Il coraggio della concretezza. A proposito di Gino Giugni e Selig Perlman

Di Cesare Pinelli Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

Di ritorno da un soggiorno di studio negli Stati Uniti, dove aveva usufruito di una borsa della Fondazione Fulbright al pari di altri giovani intellettuali come Ferrarotti, Sylos Labini e Federico Mancini, Gino Giugni decide di tradurre A theory of labor movement (1928) di Selig Perlman, un’autorità fra gli storici americani del lavoro, alla quale premette un’ampia introduzione di cui pubblichiamo alcuni stralci.

 

Di ritorno da un soggiorno di studio negli Stati Uniti, dove aveva usufruito di una borsa della Fondazione Fulbright al pari di altri giovani intellettuali come Ferrarotti, Sylos Labini e Federico Mancini, Gino Giugni decide di tradurre A theory of labor movement (1928) di Selig Perlman, un’autorità fra gli storici americani del lavoro, alla quale premette un’ampia introduzione di cui pubblichiamo alcuni stralci.

È il 1955, e Giugni si dice consapevole del fatto che nell’Italia di allora pubblicare un’opera come quella serviva a sprovincializzare le scienze sociali, mettendole a contatto – in linea con l’impresa della rivista e poi della casa editrice Il Mulino – con gli ambienti progressisti americani. Nello stesso tempo lo scopo era quello di infrangere le immagini della classe operaia trasmesse dalle ideologie dominanti in piena guerra fredda. Era un invito a guardare alle condizioni reali del lavoro e dei lavoratori, e a riprendere da lì ogni discorso sulle trasformazioni sociali in corso e sulle riforme da apportarvi.

La Teoria di Perlman si prestava allo scopo. L’istituzionalismo di Commons e Perlman muoveva da una critica radicale alla configurazione dell’homo oeconomicus della dottrina economica classica, la cui razionalità astratta trascurava completamente i comportamenti di gruppo, in un mondo ormai dominato, anche nell’America dei primi del XX secolo, dai monopoli, dalle grandi corporations, dai sindacati e dallo Stato. Tuttavia, invece di contrapporre un modello teorico a un altro, quella corrente di pensiero studiava sul campo i  meccanismi delle società anonime, le istituzioni create dalle prime trade unions e soprattutto la tecnica della contrattazione collettiva, non solo come strumento per elevare i salari ma come veicolo di pressione dei sindacati per ottenere una sempre maggiore libertà e sicurezza dei loro singoli membri sul luogo di lavoro e nella partecipazione alla vita pubblica.

A questo fine, in un regime di concorrenza che poneva i lavoratori in condizioni di strutturale inferiorità rispetto alle imprese, occorreva anzitutto che i sindacati ne acquisissero la rappresentanza esclusiva, in modo da pareggiare la forza contrattuale della controparte. L’obiettivo dei sindacati non era né poteva essere la collettivizzazione dei mezzi di produzione. Del resto, anticipando l’esperienza del New Deal, l’istituzionalismo non aveva forse risolto la stessa attività dello Stato, del governo come dei giudici, in una costante mediazione pragmatica di tipo contrattuale fra gruppi politici ed economici? Era una versione di pluralismo sicuramente estranea a quella europea, sempre aperta negli anni Trenta ad esiti corporativi, e costretta dopo la seconda guerra mondiale a misurarsi con la necessità di una ricostruzione – morale, costituzionale, economica – che sarebbe tornata a far leva sullo Stato. Era inoltre, non solo per questo, un modello di relazioni industriali apertamente contrastante con l’identità profonda e con l’esperienza dei sindacati e dei partiti di sinistra europeo-continentali (la stessa svolta riformista della SPD di Bad Godesberg risale al 1956), che trovava proprio in Italia un apice ineguagliato con la «cinghia di trasmissione». Infine, negli anni Cinquanta, tanto quella versione del pluralismo quanto quel modello di relazioni industriali cominciavano a declinare nella patria di origine.

