La piena occupazione: una prospettiva francese

Di Jean Pisani-Ferry Giovedì 01 Novembre 2001 02:00 Stampa

La piena occupazione non è un sogno né uno slogan. Si tratta invece di un progetto ancora vitale, affermatosi alla fine della seconda guerra mondiale come un disegno elaborato dalle società industriali e lasciato cadere, almeno in Europa, nel momento in cui quelle società si videro costrette a far fronte a shock esterni come inflazione e ristrutturazione. Oggi appare chiaro che tale progetto era collegato a un modello economico e sociale troppo rigido per resistere ai drammatici cambiamenti che hanno segnato l’ultimo quarto di secolo. Tuttavia, la piena occupazione continua a rappresentare un obiettivo centrale per le società democratiche contemporanee. Perché il nostro scopo è a tutt’oggi quello di una società basata sul lavoro di cui la piena occupazione costituisca il principio fondante. Il tentativo di far rivivere questo progetto ripristinando una condizione di piena occupazione sarebbe stato giudicato un’utopia fino a poco tempo fa, almeno in Francia, se con la creazione negli ultimi quattro anni di 1,6 milioni di posti di lavoro l’economia francese non ne avesse fatto nuovamente un obiettivo realistico.

 

La piena occupazione non è un sogno né uno slogan. Si tratta invece di un progetto ancora vitale, affermatosi alla fine della seconda guerra mondiale come un disegno elaborato dalle società industriali e lasciato cadere, almeno in Europa, nel momento in cui quelle società si videro costrette a far fronte a shock esterni come inflazione e ristrutturazione. Oggi appare chiaro che tale progetto era collegato a un modello economico e sociale troppo rigido per resistere ai drammatici cambiamenti che hanno segnato l’ultimo quarto di secolo. Tuttavia, la piena occupazione continua a rappresentare un obiettivo centrale per le società democratiche contemporanee. Perché il nostro scopo è a tutt’oggi quello di una società basata sul lavoro di cui la piena occupazione costituisca il principio fondante. Il tentativo di far rivivere questo progetto ripristinando una condizione di piena occupazione sarebbe stato giudicato un’utopia fino a poco tempo fa, almeno in Francia, se con la creazione negli ultimi quattro anni di 1,6 milioni di posti di lavoro l’economia francese non ne avesse fatto nuovamente un obiettivo realistico. La tesi diffusa secondo cui le società sviluppate sarebbero condannate a una condizione di sottoccupazione permanente non è in realtà convalidata dall’analisi economica né dall’esperienza internazionale. Un numero crescente di paesi europei è infatti riuscito a passare dalla disoccupazione a livelli di piena occupazione. Il che non significa dare per scontato che questo traguardo sarà raggiunto spontaneamente, ma piuttosto che si tratta di un proposito ambizioso ma subordinato a una scelta collettiva i cui termini devono essere ancora definiti.

Fin dal 1997 il governo francese ha dato priorità assoluta al tema dell’occupazione, ottenendo risultati senza precedenti. Fra l’inizio del 1997 e la fine del 2000 sono stati creati circa 1,6 milioni di posti di lavoro, pari a 400.000 l’anno, con un tasso di creazione di lavoro dieci volte superiore ai vent’anni precedenti e doppio rispetto a quello degli anni Sessanta. In termini di occupazione il 2000 è stato l’anno che ha registrato la migliore performance; mentre gli ultimi tre anni sono fra i cinque che hanno riportato i tassi più alti del ventesimo secolo. In passato l’incapacità di ridurre la disoccupazione, e dunque di affrontare con efficacia una questione prioritaria nell’ottica dei cittadini, aveva di fatto diminuito la credibilità della politica economica nell’opinione pubblica francese.

