Una laicità incompiuta

Di Paolo Naso Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

La religione è tornata prepotente sulla scena pubblica. Questo il dato che pone una serie di interrogativi sia ai credenti delle diverse tradizioni di fede, sia ai laici. La «cifra» di questo nuovo protagonismo della religione è infatti ambigua. Da una parte,  infatti, si configura come recupero di valori profondi che innervano grandi fenomeni sociali come il volontariato, i movimenti pacifisti e per la giustizia globale, i gruppi di rinnovamento spirituale. Dall’altra, però, la cosiddetta «rivincita di Dio» mostra anche il volto del fondamentalismo, del radicalismo politico e dell’intolleranza di chi si sente portatore di verità esclusive inconciliabili con altri modi di pensare e di comportarsi. Sia che le si considerino due facce della stessa medaglia o che siano recepiti come fenomeni contraddittori ed antagonisti, l’uno e l’altro smentiscono ogni ipotesi di morte della religione e di eclissi del sacro. «Marx è morto, noi non ci sentiamo molto bene, ma Dio non è morto», potremmo dire parafrasando Woody Allen.

 

La religione è tornata prepotente sulla scena pubblica. Questo il dato che pone una serie di interrogativi sia ai credenti delle diverse tradizioni di fede, sia ai laici. La «cifra» di questo nuovo protagonismo della religione è infatti ambigua. Da una parte,  infatti, si configura come recupero di valori profondi che innervano grandi fenomeni sociali come il volontariato, i movimenti pacifisti e per la giustizia globale, i gruppi di rinnovamento spirituale. Dall’altra, però, la cosiddetta «rivincita di Dio» mostra anche il volto del fondamentalismo, del radicalismo politico e dell’intolleranza di chi si sente portatore di verità esclusive inconciliabili con altri modi di pensare e di comportarsi. Sia che le si considerino due facce della stessa medaglia o che siano recepiti come fenomeni contraddittori ed antagonisti, l’uno e l’altro smentiscono ogni ipotesi di morte della religione e di eclissi del sacro. «Marx è morto, noi non ci sentiamo molto bene, ma Dio non è morto», potremmo dire parafrasando Woody Allen.

Ma qual è lo spazio della religione nelle moderne società pluraliste? Come è possibile costruire paradigmi di convivenza tra diverse identità culturali e spirituali nell’ambito di valori comuni e condivisi? Come opporsi alla deriva fondamentalista e radicale che segna un numero crescente di conflitti dall’Africa all’Asia, dal Medio Oriente ai Balcani? In genere si parte dal presupposto che ogni moderna società democratica e pluralista si basa su un principio di laicità. Storicamente è vero: dopo l’idea filosofica della tolleranza, fu quel principio a indicare una via d’uscita alle guerre di religione che segnarono l’Europa del Seicento e del Settecento. La sua applicazione più rilevante fu quella separazione tra Chiesa e Stato che tutti giudichiamo un architrave della modernità. Se questo principio è chiaro e univoco, in realtà negli stessi paesi dell’Occidente democratico esso ha avuto applicazioni diverse: in un paese «laico» come il Regno Unito la regina è anche il capo della «Chiesa stabilita»; in Francia è vietata l’esposizione di simboli religiosi negli spazi pubblici; negli Stati Uniti vige il più rigido sistema di separazione tra Chiesa e Stato ma non c’è manifestazione pubblica in cui non si invochi Dio, con i suoi diversi nomi; in Italia un articolo costituzionale stabilisce la particolarità dei rapporti tra lo Stato ed il Vaticano ed un altro indica meccanismi giuridici di regolazione dei rapporti con le «confessioni diverse dalla cattolica». Insomma la via giuridica della laicità non è una; come non è certa la funzionalità dei principi di laicità posti a tutela della libertà di tutti di confessare la propria fede. Si prenda il caso italiano: ipotizzato che il sistema combinato degli articoli 7 (Concordato) e 8 (Intese con le confessioni non cattoliche) della Costituzione stabilisca principi di laicità, possiamo descrivere la nostra società come compiutamente «laica»? Non mi pare. La presenza di un insegnamento religioso confessionale nella scuola pubblica, la mancanza di intese con consistenti comunità religiose come i Testimoni di Geova o i musulmani, l’attenzione esclusiva e a volte ossessiva che il sistema politico pone nei confronti di un’unica confessione di fede quando si affrontino delicate questioni etiche e morali (aborto, bioetica) sono indici di una laicità incompiuta e parziale.

