamentari del centrosinistra non necessariamente identificabili con l’adesione al riformismo generalmente inteso. Ecco allora che è iniziata una nuova fase imperniata sui problemi della forma dell’Ulivo così come si erano prepotentemente affacciati nelle nostre riunioni. La seconda decisione naturale è stata così quella di concentrarci sulla inscindibilità delle due componenti: il progetto e il soggetto, ovvero il contenuto e il contenitore. E alla fine di alcuni mesi di riflessione siamo arrivati a mettere in agenda temi precisi su cui misurare le convergenze e le diversità. Ne ricordiamo alcuni a partire da quelli già oggetto delle nostra iniziativa proprio nell’imminenza della chiusura estiva delle Camere: portavoce unici alla Camera e al Senato; comitati di collegio dell’Ulivo; adesioni individuali all’Ulivo; finanziamento alle coalizioni; modalità di selezione della leadership.

La rifondazione dell’ Ulivo, insomma, passa sì dall’elaborazione di un programma, ma passa anche contemporaneamente dalla accettazione di regole che contribuiscano a creare quella sede comune di confronto e di elaborazione dei programmi. Siamo arrivati a questa prima conclusione partendo da una consapevolezza e da una convinzione.

La consapevolezza. L’ Ulivo non è una terra mitica che forse è esistita in passato. Non è una terra promessa. È un’aspirazione diffusa in una parte significativa dei cittadini, che chiamano Ulivo cose non sempre omogenee ma sicuramente convergenti su alcuni punti. È la costante presenza di questi punti che ci induce a pensare che l’ archetipo Ulivo sia esistito o possa realmente esistere. Che cos’è infatti l’ Ulivo nel comune sentire? Il superamento di barriere ideologiche all’interno di un’ area genericamente «di centrosinistra». L’unità delle forze riformiste. La vittoria della «democrazia governante» sulle singole identità. Un progetto di modernizzazione basato su equità ed efficienza. La capacità di competere nel mercato senza abbandonare i valori e i diritti.

La convinzione. In un sistema bipolare, non importa se «all’italiana», per battere il centrodestra e vincere le prossime elezioni, non è assolutamente sufficiente puntare sugli errori e sulle gravi manchevolezze di chi ci governa oggi. È indispensabile mettere in campo una coalizione credibile, capace di risultare agli occhi degli elettori un soggetto politico forte, moderno, innovativo, in grado di garantire l’adempimento del programma elettorale, sia pure davanti all’indispensabile allargamento della coalizione a tutte le forze che vanno dal centro alla sinistra.

Il bipolarismo d’altra parte è qui per restare. Per quanto forti siano le nostalgie per un ritorno al pro p o rzionale, noi crediamo di non essere affatto usciti da quella crisi del sistema politico che ha spinto la grande maggioranza degli elettori a pronunciarsi per il maggioritario e il bipolarismo. Semmai dovrebbe essere ripreso il processo delle riforme istituzionali, per non lasciare il paese a metà del guado.

La crisi dei partiti tradizionali fa il paio con la crisi dello Stato-nazione e non c’è dubbio che i processi di globalizzazione, che in Europa si sostanziano anche in una forte spinta all’ Unione politica e all’allargamento, richiedono una capacità di innovazione politica molto forte, così forte da sembrare più praticabile rimescolare le carte della tradizione liberale, cattolica, socialdemocratica piuttosto che ipotizzare un profondo rinnovamento per i singoli partiti, eredi di quelle tradizioni. La questione di fondo sia a livello europeo sia a livello nazionale e locale tocca oggi il nodo centrale della democrazia, che sia più partecipata o che sia più rappresentativa. E le questioni di una moderna democrazia ci sembrano più facilmente affrontabili mettendo in campo un nuovo soggetto politico, capace di agire in un contesto locale, nazionale e sopranazionale.

Da questa premessa – e fermo restando l’obiettivo ultimo di rifondare l’Ulivo – discendono una serie di domande alle quali chiediamo di dare una risposta articolata. Noi proviamo a dare la nostra e chiediamo di fare altrettanto a tutti coloro che nell’ Ulivo dicono di cre d e re e di puntare, a cominciare dai segretari dei partiti dell’ Ulivo, ma non solo (per esempio a quei sindaci, e presidenti di Regione, che proprio come rappresentanti dell’ Ulivo sono stati eletti).

Prima domanda. Che cos’è l’ Ulivo per te, oggi e in prospettiva?

Seconda domanda. A che cosa sei disposto a rinunciare, pur di contribuire alla nascita dell’Ulivo e al suo rafforzamento? Come pensi che l’Ulivo dovrebbe misurarsi al suo interno con opinioni e linee contrapposte? Sei d’accordo, per esempio, con l’adozione del principio di maggioranza per le decisioni della coalizione?

Terza domanda. Come intendi affrontare le elezioni europee del 2004 – in presenza di un sistema elettorale proporzionale – evitando di accrescere la conflittualità fra i partiti dell’ Ulivo? All’interno poi del nuovo Parlamento europeo, rispetto alla divisione classica fra partiti che si riconoscono nel PSE oppure nel PPE, come immagini il legame fra quanto potremmo avviare in Italia con l’ Ulivo e quanto sarebbe forse necessario cambiare nel più ampio campo del riformismo europeo?

Quarta domanda. Quali sono, secondo te, gli ostacoli che hanno impedito fino ad oggi la costruzione di un «Ulivo federazione di partiti» e non solo coalizione da mettere in campo alla vigilia di elezioni?

Quinta domanda. Sei d’accordo che prima bisogna aver rafforzato l’ Ulivo e solo dopo si può pensare di lavorare all’allargamento delle alleanze?

Sesta domanda. In molte realtà locali, come è accaduto alle ultime elezioni amministrative, l’Ulivo riesce ad imporsi anche contro le previsioni quando si punta su candidature autore voli e autonome e quando si realizza un’ampia unità tra le forze che si oppongono al centrodestra. Credi che da queste esperienze possa ve n i re un’indicazione per i partiti nazionali?

 

L'Ulivo secondo Enrico Boselli

1. Premetto: mi trovo largamente d’accordo con le argomentazioni dell’associazione Artemide che sta conducendo, ormai da tempo, efficaci iniziative per cercare di rafforzare l'Ulivo, alle quali i socialisti hanno dato e continuano a dare il proprio contributo, una linea che abbiamo ampiamente sviluppato al nostro congresso di Genova. Parto da una pura e semplice constatazione: l’Ulivo non è, come dovrebbe essere, un progetto chiaro e condiviso da tutti coloro che ne fanno parte, neppure da quelli che sono riformisti. Questa situazione determina, di fatto, nonostante tutte le dichiarazioni di buona volontà, un sostanziale immobilismo. L’Ulivo resta come minimo comune denominatore, cioè solo come cartello politico-elettorale.