Tuttavia i recenti successi sembrano avere ripristinato tale credibilità dimostrando che la Francia, contrariamente alle previsioni, non era inesorabilmente condannata a una crescita fiacca o alla disoccupazione di massa. E indicando allo stesso tempo che la via per tornare all’espansione non era in un atteggiamento auto-punitivo, ma piuttosto nell’esaltazione delle conquiste raggiungibili attraverso un impegno forte e sostenuto sia da politiche macroeconomiche che occupazionali. Da qui la convinzione che sia opportuno pensare in termini di obiettivi di lungo termine. Poiché le strade già percorse dimostrano di non essere più sufficienti, sono necessarie alcune correzioni capaci di fornire risposte adeguate alle trasformazioni del panorama economico prodotte dalle politiche già messe in atto. Una domanda insufficiente e un’elevata disoccupazione ciclica hanno gradualmente prodotto una realtà contraddittoria nella quale, ad esempio, un alto tasso di disoccupazione coesiste a fianco delle lamentele degli imprenditori per la permanenza di effettive difficoltà di assunzione. Nei prossimi anni sarà essenziale operare ulteriori aggiustamenti in relazione alla crescita dell’occupazione. Una buona politica economica non è infatti caratterizzata da un uso costante di strumenti sempre identici, quanto piuttosto dalla combinazione di obiettivi stabili e di disponibilità ad utilizzare gli strumenti di volta in volta migliori. Il successo che abbiamo conseguito deriva dalla sintesi di un’incoraggiante domanda globale e di una vigorosa incentivazione della domanda di lavoro attraverso politiche di riduzione dell’orario, programmi per l’occupazione giovanile e tagli ai contributi sociali per le categorie a basso salario nel quadro del potenziamento della «occupazione della crescita». A fronte di una situazione in continua evoluzione dovranno essere trovate nuove soluzioni per incoraggiare l’occupazione, modificando in parallelo il mix di strumenti macroeconomici e strutturali. Ciò non equivale ad affermare che una politica incentrata sull’offerta sia da preferire a una incentrata sulla domanda. Gli sforzi d’innovazione e la soprattassa sull’imposta societaria adottata per un breve periodo nel 1997 dimostrano, di fatto, che negli ultimi anni la politica economica non ha tralasciato del tutto l’offerta.  In un futuro prossimo la politica economica non dovrà prescindere dalla domanda, ma dovrà piuttosto assicurare che il livello della domanda sia tale da permettere che i benefici delle misure strutturali siano pienamente avvertiti. La chiave per il successo verrà fornita dall’integrazione di approcci di offerta e di domanda, dal momento che per essere efficace qualsiasi politica dell’offerta mirata a incoraggiare il livello potenziale di produzione deve procedere di pari passo con la crescita della domanda, affinché l’incremento nell’offerta potenziale si traduca in una produzione reale. Di conseguenza, è sicuramente importante continuare a promuovere una politica della domanda, ma l’integrazione delle due politiche dovrà costantemente adattarsi alle trasformazioni dell’economia.Tra disoccupazione strutturale e disoccupazione ciclica esiste una netta distinzione, di cui è necessario chiarire il significato. Il tasso di disoccupazione strutturale, difficilmente misurabile con esattezza, non deve essere considerato un livello naturale su cui non è possibile intervenire, né deve essere confuso con il «tasso di piena occupazione della disoccupazione». Tale concetto infatti si riferisce esclusivamente a un limite empiricamente incerto fra l’area in cui le politiche macroeconomiche riescono ad aver efficacia autonomamente e l’area in cui devono essere invece messe in atto congiuntamente a politiche strutturali. Le stime disponibili sul tasso di disoccupazione strutturale, indicato come Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment (NAIRU), lo collocano in Francia fra l’8% e il 10%. Sulla base dei recenti sviluppi demografici e macroeconomici, dell’impatto di diverse misure di politica economica (tagli ai contributi alla previdenza sociale o politiche attive d’impiego) e forse dell’Unione monetaria, gli econometristi offrono generalmente una visione pessimistica che sembra essere confermata dalle tendenze economiche. Benché non arrivi a scendere sotto i livelli del 1990, il tasso di disoccupazione fra i lavoratori qualificati è in rapida diminuzione. Il tasso di disoccupazione della manodopera non qualificata, tuttavia, resta molto alto: è pari al 5% per gli uomini con due o più anni d’istruzione superiore, ma raggiunge quasi il 20% per le donne che hanno portato a termine solo la scuola dell’obbligo. Secondo quanto riportano i sondaggi, malgrado il persistere di un alto tasso di disoccupazione, le difficoltà di assunzione sono attualmente a un livello paragonabile a quello del 1990. Inoltre, il fatto che i salari individuali non stiano crescendo molto, in contrasto con la situazione della fine degli anni Novanta, è probabilmente da attribuire ad accordi, la cui durata non è peraltro certa, di contenimento dei salari negoziati in ambito aziendale con l’introduzione della settimana di trentacinque ore. Esiste sicuramente un margine di correzione dato dall’assunzione negli ultimi anni di dipendenti troppo qualificati da parte delle aziende; dall’esistenza di un margine di sovrapposizione fra le diverse categorie di lavoro; dal fatto che l’offerta di lavoro qualificato sta iniziando a rispondere alla domanda; e dalla riduzione della disoccupazione strutturale, grazie agli effetti dell’isteresi nel contesto di una disoccupazione decrescente. Tuttavia, tale margine non deve essere sopravvalutato. Non sarebbe saggio infatti aspettarsi che il NAIRU scenda sotto l’8% spontaneamente e benché questa eventualità non sia da escludere è verosimile che sia necessario adottare misure strutturali affinché tale livello sia effettivamente raggiunto.