D’altra parte, non pare che la situazione sia più semplice in società che sperimentano una laicità più rigorosa ed aggressiva, come ad esempio la Francia. Più di dieci anni fa il paese fu scosso dalla questione di alcune studentesse musulmane cui, in virtù del principio laico che vieta l’esposizione di simboli religiosi nelle sedi pubbliche, fu vietato di indossare l’ejiab, il foulard islamico. Ne seguì una fortunatamente incruenta «guerra di religione» in cui si confrontarono un principio radicale di laicità ed un diritto di espressione della propria identità. In Italia torna invece ciclicamente attuale e controverso, ad esempio, il problema dei crocefissi negli edifici pubblici; così come la richiesta di varie comunità di fede affinché nelle mense scolastiche si tenga conto dei propri principi alimentari. L’elenco continua con la questione relativa ai matrimoni, ai funerali, all’apertura di luoghi di culto e centri di preghiera. Sono problemi in gran parte posti dalla presenza in Italia di circa un milione di musulmani: ma a ben guardare la questione non è particolare, è generale e rimanda al principio democratico della libertà religiosa. Desta qualche preoccupazione, ad esempio, che le intese firmate dal governo D’Alema con la Congregazione dei Testimoni di Geova e con l’Unione Buddhista italiana giacciano da anni sepolte nel cassetto della Presidenza del Consiglio: si delinea infatti un’applicazione esclusiva e selettiva dell’articolo 8 della Costituzione che costituisce un’ulteriore conferma della parzialità nell’applicazione dei principi laici sanciti dalla Costituzione. Laicità zoppa, pluralismo incompiuto; pluralismo incompiuto, democrazia non matura, potremmo dire con una formula. Sarebbe interessante ragionare sulle cause della debolezza della cultura laica italiana: il massiccio radicamento della Chiesa cattolica non può essere l’unica spiegazione dal momento che alcuni settori del mondo cattolico sono i primi a denunciare la crisi nella partecipazione attiva alla vita della Chiesa. A ciò si riferisce la metafora del Cardinale Martini sull’esiguità dei credenti della «linfa» che non può essere compensata dall’abbondanza di quelli «delle foglie». I cattolici impegnati, in Italia, sono un «piccolo gregge» e la maggioranza sembra essere composta da quelli che Giovanni Bianchi, con una felice espressione, ha chiamato «gli atei devoti». Forse il problema è «a monte» e, come suggerivano Gobetti e Gramsci, sta in quella famosa «Riforma mancata» che tra luci ed ombre offrì a molti paesi dell’Europa l’opportunità di una modernizzazione culturale e rafforzò principi di autonomia, di libertà e di responsabilità dell’individuo.

