Le responsabilità sovranazionali del riformismo

Di Massimo D'Alema Venerdì 01 Febbraio 2002 02:00 Stampa

La globalizzazione – e gli interrogativie i problemi che da essa derivano – ha guadagnato in tempi recenti un rilievo prima sconosciuto. Forse era inevitabile alla luce di eventi – valga per tutti l’attacco terroristico all’America – che hanno rivoltato l’agenda politica mondiale e riproposto il primato della sicurezza nella cornice di un nuovo ordine globale. In questo senso il crollo delle Torri costringe davvero gli attori e le culture politiche a ripensare il proprio ruolo e molte delle loro strategie. L’intera campagna elettorale del presidente Bush, per citare l’esempio più evidente, è come evaporata insieme ai fumi delle macerie di New York e gli Stati Uniti, scossi nelle loro certezze, hanno impiegato una notte a liberarsi da quel programma di disimpegno sul piano internazionale che solo pochi mesi prima aveva sospinto i repubblicani verso la Casa Bianca.

 

La globalizzazione – e gli interrogativie i problemi che da essa derivano – ha guadagnato in tempi recenti un rilievo prima sconosciuto. Forse era inevitabile alla luce di eventi – valga per tutti l’attacco terroristico all’America – che hanno rivoltato l’agenda politica mondiale e riproposto il primato della sicurezza nella cornice di un nuovo ordine globale. In questo senso il crollo delle Torri costringe davvero gli attori e le culture politiche a ripensare il proprio ruolo e molte delle loro strategie. L’intera campagna elettorale del presidente Bush, per citare l’esempio più evidente, è come evaporata insieme ai fumi delle macerie di New York e gli Stati Uniti, scossi nelle loro certezze, hanno impiegato una notte a liberarsi da quel programma di disimpegno sul piano internazionale che solo pochi mesi prima aveva sospinto i repubblicani verso la Casa Bianca. A questo si aggiunga, in tempi ravvicinati, il precipitare della drammatica crisi argentina con l’emergere una volta di più del legame indissolubile tra sicurezza e sfera dei diritti sociali. Fatti diversi, certamente, ma che pure confermano come questi principi fondamentali vivono oggi una prospettiva e un destino comuni soltanto dentro uno scenario internazionale.

Ora, di fronte ad avvenimenti così complessi e traumatici, è utile tornare a interrogarsi sulle responsabilità del riformismo. Non tanto per riaffermare convinzioni oramai largamente condivise – la globalizzazione c’è e il problema è come la si governa – quanto per abbozzare quella «nostra» agenda di priorità che dovrebbe, allo stesso tempo, contrastare le risposte da destra e incalzare le nuove tendenze radicali che della lotta alla globalizzazione colgono alcuni tratti ma senza indicare una prospettiva storicamente e culturalmente praticabile.

Cerchiamo, in primo luogo, di fotografare il problema, la questione fondamentale, che ereditiamo dall’anno appena concluso. In buona sostanza si può riassumere in questo: a fronte di una crisi accelerata, e imprevista nei suoi caratteri, dei vecchi equilibri, l’azione politica internazionale – particolarmente sul versante che ci riguarda, quello del riformismo – fatica a forzare i confini degli Stati nazionali e dunque paga un prezzo di credibilità e di efficacia. Non parlerei di un deficit del riformismo sul piano dell’analisi. Non è questo il problema. Ciò che manca – e di cui si è sentita l’assenza soprattutto negli ultimi mesi – è un respiro strategico della nostra iniziativa politica internazionale. È un fatto che – nonostante le potenzialità di forum importanti che in questi anni abbiamo contribuito a rafforzare e rinnovare, come la stessa Internazionale socialista o in Europa il PSE – la dimensione globale è vissuta ancora, anche da noi, prevalentemente come dialogo, confronto culturale più che come azione politica, decisione, organizzazione di un movimento capace di oltrepassare i confini di un singolo paese. È un ritardo che pesa e che rende più difficile l’azione di contrasto tanto verso la lettura apologetica della globalizzazione, proiettata ad esaltare le virtù regolatrici del mercato, che nei confronti delle interpretazioni che a destra e a sinistra fanno della paura della globalizzazione una nuova bandiera.