Io penso che l’Ulivo debba essere il nucleo riformista forte di una più ampia alleanza di centrosinistra. Comunque, comprendo le difficoltà. Ricordo che anche noi socialisti siamo arrivati non senza problemi a questa posizione. Si tenga conto quanto hanno pesato dentro di noi le spinte ideali alla rifondazione socialista e quelle politiche verso una sinistra riformista, diversa e differenziata da quella postcomunista. Proprio perché era a noi più vicina, mi aveva convinto l’idea, indicata inizialmente da Prodi, che l’Ulivo nascesse come componente distinta dalla Quercia (anche se ad essa alleata strategicamente). Si trattava, quindi, di fare dell’Ulivo la forza riformista che avrebbe dovuto mettere insieme cattolici democratici, socialisti, liberaldemocratici ed ecologisti. Eravamo, invece, contrarissimi all’Ulivo come «superpartito», poiché si sarebbe realizzata una formazione del tutto asimmetrica, con una sola forza consistente, il PDS, che avrebbe facilmente egemonizzato tutte le altre: insomma una Quercia attorniata da cespugli, secondo l’immagine suggerita a suo tempo da Ernesto Galli della Loggia. Non condividemmo affatto la scelta di Prodi di fare dell’Ulivo il simbolo di tutta la coalizione. Dopo la vittoria, la doppia leadership, quella di Prodi sul governo e quella di D’Alema sulla maggioranza parlamentare, segnalò – ben prima della rottura operata da Bertinotti – che l’Ulivo così non poteva funzionare. Dopo la crisi del governo, la nostra visione delle cose tornò a convergere con quella di Prodi.

A distanza di anni, che cosa ci ha convinto che oggi si possa costruire l’Ulivo come nucleo riformista del centrosinistra? Il fatto che la Margherita sia riuscita a riequilibrare il peso della Quercia, ma non sia in grado di rappresentare all’interno dell’Ulivo quella gamba riformista, che noi stessi ave vamo auspicato che si formasse (nonostante la leadership laica di Rutelli e l’influenza antintegralista di Parisi, l’impronta della nuova formazione resta cattolico democratica); e, nondimeno, l’ulteriore evoluzione avvenuta nei DS che cominciano ad avere all’interno una dialettica di tipo socialdemocratico, gettando definitivamente alle ortiche il centralismo burocratico (merito di non poco conto della segreteria Fassino). L’Ulivo a due gambe, in queste condizioni, rischia di essere qualche cosa di ben diverso da ciò che avevamo immaginato: ripropone solo lo schema logoro di due forze che fondano ancora il senso d’appartenenza delle proprie rispettive comunità e di distinzione reciproca – dell’una verso l’altra – in identità storiche che sono ormai superate (postcomunista e postdemocristiana). A questo punto, forse l’unica strada per uscire da un mondo del centrosinistra, popolato di ex e di post, come ha ben compreso Prodi quando ha lanciato la proposta della Casa dei riformisti, è rimescolare le carte: l’Ulivo è l’occasione strategica che si presenta e che, innanzi tutto, la sinistra deve saper afferrare.

 

2. Non penso che si debba ragionare in termini di «rinunce», ma comprendo lo spirito della domanda perché so bene che cosa sia per un partito la sua piena autonomia di decisione. Per quanto ci riguarda, conosco quanti sacrifici e quante difficoltà abbiamo dovuto affrontare per mantenere autonomo il nostro partito socialista e collocarlo nella sinistra italiana, dove è nato e dove è sempre stato. L’autonomia, però, per noi non è un feticcio, ma uno strumento politico. Sono, quindi, d’accordo: all’Ulivo si devono cedere quote di sovranità, che appartengono ai propri rispettivi partiti. In piena sintonia con l’associazione Artemide, sosteniamo che nell’Ulivo si possano prendere decisioni a maggioranza, almeno su alcuni temi principali, senza che vi sia più «diritto di veto» da parte dei segretari di partito e lasciando ovviamente libera espressione al dissenso individuale che è un diritto inalienabile (penso a casi di coscienza su gravi questioni come la guerra o la libertà). Oggi il centrosinistra prende, sotto l’incalzare degli eventi, nelle aule parlamentari decisioni politiche rilevanti, spesso in modo improvvisato e senza una consultazione democratica, e tanto meno si pensa di far decidere l’assemblea dei deputati e quella dei senatori dell’Ulivo. Su alcune scelte di fondo, invece di affidarsi a mediazioni che in questi casi sono paralizzanti, si potrebbero chiamare i parlamentari dell’Ulivo a decidere.

È del tutto realistico che questa crescita del ruolo dell’Ulivo rispetto ai partiti si sviluppi con una politica di piccoli passi, magari – come si dice – sulla scorta del modello europeo. Certo, via via che il processo di unità dell’Ulivo va avanti, si pone il problema di chi decide sui temi sui quali non decidono più le segreterie dei partiti o, comunque, i partiti. La soluzione migliore sarebbe che lo facessero insieme tutti coloro che singolarmente ne fanno parte, ma mi rendo ben conto che ciò comporterebbe un tesseramento dell’Ulivo, sia pure parallelo a quello degli attuali partiti, e che ciò sarebbe una fuga in avanti. Certo, sono convinto che a questo obiettivo si dovrà arrivare, ma per ora bisogna trovare altre soluzioni di tipo intermedio. Io non ne vedo altra se non quella di conferire il potere di decisione ad ogni livello agli eletti. Solo così si riuscirebbero a individuare immediatamente platee di delegati, ben definite, in grado di assumere decisioni anche a maggioranza.

In fondo, la proposta formulata da Artemide di eleggere a scrutinio segreto, sia alla Camera sia al Senato, port a voce unici dell’Ulivo, contiene una soluzione efficace al quesito «a chi consegnare il potere sottratto ai partiti?»: la risposta è agli eletti, appunto, che hanno un forte grado di legittimazione. Se, a cascata, in ogni assemblea elettiva (comuni, province, regioni) si arrivasse all’elezione di portavoce unici, l’Ulivo come progetto prenderebbe davvero corpo. Non sarebbero i gruppi parlamentari o consiliari unici, che non sono – per dirlo con una formula – in programma. Sa remmo ben distanti dal configurare un partito unico dell’Ulivo. Tuttavia, si ricomincerebbero a rimescolare le carte e a disegnare una nuova geografia del centrosinistra, rivolta più al futuro che al passato. Vorrei proprio vedere che cosa accadrebbe. Tutti, proprio tutti, sarebbero per sempre legati alle gabbie ideologiche da cui provengono? Bisogna rompere l’incantesimo che ci fa diversi solo perché siamo stati diversi. Discutiamo sui singoli temi e decidiamo insieme a maggioranza su che cosa dobbiamo fare. Forse, scopriremmo che l’Ulivo si può fare solo con alcuni e non con altri; o, forse, scopriremmo che possiamo stare insieme con chi non avremmo mai pensato di poter stare insieme. Questo significa l’Ulivo: superare partiti postdatati. Ecco perché bisogna capire chi vuole costruire un nuovo soggetto politico e chi, invece, è solo un alleato.