Per loro stessa natura le politiche tese ad intervenire su fattori strutturali agiscono più lentamente rispetto a quelle che si limitano a gestire la domanda: richiedono tempi più lunghi di definizione e possono comportare complesse consultazioni con le controparti sociali. L’accuratezza delle previsioni diventa quindi un elemento cruciale per consentire che siano disponibili gli strumenti appropriati al momento in cui se ne deve fare uso. La sfida principale che si profila a medio termine coincide con la predisposizione delle condizioni fondamentali per conciliare un alto tasso di crescita economica con una creazione sostenuta di posti di lavoro. A questo scopo la politica economica dovrà creare le basi per un saldo di crescita attivo rispetto all’area dell’Euro; realizzare una combinazione di politiche appropriata per l’area dell’Euro attraverso la coordinazione e il dialogo, puntando all’equilibrio sia tra politiche monetarie e di budget che tra politiche macroeconomiche e strutturali; incoraggiare la partecipazione e il ritorno al mercato del lavoro di coloro che ne sono esclusi; appoggiare misure a sostegno della domanda per i lavori a bassa qualifica; migliorare il funzionamento del mercato del lavoro.

Il successo di tale strategia dipende dalla realizzazione di alcuni presupposti. È necessario aumentare il potenziale di crescita e allo stesso tempo predisporre le condizioni affinché questo potenziale si materializzi; associare al declino della disoccupazione misure che riducano la sua componente strutturale in una fase ancora iniziale, in modo che la BCE possa adottare provvedimenti adeguati nella sua politica monetaria; condurre una politica macroeconomia attiva in grado di aumentare l’efficacia delle politiche destinate a stimolare l’offerta e ridurre la disoccupazione strutturale; assicurare che la promozione della partecipazione al mercato del lavoro vada di pari passo con un’elevata creazione di posti di lavoro; e sviluppare una politica macroeconomica in grado di sopportare i rischi che favoriscono la crescita e l’occupazione perché sostenuta da profondi cambiamenti nell’economia e nel mercato del lavoro. In sostanza si tratta di alzare la pressione dell’economia. Non c’è ragione per cui i tassi di crescita nei paesi dell’Unione monetaria siano identici. Anche per questo la Francia può aspirare a una crescita economica maggiore rispetto agli altri partner dell’area dell’Euro. Come indica l’esperienza delle grandi federazioni sul modello statunitense, delle regioni francesi o dell’Europa stessa, all’interno di un’unione monetaria possono coesistere significative e persistenti differenze nei tassi di crescita. E tuttavia riuscire a garantire all’economia francese un posto di primo piano nella media della crescita europea, una volta che il deficit di domanda ereditato dagli anni Novanta sia stato riassorbito, continua a essere una sfida impegnativa. Tale crescita non sarà comunque il risultato di una gestione autonoma della domanda; adottare una strategia di questo tipo rischierebbe in effetti di avere conseguenze fuorvianti, essendo la Francia parte di una regione con un’unica politica monetaria. Le regole del gioco macroeconomico sono chiare: spetta alla Banca centrale europea orientare la domanda per l’intera zona, circoscrivendo la libertà di manovra dei governi nazionali ad operare aggiustamenti  marginali in relazione al divario fra le situazioni cicliche specifiche del paese e quella dell’intera zona.L’economia francese dovrà seguire un approccio modellato sull’economia dell’offerta che punti a migliorare l’integrazione nell’economia internazionale, l’istruzione e la formazione, la ricerca, l’innovazione e l’investimento, nel quadro favorevole di un’Unione monetaria nella quale, in parallelo all’approfondimento del processo d’integrazione, si prospetta una progressiva omogeneizzazione della domanda fra i paesi membri (almeno nel settore del commercio). E dunque le innovazioni nei prodotti o i guadagni indotti dalla competitività si traducono più rapidamente in un incremento della produzione. Il successo di questa strategia richiede tuttavia che il profitto del capitale sia almeno pari a quello degli altri paesi dell’area dell’Euro. Ciò comporta alcune implicazioni di carattere fiscale: un indice di tassazione sul capitale più alto in Francia rispetto agli altri paesi dell’area dell’Euro, a meno che esso non poggi esclusivamente sul capitale immobile, rappresenterebbe un impedimento significativo alla crescita. È dunque nell’interesse della Francia realizzare una forma di coordinazione delle imposte tale da prevenire il rischio di una dannosa concorrenza europea sulla tassazione dei fattori mobili di produzione; e mantenere allo stesso tempo un adeguato livello di competitività nella tassazione per far sì che la Francia possa contare su una crescita più rapida e investire in misura maggiore rispetto a partner favoriti da profili demografici più stazionari.