Eppure quelle di Giugni non erano considerazioni inattuali, e meno ancora volevano spingere qualcuno «a fare come in America». Avevano invece un chiarissimo intento metodologico, calibrato su tre differenti uditori. Giugni invitava i giuristi del lavoro come lui e gli studiosi di relazioni industriali a un primo bagno di empirismo, alla ricerca di soluzioni di problemi concreti. Faceva capire ai sindacati che anche la «coscienza del posto di lavoro» di cui parlava Perlman poteva creare solidarietà sindacale, e che il rivendicazionismo, se andava superato, non meritava il disprezzo riservatogli da chi si ritiene investito di missioni storiche trascendenti. Infine, più indirettamente, aiutava i tentativi politici di uscire dalla «grande bonaccia delle Antille» raccontata da Italo Calvino. Giugni non si limita a ripercorrere il pensiero di Perlman e le tappe del movimento sindacale americano. Risale alle origini del mondo del lavoro italiano, a un capitolo nobile e spesso rimosso della nostra storia. Prima che l’industrializzazione dei primi anni del ventesimo secolo favorisse la crescita della Confederazione generale del lavoro, le leghe contadine riunite nelle camere del lavoro avevano creato una rete di concrete iniziative di tipo rivendicativo, che acquistavano al tempo stesso un significato di riscatto dalla miseria civile, diffondendo un senso di dignità individuale e collettiva che avrebbe presto trovato alimento nello sviluppo delle cooperative e nel socialismo municipale. Ricordando queste cose, Giugni riuscì a compiere una seconda e in fondo più incisiva opera di sprovincializzazione. La quale non consiste tanto nel saper guardare a esperienze e culture altrui, quanto nel collegarle alle nostre senza chiusure dogmatiche, ma anche senza complessi di inferiorità.

Penso al paradigma del «ritardo italiano», ancor oggi fortunatissimo nelle scienze sociali oltre che in tanti momenti del discorso pubblico. La sua fortuna si spiega, ma neanche in un’epoca di aggiramenti delle frontiere nazionali e di costruzione dell’Unione europea giustifica la deduzione che la modernizzazione di un paese, la sua capacità di stare al passo con gli altri, basti a qualificare un punto di vista riformista. Il riformismo si perde per strada sia quando scambia la difesa delle condizioni di lavoro di oggi con quella che valeva per le condizioni di ieri, sia quando abbandona la bussola di valori che può orientare la modernizzazione. In questo senso, la conclusione di Giugni serve da premessa stipulativa minima di ogni discorso riformista. Effettivamente, con la rivoluzione tecnologica l’identificazione fra uomo e produttore tipica della tradizione socialista è diventata «un pezzo da museo». Ma non per questo bisogna trasferire nel museo anche i valori che l’avevano animata, pur se le ragioni per mantenerli vivi sono del tutto diverse da quelle che si potevano intuire all’epoca della traduzione del saggio di Perlman.

Le intensive applicazioni tecnologiche che hanno frammentato le catene produttive e creato nuove opportunità di lavoro nell’informatica possono avere esiti molto differenti. Una società di individui resi passivi da gerarchie più sottili e insidiose di quelle tradizionali, di individui distanti gli uni dagli altri e unificati soltanto da flussi costanti di immagini alla fine sostitutive delle nostre stesse autorappresentazioni, che sono il bene più caro della persona umana. Allora, oltre alla tradizione socialista, finirebbero nel museo i valori più autentici del liberalismo, a partire dai sentimenti morali che Adam Smith ricavava dalla natura relazionale dell’identità individuale. Ma la tecnologia può anche essere utilizzata per costruire una società di individui stimolati da un continuo processo di apprendimento a lavorare consapevolmente, a cercare nuove combinazioni lavorative, a comunicare in rete con chi utilizza gli stessi linguaggi sfruttando il carattere orizzontale dell’economia del sapere e della comunicazione. A patto che istituzioni pubbliche, imprese e sindacati, dopo aver guardato con la necessaria umiltà alle nuove condizioni del lavoro come alle grandi aree di emarginazione create dalla stessa tecnologia, sappiano scommettere insieme sull’istruzione scolastica e sulla formazione professionale del futuro, creando nuovi investimenti politici. Un compito maledettamente difficile per chiunque. Per la sinistra politica e sociale italiana, poi, si tratta anche di reinventare una prospettiva riformista che diversamente saranno altri a riprendere, in forme e sedi diverse e con tempi imprevedibili.

