Papa Francesco tra ecclesiologia e cattolicesimo politico

Di Paolo Corsini Mercoledì 16 Dicembre 2015 17:01 Stampa

Il rapporto tra Chiesa e cattolicesimo politico vive con papa Bergoglio una stagione nuova. Non solo appare più accentuata l’ispirazione universale della sua vocazione, ma mutano in senso radicale gli assi portanti del suo messaggio, ispirati ora al dialogo anche con i non cristiani, al discernimento della realtà alla luce del Vangelo, alla scelta di posizionarsi sempre nei campi più difficili della società con spirito misericordioso. L’impronta “impolitica” che papa Francesco assegna al suo pontificato determina così il rifiuto di ogni ingerenza e invasione in campo politico e insieme una maggiore autonomia della Chiesa.


Intendo in questo contributo seguire due piste di riflessione: da un lato le tappe salienti del rapporto tra Chiesa e cattolici impegnati in politica, così come è venuto sviluppandosi dal turning point della seconda metà degli anni Ottanta, dall’altro alcuni rilievi sul pontificato di papa Francesco, con particolare riguardo all’elaborazione ecclesiologica e alle scelte che ne discendono, nonché alle conseguenze che si riverberano sul cattolicesimo politico italiano.

Sul primo punto alcune date e i passaggi essenziali. Nel 1985 a Loreto la fissazione del nesso che lega unità politica dei cattolici e dottrina sociale, non semplicemente come esito o riscontro di un dato storico proprio della vicenda repubblicana, ma come scelta fondativa della “pastorale della presenza”. Dieci anni dopo, allorché si è ormai consumata un’intera fase che ha visto implodere la “Repubblica dei partiti”, nonché la conclusione della parabola democristiana con la fondazione del PPI da parte di Mino Martinazzoli e la successiva lacerazione in due formazioni dislocate in campi diversi, a Palermo nel 1995 la presa d’atto della nuova situazione da cui promanano precisi corollari: distanza dai partiti che, di fatto, non si traduce in equidistanza, e insieme, vincolo di adesione per i credenti ai valori dell’antropologia e dell’etica cattolica così come espressi nel corpo dottrinale. In sostanza il riconoscimento dell’avvenuta diaspora, del processo di progressivo pluralismo dei cattolici che, tuttavia, non può significare il dissolvimento di una loro sostanziale convergenza verso l’unità culturale e valoriale, unità da intendersi come premessa da cui possono sì scaturire scelte diverse, ma non tali da pregiudicare l’obiettivo di una piena riconoscibilità in politica. È questo l’incipit della “linea Ruini”, quella che, con approssimazione assai puntuale e convincente, Guido Formigoni ha definito la prospettiva “istituzionale-sociale” imperniata su di una ricentratura gerarchica. Essa finisce con il marginalizzare e devitalizzare la “scelta religiosa”, adottata in precedenza dall’Azione cattolica, nonché supportata da taluni settori del mondo associativo, perseguendo l’intento di porre rimedio a quella che viene giudicata come una presenza sempre più irrilevante dei cattolici nel panorama politico, nonostante un cattolico – ma un “cattolico adulto” qual è Romano Prodi – sia alla testa dell’“alleanza politica di governo”, vale a dire l’Ulivo, che guida il paese in momenti diversi e successivi.

Tale linea viene caratterizzandosi per due connotati ben riconoscibili. Da un lato l’enfasi, la proclamazione dei cosiddetti “valori non negoziabili” e la sottolineatura di temi eticamente sensibili in nome di un’ipotesi strettamente identitaria, dall’altro l’impegno ad affermare la presenza di una Chiesa istituzione forte, in grado di interloquire direttamente con la politica e le sue articolazioni, nonché di presidiare i mondi vitali e la realtà sociale fino a organizzarsi come centro di pressione a tutela degli interessi cattolici e a garanzia dell’unità morale della nazione. Un disegno di impronta neoguelfa – il papa e i vescovi paladini dell’etica pubblica – accompagnato da una progressiva riclericalizzazione della Chiesa. Un disegno rispetto al quale vengono tuttavia manifestandosi esperienze e voci se non apertamente contrapposte, certamente distinte, comunque dissonanti, ispirate alla proposizione della “differenza cristiana” (Enzo Bianchi), al recupero e all’inveramento del magistero e del lascito conciliare (Carlo Maria Martini).