Dalla politica economica europea dipende, di fatto, la possibilità di sfruttare appieno sia le opportunità attuali per sostenere una crescita non-inflazionistica dell’economia sia quelle che potranno delinearsi in futuro a seguito di politiche strutturali concepite per promuovere l’offerta o attivare il mercato del lavoro. A questo proposito, la coordinazione in campo europeo deve ancora compiere progressi decisivi per definire i requisiti necessari ad una crescita sostenibile. A livello macroeconomico era chiaro già prima che i termini commerciali iniziassero a deteriorarsi che i problemi di coordinazione fra governi non avevano trovato soluzione e che la combinazione delle politiche correva il pericolo di allontanarsi dalle condizioni ottimali prevalenti nell’area dell’Euro. Condizioni che equivalevano, in altri termini, all’intreccio tra una politica monetaria favorevole alla crescita e politiche di bilancio mirate alla riduzione del livello del debito pubblico. La divergenza delle reazioni nazionali di fronte ai recenti aumenti nei prezzi del petrolio ha confermato la difficoltà a elaborare risposte comuni per problemi che i diversi paesi si trovano a condividere.

Il collegamento fra politiche strutturali e politica monetaria è segnato tradizionalmente da una sorta di «dilemma del prigioniero»: la Banca centrale europea, per poter condurre una politica macroeconomica che produca crescita, deve avere la certezza che i governi si impegnino ad adottare quelle riforme strutturali che comporteranno la caduta del NAIRU. Da parte loro, tuttavia, i governi nazionali, per poter adottare tali riforme strutturali e compensarne le ricadute politiche, devono poter contare sul sostegno della Banca centrale. I governi europei si trovano di fronte a un problema di azione collettiva; il compito può rivelarsi complesso, ma d’altra parte la posta in gioco è altrettanto alta. In questo contesto diventa opportuno valutare se sia possibile strutturare un dialogo costruttivo sul concetto di NAIRU fra autorità monetarie, governi e partner sociali. Pur con i limiti e l’incertezza associati al NAIRU, nessuna delle misure alternative sembra offrire prospettive migliori. In ogni caso lo sviluppo di un dialogo strutturato fra i vari protagonisti della politica economica europea resta una questione chiave; le istituzioni e le procedure esistenti forniscono già un quadro appropriato, ma è necessario velocizzare i progressi verso l’attuazione concreta.

L’obiettivo della piena occupazione rimanda all’incremento della partecipazione al mercato del lavoro, al quale conseguiranno nei prossimi anni due importanti sviluppi. Il rapido invecchiamento della popolazione impone che sia invertita la tendenza alla riduzione nella partecipazione al mercato del lavoro alla fine della carriera lavorativa e che si ricrei un mercato del lavoro per chi ha più di cinquant’anni. La Francia ha condiviso per anni una sorta di consenso malthusiano, in base al quale una migliore distribuzione di un dato volume di lavoro veniva direttamente associata all’allontanamento dei lavoratori più anziani dal mercato del lavoro. Una politica prevalsa per troppo tempo, a cui sono seguiti alti costi sul piano finanziario, economico e umano. È dunque tempo di abbandonare i sussidi di Stato che ne hanno consentito l’applicazione. Troppe imprese continuano a sotto-investire nella formazione dei loro dipendenti che hanno superato una certa età, rendendosi conto solo in seguito che la loro produttività è diminuita e pretendendo allora che il governo si assuma i costi della loro gestione poco lungimirante. Non esiste più alcuna logica che di fatto giustifichi il sostegno a pratiche aziendali che, come queste, si rivelano indubbiamente discutibili. In parallelo, i dipendenti devono essere incentivati a rimanere attivi, anche se risultati ottimali si avrebbero solo con l’eliminazione degli attuali disincentivi. Modificare il metodo di calcolo delle pensioni ridurrebbe il forte carico di tassazione implicita sui contributi pensionistici per chi è arrivato a termine della propria attività lavorativa ed esalterebbe il valore di una partecipazione prolungata. Infine è opportuno prendere misure che impediscano la discriminazione contro i lavoratori più anziani e sviluppare politiche attive di promozione dell’occupazione.

