La sovranità politica

Di Biagio De Giovanni Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

E' difficile decifrare lo stato della questione europea dopo la conclusione dell’ultima conferenza dei governi, lo scorso dicembre a Nizza. Gli elementi che vengono in generale indicati possono essere, con buona approssimazione, riassunti così: a Nizza, si è registrato un fallimento e un’impasse. Il Consiglio europeo che lì si è riunito non ha saputo rispondere alle grandi domande che si erano aperte in vista della unificazione del continente, concludendo con decisioni di profilo basso e problematico. Come se l’Europa, giunta a un tornante decisivo del suo divenire, fosse attonita e incerta sugli sviluppi possibili, divisa nelle sue visioni, lacerata fra le interpretazioni relative al suo possibile divenire.

 

E' difficile decifrare lo stato della questione europea dopo la conclusione dell’ultima conferenza dei governi, lo scorso dicembre a Nizza. Gli elementi che vengono in generale indicati possono essere, con buona approssimazione, riassunti così: a Nizza, si è registrato un fallimento e un’impasse. Il Consiglio europeo che lì si è riunito non ha saputo rispondere alle grandi domande che si erano aperte in vista della unificazione del continente, concludendo con decisioni di profilo basso e problematico. Come se l’Europa, giunta a un tornante decisivo del suo divenire, fosse attonita e incerta sugli sviluppi possibili, divisa nelle sue visioni, lacerata fra le interpretazioni relative al suo possibile divenire. A conclusione di un decennio che ha sconvolto la continuità della sua storia, e ha fatto irrompere sulla scena di un’Europa tecnocratica e comunitaria i grandi temi politici dell’unificazione tedesca, dell’unione monetaria e dell’allargamento verso Est, l’Europa si sarebbe posta quasi in posizione di attesa, come se il suo «cervello» politico fosse attraversato da segnali opposti, talmente opposti da annullarsi vicendevolmente e da costringere a una sorta di programmato silenzio sulla propria prospettiva futura. Nizza, insomma, come una sorta di arresto, un provvisorio e abbastanza disorganico parcheggio da cui si intravede solo la strada fissata per il futuro dalla Dichiarazione finale: riaprire il confronto sull’avvenire dell’Unione. Un confronto, per ora, sul «metodo» che in certi casi, come scrisse il filosofo, è la scienza dei nullatenenti.

Ma è proprio così che sono andate le cose? O non è necessario, sul vertice di Nizza, sviluppare una riflessione più stringente, per capire che cosa lì è veramente avvenuto e in che senso i suoi silenzi e le sue decisioni sono dei vuoti parziali ma densi di significato e indicativi di uno «stato della questione» che non si colloca semplicemente nella posizione della stasi relativa? Vorrei concentrare la riflessione su qualche punto soltanto, avendo questo ragionamento anche altre finalità, ma i punti che scelgo potrebbero forse gettare luce sullo stato della questione europea. A Nizza si è incrinato quell’equilibrio franco-tedesco su cui, fino almeno alla metà degli anni Novanta, si è retto il divenire dell’Europa. Lo stringente dato storico-politico è questo, reso manifesto sia dal tipo di contrasto che si è reso visibile nella sede della Conferenza, sia dalle diverse inclinazioni strategiche che i responsabili politici delle due nazioni hanno manifestato negli scorsi mesi, durante e dopo la riunione.1 Per i caratteri di questo saggio non importa approfondire la questione di chi abbia prevalso e a chi giovino quei nuovi equilibri istituzionali che Nizza ha comunque tracciato,2 quanto scavare in quel dato e comprenderne la portata. La sua straordinaria importanza è nel fatto che più di quarant’anni di storia politica europea sono legati all’iniziativa comune della coppia franco-tedesca, e che almeno fino al 1994 – data che può esser considerata periodizzante3 – essa ha funzionato come avanguardia politica, in una situazione che cercava di rispondere ai problemi aperti dalla storia europea del Novecento. Dal momento dell’unificazione tedesca, questo stato di cose relativamente armonioso è rimesso in discussione, ma da quel momento – ecco ciò che subito si deve aggiungere – tutto il problema dell’unificazione europea ha toccato un diverso livello, è diventato assai più «politico» di prima, ha posto finalità più grandi e complessive, equilibri più difficili fra gli Stati, anche e soprattutto perché si elevava il livello dei possibili obiettivi, e all’Europa comunitaria si aggiungeva il primo abbozzo di un’Unione politica sancita a Maastricht anche nella terminologia.