Anche per questo il rafforzamento di un’iniziativa comune e coordinata delle forze riformiste rappresenta una delle priorità nella fase che si è aperta. E questo perché la crisi del vecchio ordine mondiale e il venir meno del ruolo che tradizionalmente gli Stati nazionali hanno svolto non solo ci interroga ma ci incalza a fissare obiettivi comuni in grado di condizionare le scelte dei singoli governi, quantomeno laddove a guidarli sono forze o coalizioni di centrosinistra, aggregando intorno a quelle priorità forti movimenti d’opinione e di impegno civile e politico. Questa, del resto – come la cronaca recente tende a dimostrare – è anche la strada per ricostruire il rapporto della sinistra con quella parte del mondo giovanile più sensibile ai temi della libertà individuale, dell’eguaglianza, della solidarietà. Ed è paradossale che proprio quando l’internazionalizzazione dei mercati, delle culture e dei linguaggi assume caratteri così pervasivi e inediti, la sinistra, per quanto memore delle sue antiche radici internazionaliste, si ritrovi incerta e apparentemente spiazzata. Esistono molte buone ragioni per sostenere che l’asimmetria tra una globalizzazione dei capitali, delle merci e del lavoro e quella delle istituzioni, dei diritti e della politica segnala la vera incognita e il pericolo maggiore del passaggio in atto. Ma tanto più questo richiede ai soggetti del riformismo – sul piano delle istituzioni sovranazionali come su quello della loro iniziativa politica – di attrezzarsi dal punto di vista organizzativo e culturale. Naturalmente non è una strada tracciata. E si possono intuire le difficoltà e gli ostacoli di un cammino che il futuro prossimo, con ogni probabilità, non renderà più lineare. Ciò non toglie che da lì bisogna passare. Dalla capacità della sinistra di affiancare a una cultura globale un’azione politica globale, fondando su questo binomio una rinnovata capacità attrattiva e una coesione interna che potrebbe condurre in tempi relativamente brevi a rafforzare ulteriormente i caratteri di un vero soggetto politico sovranazionale. Perché negare, ad esempio, che un grande partito moderno del socialismo europeo, quale quello che stiamo costruendo, possa a breve costituire un punto di riferimento essenziale – nche sotto il profilo della sua capacità di mobilitazione di milioni di persone – per quella parte dell’opinione pubblica più avveduta e sensibile verso i rischi e le potenzialità della globalizzazione?

La verità è che siamo parte di un processo storico accelerato e questo impone una visione coraggiosa e innovativa del nostro ruolo. La sinistra – in Europa e sulla scena internazionale – deve saper cogliere, prima e meglio di altri, una domanda di politica e una disponibilità alla partecipazione senza temere, così facendo, la perdita di qualche rendita di posizione. La sfida, verrebbe da dire, è politica, culturale e organizzativa al tempo stesso. Richiede prontezza nell’analisi, rapidità nelle risposte, efficacia dell’azione. Perché solo questo mix può garantire al riformismo un legame non strumentale con gli umori e gli orientamenti del suo insediamento sociale. In altre parole, bisogna muoversi in fretta se vogliamo che i soggetti politici del riformismo, di là da essere solo ed esclusivamente un’opzione elettorale e di governo, possano rappresentare, come nella migliore tradizione politica del Novecento, un riferimento culturale, ideale, e soprattutto politico. L’agenda dei temi e delle priorità, del resto, non confligge, anzi si può dire esalti questa opportunità. Il che, se per un verso circoscrive il profilo dell’azione, dall’altro responsabilizza maggiormente le leadership di una sinistra chiamata a una prova che l’incalzare degli eventi rende particolarmente impegnativa. Torna dunque l’interrogativo di fondo, e cioè di quale riformismo c’è bisogno.