 

Gino Giugni

«Non vi è stato alcun autore della passata generazione», abbiamo letto recentemente in una rivista americana, «che in America abbia neppur da lontano sfidato l’autorità di Selig Perlman sui dirigenti delle trade unions e sui cultori di problemi del lavoro». Il professor Perlman è il successore di Commons nella direzione della «scuola del Wisconsin» di economia del lavoro fondata agli inizi del secolo, ed è senza dubbio il più autorevole storico sindacale americano vivente. Con il titolo Ideologia e pratica dell’azione sindacale, presentiamo al lettore italiano quest’ultima, fondamentale opera, alla quale la ormai remota data di pubblicazione (1928) non ha fatto perdere la vivezza e l’originalità, che ancor oggi ne fanno materia di contrasti e di dibattiti. Vivezza e originalità che derivano dalla netta posizione che in essa l’autore assume a favore di un determinato modello di azione sindacale, che è poi quello seguito dalla quasi totalità delle organizzazioni nordamericane dei lavoratori (…). È quindi con la piena consapevolezza del valore critico e non dogmatico, e, comunque, di apertura polemica insito in quest’opera, che essa viene offerta al lettore italiano, la cui maniera di valutare il fenomeno sindacale è stata plasmata da esperienze e da atteggiamenti culturali profondamente diversi da quelli che hanno fornito al mondo del lavoro americano la sua impronta caratteristica e originale.

Alcune conclusioni di Perlman potranno apparire inammissibili, ed altre non avranno la forza di prevalere su alcuni giudizi, come su alcuni pregiudizi, saldamente radicati nel nostro sistema di conoscenze. Ma l’esito positivo di questa lettura sarà nel contributo che essa potrà dare allo sviluppo di una valutazione più moderna e, soprattutto, in termini più aperti e meno provinciali, di alcuni problemi di fondo del mondo di oggi (…). Man mano che approfondivano l’analisi della vita interna delle unions, attraverso lo studio dei loro statuti, della loro storia, delle loro consuetudini e dei casi giudiziari di conspiracy, Commons e Perlman penetravano l’intima essenza del movimento operaio americano, e si rendevano conto di come il fronte sindacale americano non fosse un fronte classista, ma contrattuale. L’avversario diretto era il datore di lavoro, ma l’obiettivo di lotta non era l’aggressione al diritto di proprietà, bensì l’ottenimento di garanzie contro la pressione della concorrenza, che corrodeva la forza di resistenza delle organizzazioni, e poneva gli operai alla totale mercé del padrone. Le «norme di lavoro» e i contratti collettivi non si proponevano di costituire momenti tattici nella più vasta strategia dell’assalto alla proprietà, quali venivano giustificati (il più delle volte con un malcelato opportunismo) dai socialdemocratici europei; ma miravano essenzialmente ad ottenere al sindacato il riconoscimento del diritto di trattare e della rappresentanza esclusiva (il closed shop) e, con il monopolio dell’offerta di lavoro, la parificazione della forza contrattuale con l’avversario. Una volta realizzato questo primo obiettivo, veniva posta la premessa fondamentale affinché i sindacati esercitassero una continua pressione, diretta ad ottenere «più e sempre più del nostro lavoro»; slogan, quest’ultimo, che costituiva il vangelo dettato da Gompers per l’«unionismo puro e semplice ». Questa era la realtà del movimento operaio americano[…]. All’origine della  solidarietà sindacale non stava pertanto la consapevolezza di una comune missione storica,  bensì una coscienza contrattuale che Perlman battezzò «coscienza del posto di lavoro» (job consciousness) (…).