Il movimento dell’Europa dal bipolarismo al globalismo, ecco il vero passaggio che si dovrà approfondire. Le finalità dell’Europa mutano, e con loro gli equilibri fra gli Stati; l’unificazione del continente propone la questione tedesca in forme inedite; l’inserimento nel Trattato della forma «Unione» accanto a quella di «Comunità» invita a ridefinire gli spazi politici del processo europeo, rimettendo in circuito proprio la funzione degli Stati, soggetti della politica per oltre trecento anni di storia europea e che per quarant’anni – fra il 1950 e il 1990 – avevano potuto far crescere l’Europa «unita» come un dato laterale rispetto alla loro autonomia politica che continuava a funzionare di là da essa, soprattutto in assenza di una Germania «politica». Tutto ciò cambia all’improvviso, si può dire, per le vicende accelerate degli anni Novanta, lasciando uno stato di incertezza e di vuoto, fra strategie esaurite e difficoltà a individuarne di nuove, ma in una fase in cui i processi in corso (Unione monetaria, allargamento, principi di politica estera comune) non possono essere interrotti, sospesi, ma sono in campo e in un campo effettivo, pratico, dove la dimensione politica dell’Unione è negli stessi problemi che si sono aperti.

Qui, secondo me, è la premessa di ogni ragionamento per poter comprendere qualcosa dello stato di cose esistente. Se ci si chiude nel circuito del semplice e puro ragionamento istituzionale – con domande del tipo: quante decisioni sono «passate» alla maggioranza qualificata? – l’analisi non è destinata a procedere molto avanti. Serve in una misura nuova la storia, e in una dimensione ben più approfondita di quanto ho potuto indicare nelle veloci note accennate. Ma è a partire da questa dimensione che possiamo comprendere perché, negli anni Novanta, vada in soffitta ogni ortodossia federalista annodata intorno alla primigenia idea di Stati uniti d’Europa che tranquillamente poteva accompagnare – come una sorta di futuro e lontano simbolo – il processo di crescita di un’Europa comunitaria assai parziale e laterale, e poco politica; e possiamo comprendere perché l’acume politico di Jacques Delors avvertì l’esigenza di indicare il nuovo e ambiguo lessico che sarebbe diventato dominante: «Federazione di Stati-nazione», ricavandolo peraltro da una già consistente tradizione accademica. La storia d’Europa non è matura per sotterrare gli Stati. Nizza va dunque letta in questo quadro, come il punto d’arrivo e la presa di coscienza di una situazione che muove dal dato di una ripresa degli Stati nazionali come attori politici. Se si fa oggetto di analisi questo dato, allora quella che comunemente è chiamata l’impasse di Nizza, può collocarsi sotto nuova luce, può esser vista cioè come un momento di studio reciproco in vista di una Unione che, diventando sempre più politica, ripropone con prepotenza che cosa possa significare – nel concreto di un processo di costruzione storica – politica oltre gli Stati, quando l’unità di politica e statualità ha rappresentato il dato costante della storia europea per oltre trecento anni. Non si tratta di immaginare l’Europa prigioniera della propria storia – ed essa lo ha ben dimostrato quel 9 maggio del 1950, prima data del processo d’unità – ma nemmeno capace di compiere quell’acrobatico e inconsistente salto oltre la storia, opportunamente criticato da Alan Milward in più interventi.4 Un problema di questa dimensione e profondità può anche spingere per un lungo periodo a una diplomatizzazione dei conflitti, e quindi offrire la sensazione di forte regressione di tutto il processo europeo, ma non è qui il punto dove metter l’accento. Esso va posto sulla nuova qualità dei problemi europei, sull’incrinarsi dei vecchi equilibri – in assenza relativa, in passato, della Germania e dell’Est, e di tante altre cose – sulla faticosa azione per costruirne di nuovi. C’è insomma una rottura di continuità che deve essere avvertita, ciò che i ragionamenti svolti in chiave puramente istituzionale non riescono a percepire, trovandosi così disarmati di fronte alle nuove difficoltà. Un’ultima osservazione va fatta, per concludere questa parte della riflessione. Almeno da qualche anno, con l’intervento di Joshka Fischer all’Università Humboldt di Berlino,5 personalità politiche europee – tedesche, francesi, britanniche, italiane – sono intervenute per delineare qualche tratto del futuro destino d’Europa. Non ricordo che la cosa, in questa forma, avvenisse da molto tempo. Intanto, questa molteplicità di interventi strategico-politici conferma forse che alla stasi relativa delle riforme corrisponde un riaggiustamento strategico delle forze in campo, ognuno ridefinendo il senso che vuol dare alla costruzione in corso. Ma ad entrare appena, e parzialmente, nel merito, ciò che più colpisce è il disegnarsi netto del contrasto franco-tedesco, due visioni di Europa, due modi di intendere il cammino della sua unità. La Germania, che riabbraccia, particolarmente con Schröder, un federalismo appena corretto, la Francia di Jospin che risponde con la proposta di una più radicale mediazione fra gli Stati e l’Europa.6 La riprova, se ce ne fosse bisogno, che anzitutto su questo asse francotedesco si è riaperta una conflittualità che non può esser nascosta ma  deve trovare il suo livello di equilibrio nuovo. Verso dove? Con quali mezzi? Con quali assestamenti della visione di Europa?