 

3. Il terreno delle elezioni europee viene considerato – e non a torto – il più difficile per affermare una maggiore coesione dell’Ulivo (proporzionale più preferenze). Quindi, è del tutto evidente che, se resterà l’attuale legge elettorale per il voto europeo, sarà molto difficile ipotizzare una lista unica dell’Ulivo, ma non credo che – comprese le difficoltà – vi si debba rinunciare in partenza. Se si ragiona sul passato ci si accorge che le aggregazioni non pagano in un sistema nel quale ci sono le preferenze (fallimento ampiamente previsto della lista Martinazzoli alle regionali del 2000), mentre la differenziazione delle liste nell’elezione della Camera dei Deputati non dà risultati apprezzabili, e difatti prende nello stesso giorno più voti l’Ulivo nel maggioritario – come si sa – delle liste del centrosinistra al proporzionale. Tuttavia, ciò che conta, più delle leggi elettorali, sono i processi politici. Il bipolarismo all’italiana non nasce dall’adozione del sistema elettorale maggioritario (bipolarismo e proporzionale coesistono nella maggior parte dei paesi europei occidentali), ma dalla fine dell’esclusione del PCI, dopo la caduta del Muro di Berlino, e di quella del MSI, dopo il collasso del sistema politico italiano.

Non credo, invece, che la divisione del centrosinistra in diverse famiglie europee sia l’ostacolo maggiore alla presentazione di una lista unica dell’Ulivo alle elezioni europee. La geografia politico-parlamentare dell’assemblea di Strasburgo non resterà per sempre la stessa. La trasformazione del Partito popolare europeo, da partito cristiano democratico a collettore di tutte le forze conservatrici, è destinata prima o poi a provocare profonde ripercussioni, innanzi tutto in Italia ma non solo in Italia. Spetta, in primo luogo, ai socialisti europei fare scelte che possano allargare, a cominciare dal Parlamento europeo, il campo: contribuire a creare un gruppo parlamentare a livello europeo, nel quale possano confluire tutti i riformisti che si oppongono al centrodestra. Non ci si può nascondere che questa scelta si muoverebbe oltre i confini tradizionali della socialdemocrazia. Il processo è lungo e, come si diceva una volta, contraddittorio. Quindi, non sottovaluto affatto le resistenze che si possono determinare. Le sconfitte subite dai partiti socialdemocratici rischiano di ritardare l’innovazione politica che è necessaria, perché provocano spesso sbandamenti a sinistra, che solitamente consentono, se non corretti in tempo, all’avversario di raddoppiare – o nei casi peggiori di triplicare o di quadruplicare – il tempo della propria presenza al governo.

In questo contesto l’Ulivo non rispecchia oggi gli schieramenti europei. Per evitare di rappresentare un’ennesima anomalia italiana, cosa che sarebbe negativa, l’elaborazione e l’evoluzione dell’Ulivo devono mantenersi in sintonia con la riflessione più ampia che è avvenuta e avviene a livello internazionale sul riformismo, sulla crescente convergenza tra socialdemocratici europei e democratici americani. Quindi, se si vuole una maggiore coesione dell’Ulivo anche alle elezioni europee, è necessario sviluppare un progetto strategico che si fondi su una cultura riformista molto innovativa.

 

4. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’Ulivo, se è il contenitore di tutti coloro che si oppongono al centrodestra, non potrà mai andare molto al di là di un’alleanza elettorale. Fino ad ora si è parlato molto più di contenitore che di contenuti. Questo approccio può avere una sua efficacia se la fisionomia dell’Ulivo resta definita entro confini riformisti (per intenderci meglio: da Prodi a Cofferati). Diviene, invece, fattore di confusione se si accetta la tesi che tutti possono stare (o restare) nell’Ulivo qualunque sia la propria identità. Ammesso, tuttavia, che debba valere anche per l’Ulivo quanto accade nei partiti socialdemocratici europei, nei quali sono presenti – pur in netta minoranza – correnti radicali ed estreme (ad eccezione di comunisti dichiarati), ciò significa che per non cadere nella paralisi devono essere prese decisioni a maggioranza.

L’«Ulivo federazione dei partiti» non è stato finora realizzato: ciò non è dovuto solo al fatto che ci sia nell’Ulivo un alto grado di eterogeneità politica ed ideologica, ma anche e soprattutto alla mancanza di un meccanismo di decisione a maggioranza, che non consenta alle minoranze (partiti o componenti di partito) di bloccare qualsiasi scelta. Bisogna, quindi, liberarsi dalla «dittatura delle minoranze» (Parisi). Certo, non ignoro che le resistenze hanno finora prevalso perché non si sono voluti forzare o rimettere in discussione gli equilibri tra i partiti o all’interno dei partiti. Il risultato è di fronte a tutti: il processo dell’Ulivo non va avanti. Per disincagliare l’Ulivo, bisogna ripartire dal valore strategico che esso può avere.

Ma, a chi dovrebbe interessare più di tutti l’«Ulivo federazione dei partiti»? Dovrebbe essere la sinistra riformista ad avere l’interesse più grande a perseguire la strategia dell’Ulivo. DS e SDI, uniti dal comune legame con l’Internazionale socialista e con il Partito del socialismo europeo, dovrebbero cercare di costruire un nuovo soggetto riformista che vada oltre i confini della sinistra storica italiana. I motivi per compiere questa scelta dovrebbero essere chiari. L’unità tra postcomunisti e socialisti è stata tentata ma non si è realizzata: prima c’è stato il fallimento politico ed elettorale della «Cosa 2» e, più recentemente dopo le elezioni politiche, c’è stato il mancato decollo della «Rosa socialista» con la leadership di Amato. Del resto l’unità della sinistra storica di tipo riformista, anche se si fosse realizzata positivamente – e sarebbe stato un fatto altamente positivo – su basi innovative, non sarebbe stata sufficiente a creare un grande partito socialdemocratico di tipo europeo, se non altro per mancanza di consensi. La sinistra storica in Italia ha sempre oscillato, prima del collasso del sistema politico degli anni Novanta, attorno ad una media del 40-45% di voti, con punte spesso più alte. Oggi, se consideriamo tutte le componenti della sinistra storica, ammesso che le si possa ancora mettere insieme, si arriva a mala pena al 25%.

Qualsiasi progetto volto a creare in Italia una nuova forza riformista, che assomigli a quelle socialdemocratiche di tipo europeo, deve necessariamente andare oltre i confini tradizionali della sinistra storica, se non vuole essere destinato a conseguire risultati mediocri e andare come alternativa di governo incontro ad inevitabili insuccessi. Qui, su questo terreno più ampio, la sinistra incontra l’Ulivo che nel suo complesso raccoglie nelle consultazioni di tipo maggioritario ed uninominale circa il 40-45% dei voti. Questa equivalenza quantitativa tra l’Ulivo di oggi e la sinistra di ieri parla chiaro: indica l’unico progetto riformista che la sinistra può realisticamente abbracciare per evitare di restare una forza senza capacità di leadership, a differenza di quelle degli altri paesi europei.