Come abbiamo appena visto la premessa alla risposta è oggi nel legame irriducibile del riformismo con una dimensione europea e mondiale. Diciamo pure che senza questo vincolo l’azione della sinistra è destinata a seccarsi e a rifluire in un ambito provinciale. Soltanto attori e culture politiche sovranazionali – questo è il punto – posseggono le risorse per condizionare processi altrimenti affidati alle tendenze spontanee del mercato o, peggio, preda di nuovi e aggressivi fondamentalismi. In questo senso, e solo in questo senso, si può affermare che globalizzazione e terrorismo sono profondamente interdipendenti. Effettivamente, per molto tempo non pochi si sono illusi che la dimensione globale dell’economia portasse al mondo capitalistico soltanto vantaggi e benefici e non anche le drammatiche contraddizioni che sono davanti a noi. Come se un velo avesse offuscato la vista del processo nel suo insieme, privando – il che è persino più grave – le grandi culture politiche del vocabolario necessario a descrivere quegli eventi. In fondo non ha torto Benjamin Barber, ex autorevole consigliere di Clinton, quando denuncia una caduta in anni recenti delle nostre barriere critiche. «Se lo Stato – egli sostiene – invade la sfera delle libertà e dei diritti, parliamo di regime e dittatura; se è la religione a dettar legge, denunciamo i pericoli della teocrazia. Ma perché, allora, non siamo altrettanto allarmati quando è la logica del mercato a invadere tutto, a condizionare la nostra vita quotidiana e i nostri valori?». È del tutto evidente che una preoccupazione di questo genere non può giustificare in alcun modo una revanche di posizioni rozzamente antiliberali o stataliste. Ma non c’è dubbio, volendo completare la citazione, che «per anni il fondamentalismo del mercato ha indebolito la democrazia, attaccando il ruolo dello Stato e del potere pubblico», coltivando l’idea di un cittadino-consumatore, salvo scoprire sotto la spinta della paura che «il consumatore è un povero surrogato del cittadino, così come un imprenditore è un pessimo surrogato di uno statista». Parole da scolpire, tanto più in un paese come il nostro dove la realtà, sotto questo profilo, ha superato persino l’ipotesi teorica. Il punto è che la sola denuncia del pericolo in sé non è sufficiente. Dal momento che quel particolare liberismo non è stato solo un’ideologia dotata di una sua forza effettiva ma un vero e  proprio modello di capitalismo globalizzato via via sottratto al controllo delle singole comunità nazionali. In altre parole quel messaggio – il mercato e l’economia prima della politica e della democrazia – ha tratto efficacia dal combinarsi di una riduzione del ruolo e dell’autorità delle vecchie istituzioni nazionali e, al contempo, dall’assenza di qualcosa di nuovo in grado di colmare quel vuoto di potere e di decisione.

L’effetto è stato il ridursi della sfera della politica e il formarsi di oligarchie economiche e finanziarie libere, o quasi, da ogni controllo. Certo, è vero che tutto ciò ha consentito anche di esportare la produzione e il lavoro dove prima quelle opportunità non esistevano, ma sappiamo a quale prezzo sotto il profilo dei diritti civili e sociali. L’effetto è stato la nascita di un mercato del lavoro globale nel quale, dopo la caduta del muro di Berlino, sono entrate centinaia di milioni di persone. Il punto è che questo processo, combinato con una fortissima offensiva occidentale sul piano dell’offerta culturale, della comunicazione, di stili di vita apparentemente persuasivi e soprattutto in assenza di forme di regolazione e mediazione politica, ha innescato nuove conflittualità tra «ricchi» e «poveri» sino a forme di rigetto che hanno assunto i caratteri di una reazione radicale e violenta. Si può considerare un esito di questo genere il tributo necessario alla modernizzazione e ritenere che la soluzione al problema passi, non anche ma esclusivamente, da un braccio di forza militare.

Tuttavia, si tratta di una tesi perdente perché nei fatti priva della cultura e dei mezzi necessari a delineare un diverso ordine, e dunque un equilibrio capace di prevenire in futuro fenomeni analoghi. Diciamo pure che vi sono, tanto a destra che a sinistra, gli epigoni di una reazione non meno radicale del pericolo che vorrebbero contrastare. A destra quel liberismo sfrenato che della globalizzazione mira soltanto a cavalcare gli effetti e che, fintanto che ciò appare possibile, non esita a convivere e sfruttare l’altra destra, quella neonazionalista e fondamentalista che si contrappone nelle aree strategicamente rilevanti per l’Occidente ai gruppi progressisti e laici. Parli per tutti la biografia dell’inafferrabile Bin Laden. Ma anche a sinistra affiora una cultura radicale che contrappone alla globalizzazione semplicemente un rifiuto non sostenibile rispetto a una ragionevole visione della storia.