Non credo che l’Europa sia destinata a progredire nella sua unità attraverso veloci riforme istituzionali: da questo punto di vista, Nizza rappresenta più di un segnale. Azzarderei una tesi che naturalmente andrebbe argomentata con ben diverse articolazioni:7 quel che conta oggi anzitutto è il dibattito e l’iniziativa strategica sulle politiche e sulle prospettive, e le questioni istituzionali si aggiungeranno dopo. Dopo che per decenni il primato è andato ad esse, è venuto forse oggi il momento di dichiarare che il progresso dell’Europa non lo si può attendere da ulteriori decisioni – che non verranno – sulla maggioranza qualificata nelle decisioni al Consiglio, o sulla struttura della Commissione per la quale a Nizza è stato individuato un possibile ma certo non risolutivo compromesso. Nizza ha detto ciò che oggi l’Europa può dire, il che non è molto e non delinea un quadro chiaro; ma quel che l’Europa oggi può veramente fare è affrontare le concretissime domande politiche che le nascono intorno, e che germinano dallo stesso stato del processo di unità, il quale d’improvviso, nel corso del decennio, si è trovato non protetto da un mondo bipolare ma aperto alla disseminazione globale degli spazi. Primato della politica, anziché primato delle istituzioni, ecco un passaggio su cui riflettere. Perché? Da dove? Dalla concreta politicità del processo europeo, che non si svolge più a lato degli Stati: può l’Unione monetaria restar come campata per aria, senza accompagnarsi a processi macroeconomici, e a una politica estera della moneta comune? Come approfondire i fili di una politica estera comune già parzialmente in atto almeno nelle aree di crisi per la prima volta nella storia europea? Come dar senso a una interpretazione nuova degli spazi politici, in un  continente che ha deciso la propria unificazione? Come sviluppare politicamente quella che è insorta come una grandiosa necessità: non fermare la democrazia e la tutela dei diritti ai propri confini ma guardare oltre di essi, a partire dalla concreta costruzione di uno spazio pubblico dei diritti? E così via. Si tratta di questioni che si aprono su tutti i versanti; processi incompiuti che chiedono di compiersi, costruzioni già in corso, che sarebbe insensato appendere all’attesa di un progresso istituzionale o addirittura della creazione di nuove istituzioni. È lecito dire questo, o è lesa maestà federalista?

L’equilibrio istituzionale si va già spostando nei fatti. La vecchia prospettiva semplice e onesta – cui si guardava – di una Commissione-governo con due Camere legislative, Consiglio e Parlamento, a far da corona, appartiene ai reperti storici, nobili reperti ma pur sempre tali. In quel quadro idealtipico, inteso nella sua ineluttabile progressività, si poteva attendere con fiducia che si spostassero lentamente le tecniche e gli equilibri istituzionali, fino al giorno del compimento. Questa prospettiva non si dà più per l’Europa dal 1989, volendo offrire una periodizzazione politica. Non si dà per il continente in via di unificazione, dove sul processo di integrazione deve prevalere il governo delle differenze: prima si prenderà coscienza di questo, meglio sarà.

