L'hilaritas di Francesco

Di Padre Orlando Todisco Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

È possibile amare senza possedere ciò che si ama? È la sfida del messaggio. Il povero – egli diceva – è colui che non ha nulla e tuttavia possiede tutto. Egli non abbandona ma ritrova le creature; non le spiritualizza per amarle né le ama perché già redente; non ama alcune disprezzando o trascurando altre. Le ama tutte, perfino le creature inanimate, e vuole che tutte siano motivo di lode all’artefice. Il francescano non si sente «smarrito negli spazi infiniti» di Pascal né in esilio. Egli vive tra fratelli e sorelle. È a casa, per questo ha tutto senza possedere nulla, e cioè ama senza possedere, perché nulla gli è sottratto e a nulla si sottrae. Tutto ritorna, finanche la sofferenza, l’angoscia.

 

È possibile amare senza possedere ciò che si ama? È la sfida del messaggio. Il povero – egli diceva – è colui che non ha nulla e tuttavia possiede tutto. Egli non abbandona ma ritrova le creature; non le spiritualizza per amarle né le ama perché già redente; non ama alcune disprezzando o trascurando altre. Le ama tutte, perfino le creature inanimate, e vuole che tutte siano motivo di lode all’artefice. Il francescano non si sente «smarrito negli spazi infiniti» di Pascal né in esilio. Egli vive tra fratelli e sorelle. È a casa, per questo ha tutto senza possedere nulla, e cioè ama senza possedere, perché nulla gli è sottratto e a nulla si sottrae. Tutto ritorna, finanche la sofferenza, l’angoscia. L’hilaritas francescana non le elimina, perché non è il loro opposto, non è odio contro il dolore, perché se fosse odio non sarebbe più hilaritas. Sereno è colui che mostra chiaramente, in verità, la sua angoscia, il suo lutto, la sua inquietudine, senza veli. Tutto torna a Francesco, anche le più profonde sofferenze.

Questa comunione è interrotta dall’esaltazione del proprio Io (individuo, gruppo, nazione), rispetto a cui le creature sono oltrepassate, ritenute funzionali a qualcos’altro, non fratelli o sorelle o madre. Il pio che non porta con sé le creature e il peccatore, che le subordina ai suoi fini, sono presi dalla stessa logica, così come in quest’ottica grazia e peccato non sono in contrasto, perché espressione di potere, non di comunione. E una volta disfrenato, il potere si rivela smisurato e dunque irrazionale e distruttivo, come ha dimostrato Girard. La comunione non è senza potere, ma qui è il potere dell’amore, che amplia gli spazi dell’esistenza per rendere gioiosa la convivenza. La riconciliazione tra gli uomini non può aver luogo senza la riconciliazione con le creature, altrimenti è destinata a esplodere, sopraffatta dall’interesse di alcuni a detrimento di altri (gruppo, comunità, nazione). L’amore è creativo se non è possessivo. Ma è realisticamente proponibile?

I francescani lo hanno testimoniato. A livello sociale ricordo l’iniziativa dei «monti di pietà» che a partire dal 1462 si diffusero a macchia d’olio, segno inequivocabile della forza transideologica della proposta. Anche se vivevano d’elemosina, essi non proponevano l’elemosina che aiuta a sopravvivere ma non a produrre, bensì credito a condizioni sostenibili per i soggetti economicamente deboli e socialmente creativi. Ecco la grande idea, espressione del loro più grande amore per la pari dignità degli uomini e per quella crescita sociale che sia a un tempo anche morale. Si è fuori dal dilemma «denaro o salvezza» e a favore della congiunzione «denaro e salvezza». Modus ingeniosissimus ad efficiendum pauperes bonos cives, perché impediva che chi era nel bisogno cadesse nella disperazione e dunque nell’abiezione morale. La crescita riguarda tutti. La giustizia o è universale o è copertura di una più profonda ingiustizia. Ma quale la condizione perché la giustizia sia universale o divenga universale? Ecco, la risposta francescana: la giustizia diventa universale se nasce all’interno della carità o amore di comunione. È questa, la carità teologica, lo spazio ideale entro cui la giustizia dimostra la sua forza universalizzante. Non dunque carità e giustizia, ma giustizia entro la carità.

Il che non significa che la politica sia al carro della religione o viceversa. La subordinazione non appartiene al vocabolario francescano, perché frutto della cupiditas dominando e dunque agli antipodi della povertà, intesa come amore senza possesso. La religione che si fa politica non è meno possessiva della politica che si fa religione. Una cosa è la religione, un’altra la politica. Ora, tale dualità è in via di estinzione sia in Occidente sia in Oriente, entrambi segnati da una profonda, anche se dissimulata, ansia possessiva. Infatti l’Occidente nazionalista e secolarizzato non sta consumando valori e credenze religiose, provocando smarrimento ed effetti di violento sradicamento, invadendo il campo, proprio della religione, e cioè erodendolo? Non è necessario che esso riprenda quella tradizione che ha visto in passato affermarsi quel «diritto naturale egualitario», anima segreta del costituzionalismo europeo come traduzione dei princìpi provenienti dalle grandi religioni universali? Non è forse ora che esso dia vita a una vera e propria scienza delle religioni, delle tradizioni, dei costumi, dei linguaggi di un popolo, per valorizzarne i contenuti o comunque per non approntare una legislazione che ne sia la mortificazione?

Dall’altra parte, non deve l’Oriente recuperare l’autonomia e lo spessore della politica, votata alla crescita culturale ed economica dei cittadini, in ossequio all’idea, iscritta nel codice della stessa religione e che costituisce l’idea minimale ma luminosa di Francesco, secondo cui si è al mondo non per punizione né a caso, ma per dono divino, perché l’esistenza sia plurale e festosa? Liberandosi da questa specifica cupido dominando, l’Oriente deve porre mano alla coordinazione, o forse alla comunione tra le molte forme di vita, non alla loro subordinazione né tantomeno alla loro mortificazione. L’impegno a dilatare gli spazi dell’esistenza, elevandone la qualità, è forse il banco di prova della lettura francescana dell’esistenza.