A questo punto non riterremmo esaurita la nostra fatica se non offrissimo alcuni spunti per  estendere il ripensamento critico del fenomeno sindacale alle condizioni specifiche del nostro paese e del movimento operaio italiano, al quale Perlman dedica soltanto una odesta nota a pie’ di pagina. Spunti critici, abbiamo detto, e nulla di più compiuto ed esauriente, come sarebbe senza dubbio desiderabile: il terreno è ancora troppo inesplorato, e, mentre è del tutto assente un sistematico approfondimento delle condizioni istituzionali in cui si muove la lotta sindacale in Italia, la stessa storia operaia è, eminentemente, storia della politica o della dottrina socialista (…). Anzitutto, mancava la stessa base fondamentale per la costituzione di organizzazioni saldamente radicate nei motivi di difesa di mestiere e del posto di lavoro: praticamente, il solo esempio di craft unionism è dato dall’organizzazione  dei tipografi le cui origini risalgono addirittura alla metà del secolo e che d’altronde presenta queste caratteristiche pressoché in tutti i paesi. Le compagnie portuali di Genova, frutto di una situazione eccezionale, realizzavano, nel 1900, un’istituzione che appariva chiaramente ispirata al principio della «restrizione del numero», che gli Webb avevano già condannato sette anni prima. Ma la stragrande maggioranza delle organizzazioni si sviluppava sotto la pressione di tre fattori determinanti (oltre a quello, comune in tutti i paesi europei, dell’esistenza di profonde fratture di classe, radicate in antichi rapporti di diseguaglianza sociale, e particolarmente accentuate nel mezzogiorno italiano semifeudale): il tardo sviluppo industriale, il crescente squilibrio tra risorse e popolazione, la prevalenza della popolazione agricola, e dello stesso proletariato agricolo, su quello industriale (…). Di  fronte a strutture produttive insufficienti, e ad una sovrappopolazione immersa in un clima di miseria e di ignoranza, per la quale i rapporti di classe non erano un mito, ma una realtà viva e palpitante, i lavoratori, privi del mestiere e della correlativa «coscienza del mestiere», si riunivano nei più ampi, anche se in un certo senso più primitivi, organismi delle camere del lavoro. Pur sorgendo con prevalenti funzioni di collocamento, queste diventavano in realtà veri e propri centri di vita comunitaria, eminenti manifestazioni di autonomia civile, attraverso le quali le «plebi» riscattavano la loro inferiorità sociale non soltanto con le lotte e con gli scioperi, ma anche con l’esercizio comune dell’autogoverno, e l’educazione popolare e civile. Mentre le bourses du travail, dalle quali avevano tratto modello i  progenitori delle prime borse e camere italiane, svolgevano una funzione di avanguardia per la mobilitazione rivoluzionaria anarcosindacalista, gli organismi territoriali italiani non prestavano orecchio alla mistica delle élite e si inserivano nel tessuto sociale come strumenti di partecipazione popolare di massa. Basti rammentare un esempio, apparentemente modesto, ma profondamente significativo, a delineare un certo tipo di evoluzione della vita civile: prima dell’apparire della lega e della camera, il centro delle attività comunitarie era l’osteria, dove venivano consumati i magri guadagni, e la vita sociale si degradava nell’alcoolismo e nelle risse. L’apparire dell’organizzazione rompeva il circolo vizioso della miseria civile, e non vi fu campagna contro l’alcoolismo più efficace di questa, alla quale contribuivano di pari passo i medici condotti, ingenui apostoli di un socialismo scientifista più che scientifico, e gli amministratori della lega, stimolati ora da un senso di dignità socialista, ora dal meno nobile, ma parimenti efficace, incentivo di far affluire nelle casse sociali i quattrini che venivano abitualmente spesi nel vino. Mentre la disoccupazione strutturale poneva in primo piano il problema del lavoro quotidiano, nei centri agricoli si sviluppava un’attività cooperativa che non costituiva, come in America, un tentativo di evadere dalla condizione operaia, ma era piuttosto una manifestazione della solidarietà di classe. Non soltanto si diffondevano le cooperative di consumo, che in alcune zone dell’Italia centrale trasformavano la struttura delle attività distributive, ma sorgevano e si affermavano gli originali istituti della cooperativa di lavoro e dell’affittanza collettiva, che, alleggerendo la pressione dell’offerta sul mercato del lavoro, non agivano in contrasto con le leghe di resistenza, ma in stretta concordanza di fini con le stesse. Se i sindacati più efficienti, in Germania ed in Inghilterra, erano quelli che riunivano l’attività mutualistica con l’azione rivendicativa, il movimento sindacale italiano aggiungeva un terzo elemento, e si organizzava intorno al trinomio resistenza, mutualità, cooperazione (…).