 

5. L’Ulivo deve avere una fisionomia, una struttura, un meccanismo di decisione e una leadership (non necessariamente coincidente con la candidatura a premier), che lo definisca come soggetto politico, prima di poter essere in grado di allargare le sue alleanze. Oggi siamo ancora ben lontani dall’aver raggiunto questo stato. Anzi, invece di andare avanti, si è rischiato di andare indietro con la crisi persino della leadership che c’è e che è quella formata da Rutelli e da Fassino. La discussione è diventata sofistica. In generale si dice e si ripete che l’Ulivo deve essere «qualche cosa di più» di una pura e semplice alleanza elettorale e «qualche cosa di meno» di un partito unico del centrosinistra. Fin qui, tutti sono d’accordo o abbastanza d’accordo, almeno a parole, ma una volta accettata questa definizione tutto resta come prima. Paradossalmente, soltanto se si assumessero come punti fondamentali di scelta gli estremi, partito o alleanza, il dibattito diverrebbe molto più chiaro. Non è detto che non bisognerà arrivare ad usare una lama tagliente per uscire da una confusione che negli ultimi tempi si è accresciuta. Per ora, è meglio non usare il rasoio perché il rischio è troppo alto: si può mandare all’aria tutto il progetto. Tuttavia, senza porre la questione del partito che oggi non è all’ordine del giorno, è necessario che venga chiarito se l’Ulivo deve essere un soggetto politico, per quanto federato e rispettoso delle diverse identità, oppure debba essere solo un’alleanza, sia pure strategica e permanente. Non ignoro che qualsiasi soggetto politico non può essere una pura e semplice somma di partiti, ma deve avere vincoli associativi che devono trovare la propria forza in principi e valori comuni. L’unico mastice che può unire – a mio giudizio – l’Ulivo è il riformismo. Senza una matrice comune, che comprenda vari tipi di riformismo, l’Ulivo rischia di diventare il puro richiamo retorico all’unità del centrosinistra e restare solo il simbolo dell’alleanza di governo contro la destra.

In mancanza di un grande partito socialdemocratico di tipo europeo, dovrebbe essere l’Ulivo a imprimere il segno politico e programmatico alla proposta di governo da fare al paese. Non mi nascondo dietro a un dito: penso che le posizioni riformiste, liberate dai condizionamenti interni dei singoli partiti, dovrebbero prevalere. L’Ulivo, una volta costruito, non è detto affatto che assomigli per collocazione e affinità politiche più al partito democratico americano rispetto ai partiti socialdemocratici europei. Innanzi tutto, se guardiamo ai DS e alla Margherita (non parlo dei Verdi e dei Comunisti Italiani) ci accorgiamo facilmente che le posizioni politiche delle due componenti maggiori dell’Ulivo coincidono spesso con quelle portate avanti dalle ali di sinistra della socialdemocrazia europea, al momento molto influenti in Francia e in Spagna. Non mi pare che ci sia alcun dubbio che la Margherita, che pure ha una matrice centrista, sia collocata – ad eccezione dei temi che riguardano la laicità e i diritti civili (e non è cosa di poco conto) – molto più a sinistra rispetto al New Labour o ai Democratici americani. Ciò accade senza dubbio perché gli steccati tra partito democratico e partito socialdemocratico sono in larga parte caduti dopo l’89. Ciò avviene, però, anche perché in Italia l’asse dell’Ulivo è più a sinistra di quello di molte socialdemocrazie europee. Se il dilemma tra l’essere democratici e l’essere socialdemocratici non riesce neppure più a farci capire chi sta più a sinistra o più al centro, allora ciò significa che questa distinzione sta perdendo sempre più il valore che aveva un tempo. Occorre, quindi, parla - re di scelte politiche e programmatiche, prima che di schemi ideologici e politologici, se vogliamo capire che cosa è l’Ulivo e quali sono gli alleati con i quali lo stesso Ulivo deve fare la sua proposta alternativa di governo.

 

6. L’Italia è il paese dei mille campanili. Chi si mettesse in testa di far calare dall’alto qualsiasi progetto politico, sia pure fosse il migliore, è destinato a trovare resistenze difficili da superare. Del resto il centrosinistra dà oggi il meglio di sé a livello regionale e locale. La necessità quotidiana di fare i conti con i problemi concreti dei cittadini è il primo fondamentale impulso al riformismo e il migliore antidoto al massimalismo. Il vizio fondamentale, in cui cade spesso la sinistra italiana quando è all’opposizione, è quello di subordinare le politiche pubbliche alle esigenze dell’alta politica, il machiavellismo, e a quelle della protesta e della piazza, il movimentismo. Su questo mix, machiavellismo più movimentismo, si fonda l’élitarismo di sinistra che si contrappone al populismo di destra, con esiti del confronto abbastanza scontati.

Ci si deve pur chiedere perché parte del centrosinistra italiano si riconosca ancora in forme di radicalismo: l’insofferenza per l’economia di mercato, il fastidio nei confronti del garantismo, la diffidenza verso le istituzioni e il «gioco» democratico e infine l’antiamericanismo. Sarebbe troppo facile ricondurre – e in parte è vero – questa specificità italiana al peso che hanno avuto nella nostra storia due culture molto importanti, come quella cattolica integralista e quella comunista, rimaste estranee al pensiero liberale. Il fenomeno, però, è oggi più complesso: ha radici lontane ma risente anche dei processi più recenti che hanno portato al collasso del vecchio sistema politico; è reazione alla violazione da parte di Berlusconi di regole e principi, che dovrebbero assicurare il pluralismo, a cominciare dall’informazione televisiva; è anche, però, espressione di modernità che si esprime attraverso nuove forme di rivolta individualistica delle classi medie colte. Non va demonizzato, ma va compreso.

Diventa un grave rischio per la sinistra riformista se essa si identifica con queste nuove forme di radicalismo, che oggi trovano il loro maggiore terreno di espressione nel campo della giustizia. Questo ultimo tema va chiarito, su di esso il confronto non va rifiutato. Un conto è, infatti, dire che «la giustizia è uguale per tutti»; un altro è inneggiare in piazza alla condanna del presidente del consiglio, con la speranza non troppo recondita di poter dare una spallata al governo di centrodestra. Un conto è difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura dalle gravissime interferenze del governo e contrastare duramente l’approvazione di leggi, fatte apposta per cambiare il quadro in cui si svolgono processi a carico di Berlusconi e di suoi collaboratori; un altro è applaudire la magistratura che si politicizza e che «è giusto» che lotti contro un governo, composto da «mafiosi e mascalzoni». Eppure, in queste distinzioni passa la differenza tra chi è per una democrazia liberale e chi per una «democrazia popolare». Accenno solo, infine, al fatto che gli alibi più consistenti a Berlusconi, per cercare di sottrarsi a giudici che egli ritiene faziosi e di parte, vengono proprio dai comportamenti di magistrati, come era quando era in funzione il dottor Borrelli, che «buttano in politica» il contenzioso giudiziario, che dovrebbe essere rigorosamente neutrale e imparziale.

