Sconfittismo

Di Ida Dominijanni Giovedì 14 Giugno 2018 16:17 Stampa

Nel suo dizionario della lingua italiana Tullio De Mauro così definisce lo sconfittismo: «sentimento di delusione e disimpegno conseguente alla perdita di credibilità di una posizione politica o ideologica ». Se ne danno, nella storia italiana, svariati casi. Mario Isnenghi, ad esempio, ha parlato di sconfittismo per descrivere il senso della sconfitta incipiente che si impadronì delle classi dirigenti italiane prima del 25 luglio del 1943, spingendole a revocare non solo la fiducia che avevano malamente riposto nel fascismo ma anche l’investimento sulla nazione, per spostarlo sul nuovo ordine sovranazionale che si profilava all’uscita dalla seconda guerra mondiale. Alla sconfitta si aggiungeva così un sentimento misto di rinuncia, autogiustificazione e dismissione di responsabilità, da parte di chi pure ne aveva molte e pesanti. Lo sconfittismo è precisamente questo: un crogiolarsi nella sconfitta facendone un destino, invece di analizzarne le ragioni e assumersene le responsabilità.

Ma il termine deve la sua fortuna, nel linguaggio politico corrente, alla sua associazione con un atteggiamento psico-politico diffuso soprattutto nella sinistra, e sta a significare in questo caso un certo godimento della sconfitta, vissuta come fattore di autoriconoscimento e identificazione. Un atteggiamento paradossale, ma tutt’altro che inspiegabile. Se si ritiene che la marcatura della sinistra consista nell’essere contro, nello stare dalla parte del torto, è del tutto conseguente dedurne che essa sia destinata a essere sconfitta dall’ordine costituito: la sconfitta diventa anzi una conferma della sua ragion d’essere, della sua natura, della sua identità. Non per caso lo sconfittismo della sinistra si accompagna, tradizionalmente, a una enfatizzazione del potere del nemico, che si chiami capitalismo, Stato, repressione, sistema, o più di recente neoliberalismo, globalizzazione, finanziarizzazione: più forte è il nemico, più salda ne esce l’identità di chi, pur sconfitto, gli resiste. Siamo nei pressi di quelli che la filosofa americana Wendy Brown, in un saggio del 1993 che ha fatto scuola, definisce, con un lessico mutuato dalla psicoanalisi, wounded attachments: attaccamenti a una ferita che è costitutiva dell’identità dei subalterni e riaprendosi la riconferma. Un circolo vizioso dal quale è impossibile uscire senza un doppio detachment, una doppia presa di distanza: dalla propria fissazione identitaria e dai dispositivi del potere che la riproducono. Ci vuole, in altri termini, un doppio scatto critico, verso se stessi e verso il discorso dominante.

Si può dire che sia stato precisamente questo doppio scatto a mancare nella sinistra post 1989, obbligata dalla contingenza storica a confrontarsi, per tornare alla definizione di De Mauro, con una catastrofica perdita di credibilità della propria posizione politica e ideologica. A quella catastrofe la sinistra – italiana ma non solo italiana – ha reagito spaccandosi in due come una mela: schematizzando ma non troppo, fra chi è rimasto attaccato alla sua identità tradizionale e alla critica del sistema che essa comportava, e chi, abbandonando l’identità tradizionale, ha abbandonato anche qualunque critica del sistema. Nel trentennio che abbiamo alle spalle lo sconfittismo è stato uno spleen mai del tutto sopito nella prima metà della mela – la sinistra cosiddetta “antagonista” – mentre la seconda – quella cosiddetta “di governo” – ha sostituito il godimento della sconfitta con il godimento della vittoria: ma di una vittoria pagata al caro prezzo dell’interiorizzazione di tutti gli imperativi neoliberali. Da una parte perdere pur di rimanere se stessi, dall’altra perdere se stessi pur di vincere. In termini psicoanalitici, due diverse modalità di una mancata elaborazione del lutto, ovvero due diversi sintomi della stessa rimozione senza elaborazione della catastrofe di cui sopra.

Fra gli altri effetti delle elezioni italiane del 4 marzo scorso c’è un curioso cambiamento di questo quadro: nel silenzio inquietante – perfino più inquietante del risultato – seguito a una débâcle che ha travolto la sinistra tutta, di governo e di opposizione, moderata e radicale, lo sconfittismo ha cambiato profilo. Chi si aspettava una depressione coperta o lenita, come in passato, da complesse nonché verbose analisi della fase, del breve e del lungo periodo, della deriva verso il basso della politica italiana in epoca berlusconiana e della deriva verso il nulla della sinistra di governo in epoca post berlusconiana, del capitalismo globale, della scenario geopolitico, della condizione precaria di due generazioni che ci presentano il conto, del populismo e dei suoi segreti intrecci con il neoliberalismo, è rimasto a bocca asciutta: non uno di questi titoli è stato messo a tema dalle sigle ufficiali della sinistra e del centrosinistra, che si sono semplicemente e prodigiosamente auto-esentate da qualsivoglia analisi di una sconfitta per una volta effettivamente storica. Il PD renziano ha fatto di meglio: ha brandito la batosta come una clava, attribuendone neanche tanto sottilmente la colpa agli elettori e usandola come alibi di ferro per tenersi fuori dal gioco in un passaggio politico difficile e delicato che dipende largamente dalle scelte e dagli errori dello stesso PD nella legislatura passata. Qui, per ricorrere di nuovo al lessico psicoanalitico, dalla rimozione si passa alla negazione: della sconfitta, delle responsabilità che essa chiama in causa, nonché della realtà. La postura peggiore per tentare di risollevarsi e ripartire.