La seconda conseguenza, relativa alla transizione fra inattività e occupazione, si delinea come una questione prioritaria essendo oggi ampiamente documentato che il sistema attuale di assistenza sulla base dell’accertamento delle condizioni economiche costituisce un ostacolo effettivo per il ritorno all’attività lavorativa. Nonostante siano in molti a superare questa barriera, rinunciando all’assegno integrativo e accettando un salario orario al netto d’imposta da cinque a dieci volte inferiore al salario minimo, i politici non sono autorizzati a ignorare il fatto che l’attuale sistema di contributi e trasferimenti sia decisamente contestabile. Ricostruire una società del lavoro significa assicurare che il sistema agevoli effettivamente le condizioni per poter svolgere la propria attività lavorativa, così come lavorare per la giustizia sociale vuol dire garantire che le tasse sul lavoro delle classi più deboli non impongano una penalizzazione maggiore rispetto a quelle applicabili sul lavoro delle classi più forti.

In quest’ottica, il governo francese ha rafforzato il sistema di incentivi per i beneficiari a reddito minimo che accettano un impiego; ha modificato il sistema di tassazione e riformato quello di assistenza per gli alloggi; optato per una riduzione nei contributi integrativi di previdenza sociale per i dipendenti con i salari più bassi, perseguendo l’obiettivo di accrescere il reddito relativo derivante dagli impieghi a salario minimo. Benché positiva in linea di principio, questa misura porta tuttavia con sé l’effetto perverso di accrescere la trappola del basso salario; non sarà sicuramente sufficiente a risolvere la trappola dell’inattività, né a sciogliere il problema di chi ripiega su lavori parttime ottenendo solo un modesto miglioramento in termini di reddito. Inoltre, come suggerisce l’esperienza di altri paesi, l’introduzione di un credito d’imposta sul reddito da lavoro potrebbe avere un impatto significativo sul comportamento verso l’occupazione, producendo un effetto redistributivo che potrebbe renderlo un utile strumento di politica fiscale. Politiche occupazionali di questo genere possono temporaneamente determinare un effetto di emersione della sottoccupazione, traducendosi in una riduzione più lenta delle statistiche sulla disoccupazione. Ciò che all’apparenza potrebbe essere considerato un costo è in realtà un progresso: il disoccupato è una persona alla ricerca di un’occupazione, e ciò implica di fatto che la transizione dall’inattività all’occupazione passi spesso per un’occupazione di qualsiasi genere.

In parallelo alla crescita dell’occupazione, la disoccupazione ciclica della manodopera altamente qualificata tende rapidamente a diminuire; ma il divario resta, nonostante che la disoccupazione per le categorie meno qualificate si ridimensioni. Di conseguenza l’economia francese torna a seguire un orientamento tendenzialmente dicotomico, analogo a quello degli ultimi anni Ottanta: piena occupazione per i lavoratori maggiormente qualificati da un lato ed elevata disoccupazione per i meno qualificati dall’altro. Sia le analisi disponibili che l’esperienza internazionale indicano che il declino nella domanda di lavoro a bassa qualifica è di carattere strutturale. Le attuali tendenze demografiche non saranno dunque sufficienti a risolvere il problema. Sebbene siano stati compiuti sforzi considerevoli per migliorare il sistema d’istruzione, in Francia i giovani che entrano sul mercato del lavoro non raggiungono ancora uno standard soddisfacente di competenze di base. È dunque necessario dare maggiore spazio alla formazione, mantenendo i tagli nei contributi previdenziali per i lavoratori a basso reddito senza escludere la possibilità di ridurli ulteriormente in futuro. Sul lungo periodo sarà utile riflettere sull’opportunità di ampliare ulteriormente questo tipo di tagli, attualmente collegati solo ad effettive riduzioni di orario. Questa politica ha già dimostrato di essere efficace.Sarà anche importante trovare una soluzione alla questione delle correzioni previste per i salari minimi e ai problemi posti dalla legge sulla riduzione dell’orario lavorativo. Le attuali dinamiche e le disposizioni stabilite dalla legge provocheranno un aumento del salario minimo del 10% entro il 2005, superiore ai risultati che si potranno raggiungere con gli aumenti di produttività e con i tagli già regolamentati nei contributi previdenziali. D’altra parte, gli aumenti nei costi associati al salario minimo hanno un effetto immediato e determinante sulla probabilità che i lavoratori interessati continuino a essere impiegati. Per controbilanciare l’effetto dello