Per contrastare efficacemente e democraticamente Berlusconi, non si può adottare il suo schema populista, ma è necessario contrapporgli un programma liberale e riformista. A Berlusconi non bisogna rispondere solo con una propaganda più efficace, ma con la capacità di chi sa dire «sì» e sa dire «no» alle diverse domande sociali, con la difesa della legalità senza farsi coinvolgere nei processi di piazza, con la proposta di politiche pubbliche concrete e realizzabili. Ecco, gli amministratori locali del centrosinistra sono un modello da seguire perché, almeno sulle materie di loro competenza, sanno dare risposte riformiste. Il fatto che il paese esprima più leadership e che ci siano forti contropoteri a livello locale e regionale è fondamentale per controbilanciare la verticalizzazione della politica. Tuttavia, tutto ciò non basta. Non solo deve essere ridefinito il ruolo delle assemblee elettive, ma occorre individuare nuovi canali di partecipazione. Io non credo che si possa sfuggire dalla «forma partito», che è predominante nei paesi europei occidentali, ma sicuramente ci si dovrà cimentare per creare strutture aperte, come speriamo che avrà la Federazione dell’Ulivo. L’Ulivo, quindi, non è la nuova anomalia, ma è forse lo strumento per liberarsi di vecchie anomalie che hanno fin troppo pesato sulla politica italiana. Ma l’Ulivo, date queste enormi difficoltà da superare, si farà davvero?

 

L'Ulivo secondo Oliviero Diliberto

1. L’Ulivo è oggi l’alleanza tra forze politiche diverse tra loro che hanno in comune un sistema di valori fondamentali, quello delineato nella Costituzione repubblicana, non a caso scritta insieme dalle forze provenienti dalla sinistra, dal cattolicesimo democratico e dal mondo laico-democratico. L’Ulivo è l’alleanza che si candida a governare sulla base di quei valori e di un progetto comune, sintesi delle opinioni delle diverse componenti, fondato su solidarietà, eguaglianza intesa nel senso dall’articolo tre della Costituzione, pari opportunità.

 

2. Ciascuna forza politica componente l’Ulivo deve ovviamente «cedere» qualcosa di sé. Il principio di decisione a maggioranza è già stato assunto dalla nostra coalizione, ma non può, né deve, diventare una gabbia: sarebbe veramente un paradosso che l’Ulivo riscoprisse oggi il principio del «centralismo democratico» (dopo un voto, tutti si debbono attenere alla linea prescelta)! L’Ulivo sceglie la propria linea a maggioranza, ma ciascuno deve potersi sentirsi libero di manifestare il proprio convincimento, anche attraverso il voto parlamentare. Ciò è utile all’Ulivo nel suo complesso, non solo ai singoli partiti che lo compongono. Se sulla guerra alcuni di noi non avessero assunto un orientamento diverso da quello della maggioranza dell’Ulivo, avremmo perso la capacità di essere interlocutori del vasto e importante movimento pacifista (non solo di sinistra, ma anche di tantissimi cattolici). L’obiettivo è quello di coinvolgere nell’Ulivo quanto più è possibile della società italiana e non, viceversa, quello di restringere e irreggimentare la nostra coalizione. La CdL ha vinto così: differenziando il proprio profilo con le diverse anime che la compongono, non parlando ad un solo segmento della società, ma cercando di allargarsi il più possibile. Non paga, a mio avviso, la «unicità», ma l’unità delle forze di ogni coalizione.

 

3. Le elezioni europee sono proporzionali. L’obiettivo è dunque quello che ciascuna forza politica possa presentarsi con il proprio simbolo, ma – magari – con un preambolo comune di adesione all’Ulivo. D’altro canto, le forze dell’Ulivo fanno parte di molti e diversi gruppi nel Parlamento europeo. Ciò è una ricchezza, non un impaccio. Le tradizioni politiche, culturali e ideali di ciascuno di noi sono diverse. Immaginare una reductio ad unum è velleitario: e, dunque, anche politicamente assai sbagliato.

 

4. Gli ostacoli sono nelle cose. L’Ulivo deve essere più unito, non vi è dubbio. L’unità è sentimento avvertito profondamente dal nostro popolo. È richiesta giusta, che va incoraggiata, sostenuta. E va sostenuta non solo alla vigilia del voto, ma durante tutta la legislatura: costruendo, ad esempio, coordinamenti permanenti dell’Ulivo nei singoli collegi. Ma ciò non vuol dire annullare le differenze che esistono tra noi: ci sono. È un dato della realtà. Occorre che esse non rappresentino un impaccio, ma un «valore aggiunto»: è il cimento di tutti noi nei prossimi anni. Ed occorre lavorare molto sui contenuti, le cose da fare: le differenze si attenuano quando si lavora ad un progetto comune e non ci si attarda su soluzioni di mera ingegneria organizzativa, che non appassionano affatto i nostri elettori e sono occasioni – come l’esperienza insegna – di ulteriori attriti tra gruppi dirigenti.

 

5. Le due cose vanno evidentemente di pari passo. A mio modo di vedere, l’Ulivo deve da subito allargarsi all’Italia dei valori di Di Pietro, con cui i punti di sintonia sono evidentemente già numerosi. Per quanto riguarda il PRC, occorre invece che da subito si stabilisca un’intesa per la gestione dell’attività di opposizione per costruire, non all’ultimo momento, una possibile piattaforma comune per le prossime elezioni.

 

6. Secondo me, occorrerà valutare caso per caso. Non c’è dubbio, infatti, che personalità autonome possono strappare successi insperati contro la destra (come è accaduto per le ultime elezioni amministrative). Ma non va alimentata alcuna becera propaganda anti-partito, che inevitabilmente conduce anche all’anti-politica. È un punto essenziale di ragionamento. Sull’anti-politica, Berlusconi ha prosperato ed ha vinto. La mediazione politica, dei partiti, resta fondamentale per lo sviluppo della democrazia nel nostro paese. Ben vengano, dunque, personalità autonome: ma spero non attraverso una sciocca e autolesionistica contrapposizione tra società civile e partiti, che farebbe solo il gioco dei nostri avversari.

 

L'Ulivo secondo Piero Fassino

Ad un anno dal 13 maggio la politica italiana è ad un passaggio cruciale. Fresco di una vittoria elettorale che gli aveva consegnato la guida del paese, Berlusconi nel settembre del 2001 annunciava «un nuovo miracolo italiano» e non erano pochi a preconizzare – chi con entusiasmo e speranza, chi con inquietudine e timore – l’avvio di un lungo ciclo di governo della destra in Italia. Concorreva a questa immagine anche lo stato di smarrimento in cui versava l’Ulivo, all’indomani di una sconfitta tanto più bruciante perché giunta al termine di cinque anni di governo che – sia pure con contraddizioni – aveva realizzato non pochi risultati positivi per l’Italia.

Le cose, oggi, sono assai diverse da quelle di un anno fa. Il centrodestra è in evidente affanno: l’economia ristagna e non solo in conseguenza della difficile congiuntura internazionale; le preannunciate «riforme» in ogni settore sono state archiviate; milioni di famiglie guardano con apprensione a misure che – dalla scuola al lavoro, dalla sanità alle politiche per gli anziani – accrescono i rischi di precarietà. Né minori inquietudini suscitano nell’opinione pubblica lo stravolgimento della giustizia, gli attacchi al pluralismo dell’informazione, le pulsioni antieuropee di Bossi e Tremonti. Anche il centrosinistra non è nella situazione di un anno fa: all’indomani del 13 maggio era piegato dalla sconfitta; oggi ha alle spalle mesi nei quali l’opposizione ha riorganizzato le sue fila, rimesso in campo forze, prodotto iniziative, movimenti, proposte.