I nuovi equilibri, lo dicevo, sono peraltro già in movimento. Non si comprenderebbe, altrimenti, perché il Consiglio europeo incalzi con un ruolo che è già oltre quel che il Trattato individua, e che lascia intravedere come un vero luogo di unità e di decisione, in grado di sancire lo spazio primario ed effettivo di dialettica fra gli Stati e l’Unione. E altro dato di lesa maestà verso il federalismo ortodosso è certamente costituito dall’inquietudine dei Parlamenti nazionali, i quali avvertono l’insufficienza del loro ruolo tradizionale – controllo delle delegazioni nazionali che formano il Consiglio – e ne chiedono confusamente ma fondatamente un altro, in grado di ampliare i processi di legittimazione delle decisioni europee. Mi fermo qui, senza la pretesa di delineare i tratti del nuovo equilibrio in formazione, ma se qualcosa di vero c’è in questo spostamento degli accenti e degli equilibri delle forze, ciò fa comprendere in qual senso parlo di primato della politica: è l’insieme del nuovo equilibrio che si dovrà far garante delle politiche, inventare e definire quelle necessarie, è ad esso che si affiderà il compito – carico di storia, di idee e valori, che toccano nel profondo l’intera storia dell’Europa moderna – di ricercare continuamente gli spazi e le possibilità di quella politica oltre gli Stati che solo gli Stati possono costruire e sostanzialmente garantire.

Ritorno puro e semplice alla dimensione intergovernativa? Tutt’altro. È in verità la stessa alternativa – federalismo o intergovernativismo? – che appartiene all’archeologia politica. Alla crisi dell’idealtipo federalista non è affatto destinato a corrispondere un ripiegamento intergovernativo, come se lo Stato dell’Europa si potesse disegnare in una sorta di tiro alla fune tra poteri sovranazionali e poteri statal-nazionali. Il mescolamento dei poteri, delle funzioni, delle legittimazioni, le condivisioni di sovranità, l’affollarsi di piani e di sezioni in un «condominio» – per usare l’espressione di Schmitter – complicato e qualche volta labirintico, è già andato talmente avanti da vincolare il divenire dell’Europa, e da ridurre lo spazio logico-storico riservato alle semplificazioni classiche. Osservò fondatamente Giuliano Amato in un lungo dialogo con Barbara Spinelli sulla pagine della «Stampa» di alcuni mesi fa8 che non stiamo assistendo a un semplice passaggio di sovranità dagli Stati verso istituzioni sovranazionali, come se la sovranità si stesse trasferendo semplicemente più in alto. Non solo non è vero che ciò stia accadendo, ma – si può aggiungere, e Amato lo aggiungeva – sarebbe esiziale se ciò avvenisse. Gli attuali vuoti di legittimazione che affliggono gli Stati nazionali sarebbero solo in apparenza riempiti da un passaggio e da una unificazione del comando verso l’alto: il risultato effettivo sarebbe uno svuotamento ulteriore delle medesime legittimazioni, e una loro disseminazione senza forma e senza storia in spazi sempre più ridotti e localistici.

Ecco perché sono diffidente verso la tesi di un primato da attribuire alle riforme istituzionali. La fase che attraversa il processo europeo non può essere affidata a un «costruttivismo» di tipo istituzionale, destinato a spostare progressivamente gli equilibri fra i poteri verso una sempre più pressante integrazione. Gli equilibri continueranno a muoversi e a formarsi in una complessità orizzontale, che ha già le istituzioni, i poteri e le funzioni necessarie per disegnarsi. Dall’intreccio delle loro dialettiche dipenderà molto, dall’ordinata energia che ciascuna parte metterà nel proprio movimento e soprattutto dalla capacità del sistema di restare sistema delle differenze, unità del molteplice, per dirla con la rappresentazione più tipica del modello di pensiero europeo, quel modello che ha dato vita, dalla originaria polis greca, alle sue istituzioni. Ciò che può unificare le intenzioni dell’Europa è la definizione e l’ampliamento delle politiche, della larghezza di interpretazione relativa alla presenza dell’Europa unificata nel mondo globale. Si potrebbe dire: se si sviluppano le politiche, le istituzioni adegueranno il loro funzionamento alle esigenze di quelle politiche. E ciò è destinato a passare attraverso un confronto fra gli Stati nazionali che «sanno» – con la saggezza profonda che loro deriva da una storia controversa ma costitutiva dell’identità dell’Europa moderna – che solo condivisa la loro sovranità si salva, che il contributo a costruire una politica oltre gli Stati è l’unico modo per salvare – come oggi diventa sempre più necessario, per impedire una caduta localistica delle legittimazioni – la loro identità e la loro capacità di partecipare a un rinnovato processo di legittimazione. Più «politica» diventa l’Unione, più contrastato sarà il suo progresso, e più coinvolgerà nella complessità della loro identità gli Stati, cui tutto il processo europeo fa capo, con la problematicità derivante dal fatto che la storia del Novecento è attraversata dalla crisi-tramonto degli Stati-nazione e insieme dal loro permanere come spazi di  identità, di decisione, di garanzia. Ma l’Europa è questo, e l’ampiezza non scontata del suo ruolo nel mondo si accompagnerà a questa dialettica e alle scelte concrete che si disegneranno. Finalmente il divenire stesso della storia fa calare il sipario su un vecchio dibattito.