Non v’è probabilmente ombra di dubbio sull’insufficienza di una mera azione rivendicativa in un paese ancora stretto nella doppia morsa del sottosviluppo economico e del ristagno politico. Ma le complesse contraddizioni del mondo moderno non possono risolversi con apriorismi semplicisti e con verità acquisite una volta per sempre. Alle soglie di una rivoluzione tecnologica che modificherà profondamente i rapporti produttivi e gli stessi costumi di vita (si pensi alle conseguenze della prevista riduzione degli orari e della settimana lavorativa, o allo sfruttamento dell’energia atomica), lo stesso pensiero socialista tradizionale, che nell’identificazione tra uomo e produttore rifletteva le condizioni di estrema povertà della vita comunitaria nel primo secolo di storia della civiltà industriale, diventerà forse un pezzo da museo. Di fronte a siffatte previsioni, una posizione filosofica di larga apertura critica, che mantenga fermo un sistema di valori, ma respinga ogni soluzione prefabbricata, come le fatalistiche interpretazioni delle «tendenze» storiche, è probabilmente la sola che sarà in grado di fronteggiare i problemi sempre più complessi che si porranno alla società umana. Non certo in quest’anno 1955 si può concludere con un atto di fede nella storia e nel progresso. Ma, per quanto la complessa realtà contemporanea ci abbia completamente disincantati, rivelando malinconicamente l’ingenuità dei miti dell’Ottocento, resta aperta una problematica sempre più complessa, data dalla coscienza dell’alternativa tra una marcia a ritroso sulla via della integrale liberazione dell’uomo, e l’altrettanto possibile processo di sviluppo; processo, quest’ultimo, essenzialmente di libertà ove e in quanto le classi subalterne possano muoversi su un piano di autonomia non coartata né da miti, né da pregiudizi. Vicende e realizzazioni che è possibile oggi ricostruire, inducono, malgrado l’apparente legame con situazioni irripetibili, ad includere nel novero del possibile anche quest’ultima prospettiva.

Tratto da S. Perlman, Ideologia e pratica dell’azione sindacale, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1956.

 

Chi è Gino Giugni?

(1927) È tra i maggiori studiosi italiani di diritto sindacale e del lavoro e giurista di fama internazionale. Esponente di spicco del riformismo socialista italiano, fu il principale estensore dello statuto dei lavoratori (1970), del primo accordo tripartito (1983) e della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (1990), nonché presidente della Commissione lavoro del Senato nella X Legislatura, ministro del Lavoro nel Governo Ciampi e presidente della Commissione di Garanzia sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali dal 1996.

 

Chi è Selig Perlman?

(1888-1959) Ebreo polacco di nascita, figlio di genitori attivi nel movimento sindacale sionista, emigra negli USA nel 1918. Qui diviene uno tra i principali studiosi di storia del movimento operaio del Novecento. Insieme a John R. Commons è stato animatore, presso l’università di Madison, della celebre "scuola del Wisconsin". Oltre a A Theory of the Labour Movement, 1928, riedito nel 1949, ha scritto con Commons il ponderoso The History of Labor in the United States, 1918.