Perché oggi l'Unione europea?

Di Giuliano Amato Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

Sono angolature diverse quelle da cui guardano all’Europa gli scritti che qui pubblichiamo. Ma c’è in tutti un’eguale consapevolezza che di Europa c’è un grande bisogno davanti alle sfide che ci pone questo difficilissimo mondo, un mondo che ci eravamo appena abituati a chiamare «il mondo del XXI secolo» e che ora colleghiamo invece al «dopo l’11 settembre». Allo stesso tempo, però, urge per tutti il bisogno di riforma, che è insieme messa a fuoco più netta della missione europea nel nuovo contesto e adeguamento alla missione di un assetto istituzionale che appare poco trasparente e tortuoso nelle sue decisioni, oltre che  insufficientemente irrorato dal sostegno del consenso collettivo.

 

Sono angolature diverse quelle da cui guardano all’Europa gli scritti che qui pubblichiamo. Ma c’è in tutti un’eguale consapevolezza che di Europa c’è un grande bisogno davanti alle sfide che ci pone questo difficilissimo mondo, un mondo che ci eravamo appena abituati a chiamare «il mondo del XXI secolo» e che ora colleghiamo invece al «dopo l’11 settembre». Allo stesso tempo, però, urge per tutti il bisogno di riforma, che è insieme messa a fuoco più netta della missione europea nel nuovo contesto e adeguamento alla missione di un assetto istituzionale che appare poco trasparente e tortuoso nelle sue decisioni, oltre che  insufficientemente irrorato dal sostegno del consenso collettivo.

Dell’Europa, insomma, tutti avvertiamo i successi passati e le prospettive future, ma tutti ne siamo insoddisfatti, al punto di pensare – come molti pensano – che essa sia un patrimonio che potrebbe addirittura disperdersi se le riforme a cui ci si accinge non fossero all’altezza dell’effettivo bisogno. Non è, questo, un paradosso? No, non lo è: i successi sono una realtà, perché è una realtà la pace saldamente introdotta fra i paesi europei, lo è il tessuto di valori che essi largamente condividono, lo è l’abbattimento delle frontiere interne e quindi il mercato unico, lo è l’Euro. Ma è realtà anche il cambiamento intervenuto nel mondo intorno a noi, fonte di nuove e diverse minacce (vere e presunte) rispetto a quelle del passato, lo sono i cambiamenti intervenuti nelle nostre stesse società e nelle prospettive, ben meno certe di quelle di un tempo, che esse offrono di sviluppo e di occupazione, lo sono i timori che in questo contesto suscita l’allargamento in buona parte delle nostre opinioni pubbliche. E mentre, quindi, cambiano le ansie, le aspettative e le domande che si rivolgono ai governanti nazionali ed europei, un’Europa già molto più larga di quella iniziale incontra crescenti difficoltà a trovare soluzioni davvero comuni ed è percepita come un coacervo di sedi istituzionali in cui tutti co-decidono su tutto e raggiungono con fatica soluzioni che sono indecifrabili sommatorie di brandelli di interessi nazionali diversi.

Può, quest’Europa, assicurarci la stabilità esterna così come ci assicurò in passato la pace fra di noi? Può giocare un ruolo nel mondo, può combattere davvero la povertà e il terrorismo che della povertà profitta, può difenderci dai cambiamenti climatici, dalla criminalità organizzata, dagli esorbitanti poteri economici e finanziari che cavalcano un mercato globale povero di regole e di istituzioni? E può invece rafforzare le nostre economie, riducendo le incertezze che su questo fronte gravano sulle nostre vite? Perché queste sono le domande che d’istinto gli europei rivolgono all’Europa, consapevoli che solo al di sopra di ciascuno dei nostri governi nazionali si possono giocare queste partite. Basta leggere i dati di «Eurobarometro» per averne conferma. Ma questo non basta ad avere fiducia nell’Europa, al contrario. Vengono insomma al pettine i nodi a cui prima accennavo e sui quali variamente si soffermano gli scritti qui pubblicati: il bisogno di un’Europa politica che esca dal pantano dei continui negoziati intergovernativi e divenga la sede, legittimata da tutti noi, in cui si assolve in chiave davvero comune alle missioni a cui nessuno può provvedere da solo; il bisogno di un’Europa che non abbia solo una più forte legittimazione democratica, ma che sia capace di rispondere con trasparente efficienza alle inquietudini dei suoi cittadini, tornando ad essere – come fu – ragione di speranze e di concreti benefici largamente diffusi; il bisogno di un’Europa in cui le riforme vengono calibrate su queste finalità e a queste finalità effettivamente rispondono (più che agli equilibri sovrastrutturali fra governi e istituzioni).

Dovrà essere l’impegno dei prossimi anni, quello per cui il Consiglio europeo di Laeken istituirà con tutta probabilità una Convenzione, che dovrà in primo luogo ascoltare (e in parte orientare) le opinioni pubbliche sul futuro europeo e quindi formulare raccomandazioni per la Conferenza intergovernativa del 2004. Italianieuropei comincia ad occuparsene fin dal suo primo numero con gli scritti di quattro europei di paesi diversi, che risultano al fondo molto vicini fra loro nella diagnosi e nelle attese, compreso – e lo sottolineo – il britannico Peter Mandelson. È, almeno, un inizio confortante.