Messa alla prova dall’evoluzione in senso bipolare del sistema dei partiti – un bipolarismo spurio e incompiuto, comunque non riducibile a un “bipolarismo dei valori” – la “linea Ruini” ha certamente prodotto come conseguenza sia una svalutazione del ruolo mediatorio della politica nel quadro di un affrontement tutto istituzionale, sia una riduzione del laicato cattolico in uno spazio periferico nel quale peraltro vengono privilegiate le componenti più propense all’allineamento o più sintonizzate, e ridotte a un ruolo prevalentemente testimoniale, quelle, soprattutto di tradizione cattolica democratica e cristiano-sociale, che vivono con sofferenza il primato della “Chiesa della politica” sulla “Chiesa della profezia”.

Nell’illusione fuorviante di un cristianesimo “religione civile”, si è altresì alimentato un costume retto su una sorta di “doppia morale”, di “morale separata”, quell’etica che si riconosce nel formalismo dei disegni di legge, negli atti di governo e sorvola sulle pratiche, sui costumi, sugli esempi di vita. Sino alla “teoria della contestualizzazione” evocata da monsignor Fisichella a proposito di Silvio Berlusconi, del suo linguaggio, del suo stile, dei suoi comportamenti. Nei confronti del centrosinistra non sono mancate prese di posizione critiche tese a incalzare il governo e i partiti che lo sostenevano su alcuni temi cruciali rispetto ai quali la Chiesa rivendica una sorta di potestas indirecta. È il caso della scuola, dei processi educativi-formativi, della famiglia, delle coppie di fatto, della fecondazione assistita, della soggettività femminile, della dichiarazione anticipata di trattamento di fine vita, insomma di tutto il complesso dei problemi bioetici. Allo stesso modo nei confronti del centrodestra si annoverano interventi critici che riguardano la preservazione dell’unità nazionale di fronte alle velleità secessionistiche, le politiche dell’immigrazione e dell’accoglienza, le spese militari, le missioni internazionali, la riduzione degli investimenti nel campo della cooperazione.

Non v’è, tuttavia, dubbio che si assista a un evidente sbilanciamento a favore della coalizione capeggiata da Silvio Berlusconi, ritenuta più affidabile quanto alla disponibilità a sostenere quell’agenda nella quale campeggiano i temi fondamentali di battaglia del tradizionalismo cattolico – centrali gli appuntamenti del referendum sulla legge 40 e il family day –, una coalizione abile a mimetizzare le componenti laiciste e neopagane, le une spesso ammantate di ateismo cristiano e di devozione senza fede, le altre pronte a farsi corifee di un “partito di civiltà cristiana” sino alla trasmutazione, quanto al loro significato e valore, di parole centrali nel lessico cattolico quali persona, famiglia, diritto, responsabilità, dovere, prossimità, comunità.

L’autorità religiosa si erige, nello schema ruiniano, a unica, accreditata interprete della legge naturale, luogo di inveramento dei principi non negoziabili, non suscettibili di una mediazione da declinare in termini politici in modo da promuovere norme in grado di regolare la convivenza associata di tutti – credenti, non credenti, diversamente credenti – nel rispetto della laicità dello Stato. Uno schema peraltro perseguito con ferma determinazione, incurante dello “scisma silenzioso” operante nell’area cattolica e dagli scarsi effetti solo a considerare due fenomeni: a livello antropologico e del costume un grado sempre più basso di acculturazione del messaggio cristiano e, sul piano politico-elettorale, una sempre più alta identificazione tra voto degli italiani e voto cattolico in rapporto a una inarrestabile perdita di consensi e di peso delle formazioni centriste di dichiarata ispirazione cristiana.