Insomma: il centrodestra conosce un logoramento della sua credibilità; il centrosinistra ha avviato la fuoriuscita dal cono d’ombra della sconfitta. Un termometro di questo mutamento si è avuto con le elezioni amministrative del 26 maggio e del 9 giugno: un voto certo amministrativo, ma segnato da una generale crescita del centrosinistra – che ha vinto anche in città «difficili» – e dalla difficoltà del centrodestra a tenere insieme il blocco di interessi e aspettative coagulate nel voto di un anno fa. Qui e adesso, dunque, c’è l’esigenza di un salto di qualità, di un cambio di passo: serve un «nuovo Ulivo» capace di indicare una prospettiva di governo credibile e alternativa al centrodestra. Un «nuovo Ulivo» che, forte dell’esperienza di questi anni, superi i limiti e le contraddizioni che spesso hanno indebolito immagine e credibilità del centrosinistra.

Un «nuovo Ulivo» può nascere se è portatore di una proposta che parli al paese e indichi quale futuro il centrosinistra disegna per l’Italia. Non dimentichiamo che nel 1996 l’Ulivo nacque dall’incontro dei riformismi – quello della sinistra, quello cattolico-democratico, quello liberaldemocratico – e dalla convergenza con settori di borghesia imprenditoriale intorno al progetto di agganciare l’avvenire dell’Italia all’Europa come leva per una modernizzazione del paese che lo facesse uscire dalla fase critica degli anni Novanta.

Analogamente oggi si tratta di delineare un nuovo progetto di crescita e sviluppo, intorno a cui coagulare le migliori energie e offrire agli italiani un nuovo «patto di cittadinanza». Un progetto tanto più necessario di fronte alle crescenti difficoltà del centrodestra ad esprimere una guida politica dell’Italia adeguata. Sì, perché l’appannamento che conosce l’azione del governo Berlusconi non è solo frutto di «promesse mancate». È in realtà il progetto della destra che sta mostrando evidenti crepe. Un anno fa, infatti, Berlusconi vinse le elezioni perché riuscì a far passare nella testa di tanti italiani un’idea semplice, ma forte: «con noi – diceva la destra – ciascuno avrà più occasioni, più opportunità, più di quel che ha avuto finora».

Bene, ora si vede che quel patto non funziona. E per una ragione intrinseca e strutturale: non funziona l’idea ossessiva che per modernizzare l’Italia si debba abolire ogni regola, deprimere ogni principio di responsabilità civica e, soprattutto, che tutto ciò che è pubblico – sia esso la scuola, la sanità, le pensioni, le tasse o anche le leggi e le norme che regolano la vita di una società – sia inutile e debba essere destrutturato per essere sostituito dall’azione privata, dalla competizione individuale e dalle sole leggi della domanda e dell’offerta. Non è così: il mercato è straordinariamente capace – e per questo insostituibile – nel produrre e offrire una varietà immensa di merci e prodotti di uso individuale. Ma, come dimostra la crisi che scuote borse e mercati finanziari, il mercato ha bisogno di regole e – come ha ricordato un uomo certamente non insensibile alle esigenze del mercato come Alan Greenspan – anche di principi etici. E in ogni caso, quando si tratta di produrre beni pubblici e sociali – formazione, cura, assistenza a chi non è autosufficiente, ricerca di base, infrastrutture moderne, salvaguardia dell’habitat – la sola azione privata non ce la fa o, se ce la fa, impone costi così alti da rendere quei beni inaccessibili per molti cittadini.

Insomma: la destra propone in realtà una società di individui soli, in cui ciascuno è in competizione contro tutti. Chi è più forte, vince. Chi è più debole, soccombe. E la vita quotidiana di ognuno è più arida, più dura, più precaria. Un modello tanto più deleterio perché mette a rischio non solo diritti e condizioni dei singoli, ma anche la tenuta del paese che rischia una decadenza della sua competitività non giustificabile soltanto con la difficile congiuntura internazionale: la contrazione dell’export è superiore a quella degli altri paesi industriali, il minore tasso di crescita impedisce di accumulare la ricchezza necessaria agli investimenti, la ripresa di deficit e di indebitamento pubblico compromette il risanamento economico e l’aggancio dell’Italia all’Europa, la competitività delle imprese e del sistema si abbassa, i tagli drastici ai fondi per la ricerca e l’università comprimono la produzione di ricchezza sociale e sapere. È il futuro dell’Italia oggi a essere a rischio e per questo serve una guida politica consapevole delle proprie responsabilità. La destra dimostra di non essere in grado di assolvere a questa missione. E, dunque, tocca al centrosinistra esserne capace. Per questo obiettivo abbiamo bisogno di compiere scelte impegnative.

La prima. Serve un «programma comune» della coalizione che dica agli italiani come pensiamo il futuro dell’Italia nei nuovi scenari della globalizzazione e dell’integrazione europea. Come l’Italia concorre, tanto più dopo l’11 settembre, ad una pace e una sicurezza non fondate sulla inevitabilità della guerra. Come anche l’Italia ripensa i grandi temi della qualità dello sviluppo e della sua sostenibilità posti da Johannesburg. E come vogliamo contribuire ad un ruolo strategico dell’Europa, capace sia di sottrarre l’America alla tentazione dell’unilateralismo, sia di far sì che all’interdipendenza dei mercati si accompagni la globalizzazione dei diritti e della democrazia. E guardando all’Italia di oggi, come affrontiamo i grandi cambiamenti che hanno ridisegnato la demografia, il modo di lavorare, di produrre, di consumare, di competere, di soddisfare le esigenze collettive e individuali. Con quali tutele e diritti garantire che la flessibilità che ormai investe ogni aspetto dell’organizzazione sociale non si traduca in precarietà; come far sì che la multietnicità che sempre di più segna la nostra vita quotidiana sia vissuta come ricchezza e non con angoscia; come riorganizzare i tempi e le forme di organizzazione della società per far sì che l’allungamento della vita offra davvero a milioni di donne e di uomini l’opportunità di un’età libera. E ancora: con quali forme di socialità e di servizi accompagnare ciascuno nel suo percorso di vita, in ragione del fatto che nessuno, tanto più se debole, sia abbandonato a se stesso; in che modo sostenere le sfide della competitività e quale mercato del lavoro serve per accumulare le risorse necessarie ad una equa e maggiore redistribuzione di reddito, lavoro, opportunità. Su tutto questo dobbiamo dire agli italiani quel che il centrosinistra propone offrendo così ad ogni cittadino la possibilità di valutare la credibilità e la praticabilità del nostro progetto.