Ritengo questo elemento – anche per l’ampiezza e la vitalità dimostrate dal movimento no-global in Italia e in Europa – un punto da approfondire in un confronto diretto con quelle esperienze. E lo dico soprattutto perché continuo a pensare che anche un approccio così velleitario sia in fondo espressione di un bisogno irrisolto di democrazia e di politica. Proprio per questo, compito e ruolo della sinistra riformista non può essere accodarsi ai cortei degli anti-globalizzatori. Il nostro problema è offrire una risposta razionale, e culturalmente attendibile, agli interrogativi che quelle mobilitazioni fanno emergere in modi e forme talora confuse ma non necessariamente ostili ai valori di un riformismo moderno. Allora, seppure non si può immaginare di compiere un tratto di strada con chi dice «voglio fermare la storia e basta», è giusto invece recuperare un dialogo, e delle affinità, con chi – come è il caso di molti giovani che oggi protestano – si pone un problema diverso. Con chi si chiede se e come è possibile nel nuovo secolo – in un mondo dove le distanze si annullano – ricostruire un equilibrio tra le ragioni della politica e della democrazia, quelle della crescita e dello sviluppo e quelle della coesione e della solidarietà. Questo d’altra parte è esattamente l’interrogativo che pesa sulle nostre spalle e che ci spinge – come ho accennato – a fondere la nostra capacità d’analisi con un’iniziativa politica in grado di proiettarsi oltre i confini delle singole nazioni. L’idea dunque – la concreta possibilità – di delineare un’agenda comune a più forze e soggetti della politica e della società civile può rappresentare una linea di ricerca destinata a spostare in avanti, su di un piano diverso, quel confronto a distanza tra la sinistra riformista e i nuovi movimenti che nell’ultimo anno – almeno dai fatti di Genova in avanti – si è fondato più sulla diffidenza e l’ostilità strumentale che non sulla leale misurazione dei punti di contatto e di dissenso. Del resto i titoli – almeno i titoli – di questa agenda non paiono differenziarsi molto.

Al primo posto c’è sicuramente la prevenzione di nuovi e più vasti conflitti e la necessità di concentrare la lotta al terrorismo verso i veri obiettivi da colpire. Sotto questo aspetto non è possibile tacere un bilancio critico e preoccupato sull’evolversi della situazione internazionale dopo l’11 settembre. Non perché nel frattempo sia venuto meno un nostro sostegno convinto all’azione militare intrapresa nel quadro di una strategia globale. Ma per l’offuscarsi di quelle esigenze – la ripresa di un’efficace iniziativa politica in Medio Oriente, la ricerca di un dialogo costruttivo col mondo arabo e il rilancio di una politica di cooperazione innovativa con i paesi in via di sviluppo – che rimangono condizioni irrinunciabili nella costruzione di una pace stabile e di un nuovo sistema di relazioni internazionali. Pare invece prevalere soprattutto da parte dell’amministrazione americana una risposta di tipo esclusivamente militare ed unilaterale che rischia di rendere molto più difficile la soluzione del problema della sicurezza globale. Al secondo posto si colloca il tema dello sviluppo di quei paesi dove più forte, per ragioni storiche oggettive, è la spinta verso una reazione disperata e violenta all’avanzare della globalizzazione. È questo il grande capitolo della democrazia, dei diritti dei popoli e degli individui, di una riduzione della povertà, delle opportunità di progresso e di affermazione della libertà individuale a partire dal diritto alla salute, alla formazione, all’assistenza. Qui, a questo livello, si pone la questione del ruolo e della riforma delle principali istituzioni internazionali. L’ONU naturalmente, ma anche la Banca mondiale e il Fondo monetario; realtà che non possono – i fatti di Buenos Aires stanno lì a rammentarcelo – essere guidate da criteri esclusivamente contabili e al di fuori da una forte capacità di governo politico. Al terzo posto c’è il nodo dell’Europa. Senza l’assunzione piena di questa nuova frontiera politica e non solo monetaria il riformismo europeo rischia infatti di arenarsi nelle secche della sua tradizione migliore ma senza una reale capacità di condizionamento degli assetti che si vanno formando. È decisiva dunque – e non solo per noi – la crescita di un’Europa politica, un vero attore globale in grado di esercitare appieno il suo ruolo e di svolgere una funzione di controllo nei confronti degli Stati Uniti.

Il punto è che ciascuno di questi obiettivi assunto singolarmente, e tanto più se intesi nel loro complesso, non è difendibile entro la più classica dimensione nazionale. In un mondo interdipendente non potremo tutelare l’ambiente in un paese solo né, con ogni probabilità, garantire il rispetto dei diritti sociali e del lavoro alla luce delle nuove forme della competizione. Per non parlare del valore della sicurezza dopo l’11 settembre. Allora, se non vogliamo delegare ad una o più superpotenze compiti e responsabilità che difficilmente potrebbero sopportare, la sola via da percorrere – o ripercorrere – è la politica. Come abbiamo detto è la costruzione di più efficienti e robuste istituzioni sovranazionali. Ma è chiaro che ben altro impatto potranno avere queste ed altre proposte se a sostenere l’impianto politico e programmatico delle nostre iniziative non saranno solo grandi soggetti politici ma un campo di forze, movimenti, individui oggi disponibili, più che in passato, a condividere ragioni e valori di una critica a questo particolare modello di globalizzazione. Sta in primo luogo a noi – alla sinistra e al riformismo europeo – non perdere l’occasione che ci si presenta. Soprattutto sta a noi non deludere questa attesa.