C’è tuttavia un punto su cui l’attenzione deve farsi più acuta, ed è il punto forse decisivo. Come definire, rappresentare questo sistema delle «differenze», questa unità della molteplicità dove ambedue i termini devono avere uguale dignità? Ancora il testo di Amato stimola la discussione. Ho perplessità sulla nettezza con la quale esso indica l’ordine dell’Unione – sulla scia di Schmitter, ma la tesi è largamente rappresentata – come ordine post-hobbesiano e post-sovrano,9 affermando un punto di principio che fu assunto, a suo tempo e per spingere in tutt’altra direzione, come dato storico di partenza del federalismo spinelliano: opposizione fra sovranità e libertà. Il tema meriterebbe una lunga discussione che non è soltanto relativa alla sistemazione delle categorie, all’ordine, per dir così, scientifico che va dato al sistema europeo in formazione e che sarà decisivo per poterlo pensare, ma al suo significato politico, all’effettivo tasso di politicità che esso riuscirà – riesce – ad esprimere. Rappresentare l’insieme in chiave postsovrana non conduce dritti verso una rappresentazione anche postpolitica del sistema europeo? Quanto sarebbe faticoso evitare questa deduzione! Fra sovranità e politica non c’è un nesso pressoché indissolubile in tutto il pensiero moderno? E non è proprio dalla «fine» della sovranità che tutto il pensiero neo-liberale – da Kelsen a Bataille, per mescolare giuristi e filosofi – ricava e deduce la fine della politica e magari il trionfo «puro» del diritto e dei diritti?

Delicatissimo tema, soprattutto quando oggetto di esso diventa direttamente l’Europa, il cui tasso di politicità è in discussione dal suo atto di nascita e che sembra essere proprio il luogo della potenziale rinascita dei diritti e di una loro egemonia. Ma la tesi che ho esposto va nella direzione opposta: almeno da un decennio è la dimensione politica che si va imponendo all’Europa, e peraltro tutta la sua storia, dal 1950, nasce da un atto schiettamente politico che è la messa in comune dei mercati. Il problema dell’Europa presente-futura è nella costruzione della dimensione politica oltre gli Stati – muovendo da essi – non nella diluizione funzionalistica di poteri e funzioni che possono di fatto incoraggiare una visione priva di unità e di prospettiva storica. È in gioco, in questa scelta, il senso che l’Europa in via di unificazione vuol dare alla propria capacità di riorganizzazione politica degli spazi globali. E allora? Si potrebbe naturalmente dedurre la non necessaria connessione fra sovranità e politica, e considerare quel nesso  semplicemente legato alla storia degli Stati nazionali; ma questo atteggiamento si dimostra debole, non solo per consistenti ragioni teoriche, ma perché ancora alla storia degli Stati è per tante connessioni legata la vicenda dell’unità d’Europa. La questione rimane allora decisamente aperta. Se la disseminazione dei poteri, delle funzioni, delle loro rappresentazioni istituzionali e delle loro legittimazioni non ritrova un punto di convergenza, le spinte impolitiche e spoliticizzanti che provengono da molte parti, quando tema è l’Europa, diventeranno invadenti e vincenti. Nello stesso tempo, se questo punto di unità si manifestasse come un accavallarsi verso l’alto delle vecchie sovranità, il circolo vizioso diventerebbe palese. Ma personalmente sono convinto che esiste un sovrano d’Europa, cioè un punto d’unità che tiene insieme le differenze, mantenendo in vita la loro forza, e permettendone il governo.