È un lavoro che peraltro non parte da zero. Già in questi mesi l’opposizione non si è limitata a erigere un muro di no. Sul lavoro non ci siamo limitati a contrastare le proposte del governo sull’articolo 18, ma abbiamo avanzato un corpo di proposte – la Carta dei Diritti per vecchi e nuovi lavori, la riforma degli ammortizzatori sociali, la riforma del processo del lavoro – che testimonia della volontà del centrosinistra di tenere insieme esigenze di flessibilità delle imprese con irrinunciabili diritti di chi lavora. E altrettante proposte l’Ulivo ha avanzato su sanità, scuola, ricerca. Così come unitariamente l’Ulivo, in vista della legge finanziaria, sta predisponendo una piattaforma di politica economica capace di offrire quelle prospettive di crescita che invece la politica di Tremonti ha inibito. Da qui, dunque, si può partire costituendo un «laboratorio progettuale» che avvalendosi di competenze, saperi ed esperienze consenta all’Ulivo di presentarsi non soltanto con proposte settoriali, ma con un vero «programma per l’Italia».

Nella costruzione di un nuovo Ulivo non si può prescindere dal carattere bipolare dell’assetto politicoistituzionale. Con le leggi elettorali approvate dal 1993 in poi, l’Italia ha abbandonato il sistema proporzionale puro e adottato un sistema a tendenza maggioritaria. Quando si va a votare per un sindaco, per un presidente di provincia, per un presidente di regione o per chi debba governare l’Italia, gli elettori scelgono tra due opzioni: l’una più progressista, l’altra più conservatrice. Centrosinistra e centrodestra, appunto. Dal che discende che vince chi è in grado di presentare agli elettori non solo le proposte più credibili, ma anche lo schieramento più largo e suscettibile di raccogliere i consensi più vasti. Per ogni forza politica è dunque decisivo essere parte di una coalizione, perché è la coalizione il soggetto della competizione per governare.

Al tempo stesso il nostro, è un sistema bipolare, ma non bipartitico. I soggetti del bipolarismo non sono due partiti, bensì due coalizioni di partiti. Non solo, ma le leggi elettorali con cui l’Italia è passata dal sistema proporzionale ad uno a tendenza maggioritaria hanno sancito anche legislativamente due livelli di rappresentanza: uno di coalizione, uno di partito. Infatti nelle elezioni comunali, provinciali e regionali gli elettori sono chiamati a votare per il sindaco o presidente della provincia o della regione come candidato di una coalizione; e a votare i consiglieri comunali, provinciali e regionali su liste di partito. E per la camera dei deputati ogni elettore riceve al momento del voto due schede: una per il collegio uninominale con cui si vota il candidato della coalizione; e una scheda per votare le liste di partito. Un sistema doppio, assai anomalo perché in generale in tutti i sistemi elettorali c’è un solo livello di rappresentanza: quello dei candidati dei partiti. È così dove c’è il maggioritario a doppio turno come in Francia, in Gran Bretagna dove vige un sistema maggioritario, in Spagna che ha un sistema proporzionale con premio di maggioranza, in Germania dove vige un sistema proporzionale a doppia chiave (50% eletti su lista, 50% in collegi). Ovunque simboli e candidati sono espressione dei partiti. In Italia al contrario abbiamo una parte degli eletti che sono espressione della coalizione e una parte dei partiti. Ed è questa una delle ragioni della difficoltà a dare un assetto stabile al sistema politico italiano. Come sciogliere, dunque, questo nodo?

Una soluzione può essere quella di trasformare le coalizioni in un partito unificando in unica nuova formazione politica i diversi partiti che costituiscono la coalizione. Insomma dar vita al Partito dell’Ulivo. Soluzione suggestiva, ma di assai difficile realizzazione, almeno nel breve periodo, e che in ogni caso non impedirebbe affatto che una volta formato il Partito dell’Ulivo, altre formazioni possano sorgere nell’ambito del centrosinistra.

Un’altra soluzione può essere adottare una legge elettorale che mantenendo il carattere maggioritario e bipolare del sistema superi l’equivoco del doppio livello di rappresentanza. Personalmente sono da tempo favorevole al sistema maggioritario a doppio turno, di tipo francese, che consente all’elettore di scegliere chi debba governare, al sistema di essere stabile e bipolare, ai partiti di non rinunciare alla loro identità.

Una terza soluzione consiste nel cercare di disegnare una architettura di tipo «federativo» che renda compatibili i due livelli. È l’obiettivo che si è proposto chi – come Giuliano Amato – propone che l’Ulivo adotti una architettura analoga a quella adottata in questi anni in Europa, dove convivono gli Stati nazionali con la loro sovranità e l’Unione europea con competenze, poteri e risorse proprie. In sostanza, dice Amato, consideriamo i partiti come gli Stati nazionali e l’Ulivo come l’Unione. E diamoci un assetto analogo: un gruppo di personalità – indicate dai partiti, ma senza incarichi diretti di partito – svolga lo stesso ruolo che a Bruxelles ha la Commissione; e poi ci sia il Consiglio dei segretari di partito analogamente al Consiglio europeo in cui siedano i capi di governo che esaminano discutono e approvano, o rigettano, le proposte della Commissione. È un’ipotesi suggestiva che può reggere però solo se è chiaro quale è il rapporto tra i due organi, onde evitare l’insorgere immediato di conflitti di competenze e di funzioni che ci riporterebbero alla fragilità che l’Ulivo ha conosciuto fino ad oggi. In ogni caso se l’Ulivo non deve essere solo una somma di partiti, occorre che abbia una propria soggettività politica, con un duplice processo, dal basso e dall’alto. Dal basso, è tempo di radicare in ogni collegio elettorale l’Ulivo, quale sede e luogo per l’unità della coalizione nel territorio. Dall’alto, dotando l’Ulivo di quegli strumenti che consentano alla coalizione di essere percepita e di vivere come tale: un programma che dica come pensiamo il futuro dell’Italia; un gruppo dirigente che si avvalga delle più significative personalità politiche, sociali e istituzionali che fanno riferimento al centrosinistra; uno statuto e regole di vita che non siano fondate solo sul consenso unanime; ambiti di competenze e di sovranità conferiti dai partiti; risorse finanziarie proprie. E in tale ambito vanno collocate anche forme di rappresentanza istituzionale – assemblee periodiche dei parlamentari dell’Ulivo, Conferenza dei presidenti dei gruppi dell’opposizione, coordinatori unici per camera e senato – che consentano al centrosinistra maggiore incisività e univocità di indirizzi e di iniziativa. Sono scelte essenziali sia per aprire l’Ulivo a nuove forze – dal movimento di Di Pietro a quelle liste civiche e formazioni locali che in misura rilevante hanno contribuito al successo elettorale di tre mesi fa – sia per ricreare con Rifondazione Comunista le intese possibili e necessarie ad uno schieramento alternativo largo e unito, sia per stabilire un rapporto proficuo tra coalizione politica e movimenti sociali e civici.