shock previsto è pertanto opportuno affrontare questo problema in tempi brevi.

Nel caso del lavoro qualificato il timore di una carenza strutturale deve essere analizzato in prospettiva, in primo luogo perché il costo della manodopera assume in questo contesto un ruolo ben definito nell’equilibrio fra offerta e domanda, anche se non è esclusa la via della liberalizzazione delle politiche d’immigrazione. Qualsiasi governo che si proponga di assumere manodopera qualificata su larga scala per rimpiazzare un alto numero di lavoratori uscenti dovrà adattarsi nel corso dei prossimi anni a condizioni di mercato più difficili, con la verosimile conseguenza di dover diluire nel tempo le assunzioni, fare ricorso a manodopera a bassa qualifica (per poi formarla in seguito), contenere le assunzioni e probabilmente prolungare la natura progressiva dei contributi previdenziali.Il mercato del lavoro francese non opera in modo efficiente: è un mercato quasi inesistente per chi ha più di cinquant’anni; impone ai giovani il peso degli aggiustamenti agli

shock economici e alle fluttuazioni cicliche; non è in grado di reintegrare, nonostante i recenti progressi, chi se ne è allontanato. In condizioni di debolezza della domanda, la questione veniva percepita principalmente in termini di equità sociale. Ma dal momento in cui l’occupazione ha ripreso vigore un miglior funzionamento del mercato del lavoro diventa cruciale per promuovere la crescita e ridurre la disoccupazione. L’equilibrio fra offerta e domanda di lavoro diventa quindi essenziale per eliminare gli effetti della disoccupazione di lungo periodo e, più in generale, per ridurne la durata. A questo scopo deve essere fornito un sostegno individualizzato per i disoccupati in linea con i programmi che sono stati introdotti negli ultimi anni. Questa politica dovrebbe essere sostenuta da un’effettiva condizionalità nella distribuzione degli assegni di disoccupazione, in parallelo alla ponderazione di misure appropriate per ridurre le barriere alla mobilità geografica dei lavoratori.

Per riconquistare una condizione di piena occupazione è necessario che la strategia appena delineata sia messa in atto sul lungo periodo tenendo conto di un contesto internazionale che può anche essere caratterizzato dall’instabilità. L’equilibrio fra le varie componenti dovrà variare nel tempo in risposta a sviluppi interni e internazionali. Devono quindi essere osservati due imperativi metodologici. Il primo presuppone che le linee principali della strategia siano stabili e chiaramente recepite dai vari attori coinvolti. Nei paesi in cui si è ristabilita una condizione di piena occupazione il successo è dipeso in larga misura dalla stabilità di lungo periodo delle scelte strategiche, aspetto naturale in un’area di politiche in cui l’informazione è imperfetta e le aspettative delle aziende e dei lavoratori si modificano lentamente. Il secondo imperativo suggerisce, integrandosi con il primo, che la strategia debba poter contare sul maggior sostegno possibile. Non essendo infatti la piena occupazione una questione che riguarda solo i governi, il raggiungimento di questo obiettivo deve coinvolgere un’ampia serie di attori: francesi ed europei, governi e autorità monetarie, Stato e partner sociali. La strutturazione del dialogo fra i vari protagonisti diventa basilare per ottenere un accordo sugli elementi principali della strategia e chiarire la distribuzione delle responsabilità – in breve, per coordinare le loro attività. In conclusione, solo attraverso la coerenza con questi due imperativi riusciremo a portare a compimento il nostro progetto di piena occupazione.