Oggi, forse, è però più urgente cercare di capire quale possa essere la «nuova frontiera» della laicità di fronte al protagonismo delle religioni. È un lavoro lungo ed impegnativo, e mi chiedo se non si possa individuare un percorso nel passaggio da una «laicità per sottrazione» ad una «per addizione»; se cioè la vera prospettiva del pensiero moderno, critico e «tollerante» della laicità non sia proprio l’assunzione della complessità delle identità culturali e spirituali e delle risposte che esse offrono alle grandi domande dell’esistenza. Uno spirito laico, in questa linea, non dovrebbe tendere a «sottrarre» visibilità e spazio alle religioni ma a collocarle in un quadro di pluralismo e di garanzia per tutti, anche per i non credenti. Per usare una metafora, laicità allora non è un muro vuoto ma un muro «libero» nel quale si possano esporre simboli diversi ed incongruenti. Ma le acque dell’oceano della religione non sono più calme e rassicuranti. Nel mondo oggi si combattono all’incirca sessanta conflitti: di questi almeno trenta presentano implicazioni anche di tipo religioso. La teoria dello scontro di civiltà pretenderebbe che tutti fossero tra «Occidente democratico» e mondo «arabo islamico». In realtà così non è: le frontiere del conflitto religioso sono assai diverse e corrono anche tra diverse confessioni cristiane, tra induisti e musulmani, tra diverse tendenze musulmane, e riguardano anche ebrei, buddhisti, animisti, sikh e così via. Il fondamentalismo e il radicalismo religioso, in altre parole, affliggono tutte le grandi comunità di fede. Viene da dire che il vero scontro non è tra le civiltà ma all’interno di esse: oggi esiste un Islam moderato che si scontra con uno radicale, come accade nell’ebraismo o nel cristianesimo. Anche qui, nell’ambito della più grande comunità di fede del mondo si assiste ad uno scontro tra modelli teologici e sociali esclusivi ed altri invece orientati all’incontro e all’accoglienza: accade nel mondo cattolico così come nel grande protestantesimo americano. La tendenza delle religioni è stata quella di espungere da sé le espressioni radicali e violente per rifugiarsi nella rassicurante convinzione che esse si pongono come vie di pace, e chi «uccide nel nome di Dio» si pone contro di esse e contro la volontà del Creatore.

È un meccanismo di autoassoluzione teologica che, negli ultimi anni, sta mostrando la sua inconsistenza. Gli esponenti delle fedi mondiali che in gennaio ad Assisi hanno affermato «mai più nel nome di Dio» hanno implicitamente assunto che il «male» delle religioni guerriere non è esterno a loro; cova al loro interno, si nutre delle loro stesse letture e della stessa tradizione. Per sconfiggerlo, allora, occorre avere il coraggio di guardare dentro di sé, nelle zone d’ombra della propria storia e della propria teologia. In termini cristiani si tratta di fare una «confessione di peccato» che riconosca come nel nome di Dio si siano compiuti delitti e violenze inqualificabili ai suoi occhi. Questa, mi pare, è la grande valenza – spirituale prima e politica dopo – di una prassi di dialogo interreligioso centrata sul primato della pace e della convivenza. Era una opportunità prima dell’11 settembre; è diventata un’urgente necessità a partire da quel giorno. La crisi di una certa idea di laicità e l’ambiguità del nuovo protagonismo delle religioni costituiscono le premesse per una nuova, feconda stagione di dialogo. Bisognerà ragionare sui «massimi principi», certo, ma soprattutto si dovrà individuare un’agenda comune su temi come la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato, il pluralismo nella scuola e nel sistema dell’informazione, la sfida della bioetica. È importante che ci si proponga a farlo allargando il cerchio del dialogo tra le religioni, e includendovi anche la voce laica. Meglio: cercando di collocarlo in una cornice laica. È un passaggio importante, che priva le religioni dell’illusione di essere le esclusive depositarie dei «valori» della convivenza e che ricorda ai laici come il pluralismo sia il primo prodotto della loro cultura e della loro storia. Un compiuto pluralismo resta pertanto un obiettivo essenziale di ogni autentica cultura laica.

Tutto questo si misura nell’azione concreta. Lo spiega bene un teologo romanziere, Shafique Keshavjee, che in un romanzo pubblicato da Einaudi intitolato Il re, il saggio e il buffone descrive le traversie di un monarca che deve decidere quale sia la migliore religione per il suo regno. Indice pertanto delle olimpiadi alle quali, in uno spirito di political correctness, invita anche «atleti» laici, estranei a ogni religione. Chi vince la medaglia d’oro? Nessuno, perché in omaggio al principio di laicità ciascuno deciderà per sé qual è la migliore religione e Dio, se esiste, è il solo a poterla assegnare. Quanto alla medaglia d’argento andrà «alla religione che avrà fatto più sforzi per comprendere a fondo e servire i fedeli delle altre».