La costruzione di un nuovo Ulivo non si esaurisce tuttavia nel rapporto tra coalizione e partiti che la compongono. La rappresentanza politica non si esprime solo attraverso i partiti e sempre più spesso maturano nella società e nell’opinione pubblica movimenti che danno voce a inquietudini, istanze, domande, aspettative dei cittadini. Lo si è visto proprio in questi mesi, laddove settori significativi della società italiana – dal movimento sindacale ai «girotondi» – si sono resi visibili con iniziative di forte adesione. Compito dell’Ulivo è interloquire con queste espressioni sociali e culturali, raccoglierne le domande, dare loro sbocco con proposte politiche adeguate. Ciò è tanto più necessario in un quadro parlamentare che – grazie all’ampio numero di seggi in più di cui l’attuale maggioranza dispone – consente al centrodestra di approvare qualsiasi provvedimento, anche i più scandalosi. Una tale situazione non si sconfigge proclamando propagandisticamente l’«ostruzionismo su tutto», né tantomeno bollando come «illegale» una maggioranza che, per quanto non piaccia, trae legittimità da un voto. La vera leva di un’opposizione che voglia diventare maggioranza è la capacità di costruire alleanze intorno alle sue proposte, realizzando così quell’accreditamento nel paese che isoli il centrodestra, ne logori la credibilità e sposti il consenso dei cittadini verso il centrosinistra.

Strategico diventa, dunque, come il centrosinistra allarga i suoi consensi non soltanto rassicurando e confermando la fiducia di chi si è già affidato a noi, ma al tempo stesso conquistando anche chi un anno fa si è affidato a Berlusconi e oggi è disposto ad ascoltare un centrosinistra che appaia credibile. Ed è una sfida per cui c’è bisogno di tutti, senza inutili rivendicazioni di primogenitura. E se i partiti devono guardarsi dalla presunzione dell’autosufficienza, ascoltando e assumendo ciò che i movimenti esprimono, è altrettanto vero che i partiti sono la forma democratica con cui i cittadini si organizzano e la loro legittimazione deriva dal consenso elettorale che raccolgono. Contrapporre i movimenti ai partiti o pensare che per costruire qualcosa di nuovo e vincente si debba delegittimare il centrosinistra che c’è, non porta lontano. E in ogni caso è responsabilità di tutti coloro che hanno un ruolo di direzione – sia nei partiti sia nei movimenti – non deludere quella domanda pressante di «unità» che viene da tutti coloro che vogliono essere rappresentati dal centrosinistra.

Un programma comune, un nuovo assetto della coalizione, un forte rapporto con la società: intorno a queste scelte può e deve nascere il «nuovo Ulivo». E per questo progetto i Democratici di Sinistra – consapevoli di quanto sia importante una forte sinistra riformista per un centrosinistra vincente – intendono mettere a disposizione la loro forza e la loro passione unitaria.

 

L'Ulivo secondo Alfonso Pecoraro Scanio

1. L’Ulivo è una coalizione stabile basata su un programma di governo comune che unisce partiti e movimenti di centro, di sinistra, Verdi e civici, ovvero le forze politiche che in Europa stanno nei gruppi politici del centro (PPE e liberaldemocratici), di sinistra (PSE e comunisti) e nel gruppo Verde e regionalista. Occorre quindi superare definitivamente una vecchia visione a due (centro+sinistra) che sembra l’eredità del vecchio rapporto DC/PCI. Una coalizione stabile non è quindi né una sommatoria occasionale di partiti per un accordo elettorale né tanto meno un partito unico, esperienza ormai in crisi nelle varie democrazie. Chi ha in mente queste due prospettive danneggia il progetto dell’Ulivo e del centrosinistra di ridiventare maggioranza di governo in Italia. L’Ulivo, inteso come accordo elettorale, è troppo labile e risulterebbe inaffidabile per il governo; il partito unico servirebbe magari a chi vede in crisi le proprie vecchie ideologie e lo usa come scorciatoia per non rimettersi in discussione, ma rappresenterebbe quell’Ulivo bonsai incapace di allargare la propria area di consenso e quindi minoritario.

 

2. Come Verdi abbiamo già fatto le nostre rinunce dal 1996, pagando un forte prezzo nel voto proporzionale alla libertà di schieramento, e i nostri congressi e consigli federali hanno ribadito la disponibilità a concordare regole per pervenire a decisioni comuni. Lo stesso principio di maggioranza va applicato su una base ampia, ovvero tra gli elettori dell’Ulivo, e non può diventare «dittatura della maggioranza». Occorre cultura istituzionale: se si parla di federazione dell’Ulivo, le decisioni a maggioranza possono essere prese non dove si vota a corpo, ovvero in rappresentanza dei soggetti federati, ma dove votano le singole persone, oppure gli elettori ed i sostenitori dell’Ulivo che dovrebbero essere interpellati anche su decisioni politiche e non solo sulla scelta delle persone.

 

3. I Verdi sono una forza europea e presenteranno un unico programma in tutti i quindici paesi dell’UE. per vincolare gli eletti nell’Europarlamento. Proporrò ai rappresentanti della sinistra e del centro di concordare alcuni punti comuni per gli impegni del futuro Europarlamento. Si può pensare ad un’intesa tra i vari riformisti e riformatori europei, ma deve avere un carattere chiaramente alternativo alle politiche delle destre ed al liberismo selvaggio che guida l’attuale globalizzazione.

 

4. I primi ostacoli sono le ambizioni individuali ed il rischio che questo sistema maggioritario all’italiana, senza primarie e senza una legge che regoli la democrazia nei partiti, stia spesso selezionando un ceto politico senza consenso. Lo stesso Ulivo è sovente visto come occasione per essere eletti perché catapultati in qualche collegio elettorale e quindi più accreditati a qualche tavolo o in qualche conventicola romana, anziché tra i cittadini italiani. Non è un caso che anche nel centrosinistra trovi ascolto l’ipotesi di ridurre la possibilità di scelta dei cittadini utilizzando liste bloccate decise dalle segreterie dei partiti, senza nemmeno quelle regole che in altri paesi, dando potere agli iscritti, consentono almeno una più ampia consultazione. L’Ulivo potrà diventare una federazione se si metteranno al centro i valori e le iniziative concrete, non lasciandosi condizionare dalle varie aspettative di collocazione personale.

 

5. Occorre procedere contemporaneamente ad allargare l’Ulivo a tutte le forze politiche e civiche che vogliono condividere un programma di governo e nello stesso tempo costruire una alleanza possibile con chi resta fuori dall’ Ulivo. Pensare prima al rafforzamento rischia di aumentare quella presunzione di autosufficienza, quel gravissimo errore di presunzione ed arroganza, che insieme ad altri irrigidimenti ha regalato a Berlusconi la vittoria del 13 maggio. Errare è umano, perseverare sarebbe diabolico ed anche demenziale.

 

6. Le esperienze locali dicono più cose: che solo la coalizione larga vince, l’Ulivo può dare un valore aggiunto se ci sono liste di partito autorevoli ed uno schieramento vasto, mentre le liste unitarie dell’Ulivo, salvo nei piccoli comuni, prendono molti meno voti di quelle dei partiti, e quindi occorre questa sinergia. Per quanto