Che questo punto d’unità sia il Trattato e l’insieme delle garanzie che ne fondano l’unità di governo non deve lasciar immaginare che parlare di sovranità sia affermazione puramente surrettizia e consolato ria. Può un Trattato vedersi ed esser visto come sovrano? Che cosa significa questo per la fenomenologia di un principio, quello di sovranità, che deve a mio avviso resistere alle volontà distruttive che lo circondano da ogni lato? Dar questo peso politico al Trattato, e insomma all’unità del sistema da preservare con ogni cura, significa che la sovranità in Europa è ciò che conferisce senso, unità e spinta all’insieme, all’Uno-molteplice, riempiendolo di senso della storia e della politica. Il Trattato indica il sentiero di una volontà giuridico-politica che dovrebbe segnare i confini con un’altra idea di Europa, tutta sminuzzata in funzionalismi apolitici, in poteri corporativi e reciprocamente concorrenti, dentro i quali fiorirebbe un’Europa entropica e introversa, spoliticizzata e mercantile. Ho l’impressione che il dibattito intorno alla sovranità europea sarà decisivo per comprendere (attraverso le categorie: è sempre il miglior modo per capire) il ruolo che l’Europa sarà capace di darsi nel mondo, e se tornerà a porsi – come per secoli è stata – interprete della storia globale, in una situazione in cui non è più essa il centro del mondo, e anzi il mondo è senza più centri, con la buona pace dell’Empire di Toni Negri.10

 

 

Bibliografia

1 Mi riferisco, in modo particolare, alla serie di interventi che furono inaugurati dal discorso tenuto dal ministro degli esteri della Repubblica federale tedesca, Joshka Fischer, all’Università Humboldt di Berlino nel maggio 2000, a cui fecero seguito interventi «strategici» sia del cancelliere Schröder, di una ortodossia federale addirittura sorprendente, sia di Lionel Jospin: quest’ultimo, pronunciato a Parigi il 28 maggio 2001, particolarmente significativo per un diverso orientamento.

2 Per un giudizio molto critico, si veda la Risoluzione della Commissione affari costituzionali del Parlamento europeo adottata nel maggio 2001 e il lucido ma assai discutibile saggio di J.L. Bourlanges, Pourquoi le Traité de Nice marque la fin de l’Europe communautaire, presentato al Bureau politique dell’UDF: un esempio di intelligenza istituzionale a cui sarebbe opportuno si accompagnasse un maggior senso della storia.

3 Attribuisco grande importanza al celebre testo della CDU elaborato da Karl Lamers e Wolfang Schaüble, reso pubblico nel settembre del 1994, che rappresenta, credo, l’ultimo tentativo di interpretazione del progresso dell’Unione alla luce della teoria dell’avanguardia franco-tedesca. Ma l’ipotesi di una Unione monetaria ristretta che ne era il centro non si è realizzata, e ne ha fatto cadere l’asse strategico.

4 Cfr. ad esempio, il saggio L’impossibile fuga dalla storia in «Europa-Europe», (1999), 5, pp. 57-68, ma è tesi classica del grande storico.

5 L’intervento rilanciò politicamente l’interpretazione «federale» dell’unità europea, anche se con correttivi istituzionali di notevole ambiguità che ne rendono problematica la lettura. Si vedano anche ulteriori sviluppi nell’altro discorso pronunciato da Fischer il 30 gennaio 2001 al Centre francais de l’Université de Fribourg intitolato L’avenir de l’Europe et le partenariat franco-allemand.

6 Si veda in particolare la sezione intitolata Così faccio mia la bella idea di «Federazione di Stati-nazione», dove lo sviluppo dell’Europa è visto nella permanente tensione fra Stati, nazioni e Unione.

7 Cerco di argomentarla in un volume in corso di pubblicazione intitolato L’ambigua potenza dell’Europa, Guida, Napoli 2002.

8 Il testo occupa due intere pagine del giornale in data 13 luglio 2000, e costituisce una risposta esplicita e critica alla ripresa delle ipotesi federaliste da parte tedesca, tanto più significativa in quanto espressa, allora, da presidente del Consiglio.

9 Sintomatica la seguente espressione: «La verità è che il potere sovrano, spostandosi, evapora. Scompare... Quel che sta prendendo forma, e che l’Unione europea prefigura alla perfezione, è un nuovo ordine post-hobbesiano, post-statuale». È una ipotesi che meriterebbe di essere lungamente discussa.

10 M. Hardt, A. Negri, Empire, Harvard U.P., Cambridge 2000.