Infine, l’ultima tappa all’interno del processo qui sommariamente delineato. Una tappa che introduce parziali modificazioni e rettifiche, segnalando una curvatura della linea adottata per un intero ventennio, in parallelo alla crisi del berlusconismo e ai suoi stadi di sviluppo: la formulazione della necessità di una presenza visibile e incisiva dei cattolici in quanto tali sulla scena politica. È questa una storia più recente, è la vicenda di Todi 1 e Todi 2 a partire dall’ottobre del 2011, vicenda intestata a settori significativi dell’associazionismo, ma promossa sulla base dell’appello di un Forum in stretto rapporto con la CEI. Resta il fatto che, al di là del battage mediatico, del dibattito che ha contrassegnato gli appuntamenti umbri e che si è riverberato in ambienti tutto sommato circoscritti, l’esito delle due iniziative si è rivelato assai modesto. E non solo per il fatto che alcuni dei protagonisti si sono chiamati fuori, ma soprattutto perché l’ipotesi di fondo – rilanciare la forma storica del cattolicesimo politico in chiave neocentrista – non trova adeguata opportunità di affermazione, soprattutto considerando che il terzo polo, almeno per questa fase, si identifica nella presenza del grillismo sub specie del Movimento 5 Stelle. Quanto, infine, alla sfolgorante affermazione di Matteo Renzi sul palcoscenico della politica nazionale, e oggi alla guida del governo, è fenomeno così dirompente e troppo legato alla cronaca più ravvicinata perché se ne possa proporre una decifrazione convincente e penetrante, anche dal punto di vista della gerarchia ecclesiastica i cui vertici, pur con le avvertenze proprie di un linguaggio sempre prudente e ovattato se si escludono le attuali prese di distanza e l’avversione apertamente manifestata nei confronti dei recentissimi progetti di legge sulle unioni civili, non hanno mancato di segnalare la ruvidezza della rupture praticata a carico di Enrico Letta e della sua compagine lungo una linea – per quel che attiene il profilo dell’identità politica cattolica – di secolarizzazione, di mondanizzazione compiuta di quel che resta dell’esperienza democristiana.

Con l’elevazione al soglio pontificio di papa Francesco la situazione si rimette in movimento e l’intero impianto che ha ispirato linee di interpretazione e orientamenti viene posto in discussione. Non che la Chiesa distolga il proprio sguardo dall’Italia, ma lo rivolge in termini rinnovati nel quadro di una vocazione che accentua la sua ispirazione universale. Sono molteplici i gesti – su tutti, per significato e valenza simbolica, la presenza a Lampedusa, luogo per eccellenza del dolore, della morte senza speranza –, le prese di posizione, i pronunciamenti, i contributi magisteriali da parte di papa Francesco volti a una rinnovata definizione dell’apparato teologico concettuale. Passaggi che attestano l’inaugurazione di una svolta – una vera e propria torsione – rispetto alla linea a lungo invalsa. A partire da una disposizione, diremmo metodologica, che – il testo di riferimento è il discorso alla comunità degli scrittori de “La Civiltà Cattolica” del 14 giugno 2013 – individua i propri assi portanti nel dialogo «con tutti gli uomini, anche con coloro che non condividono la fede cristiana», nel discernimento – «offrire gli elementi per una lettura della realtà alla luce del Vangelo» –, nella frontiera – posizionarsi «nei campi più difficili, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali» –, frontiera non intesa come confine, barriera, piuttosto come orizzonte che evoca il Dio dell’esodo.

Il paradigma è quello esemplarmente incarnato dal gesuita beato Pietro Favre, il primo compagno di Ignazio, il “prete riformato”, partecipe dei colloqui di Worms e Ratisbona (1540-41), chiamato al Concilio di Trento da Paolo III come teologo. Un paradigma che papa Bergoglio ricostruisce ed esplicita nella conversazione “La mia porta è sempre aperta” con padre Antonio Spadaro, pubblicata il 19 settembre 2013. Qui, per dire di una condizione dello spirito, di un’attitudine pastorale, il richiamo al motto con cui il papa imprime il suggello alla propria missione, il miserando atque eligendo tratto dalle “Omelie” di Beda il Venerabile a commento dell’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, là dove, a proposito di miserando, «a me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando». Così papa Francesco. Un termine che accompagna la compilazione di un dizionario in cui insistentemente ricorrono espressioni come “pensiero aperto”, “missionarietà”, “comunità”, “santo popolo di Dio”, “santa madre gerarchia”, “santità”, “pazienza”, forse il termine che più dice di una condivisione umana perché rimanda a hypomonè – farsi carico – ma pure va inteso come “costanza nella vita”, la costanza perseverante di questa condivisione. Insomma il papa “che viene dalla fine del mondo” – che prospetta un “altro” mondo – per il quale la Chiesa è “ospedale da campo dopo una battaglia”, è “madre e pastora misericordiosa” – “chi sono io per giudicare?” –, in cui il confessionale non è luogo di tortura e l’annuncio è previo alla stessa obbligazione morale, in quanto «una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza», e l’annuncio «è ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore come ai discepoli di Emmaus». In questa visione torna centrale la dimensione profetica intesa come fare ruido, rumore, chiasso, “qualcuno – questa la provocazione – dice (fare) casino”. Sino a concludere che “funzione profetica e struttura gerarchica non coincidono”, anche se bisogna “camminare insieme” – un’eco del cardinale Michele Pellegrino? –, restituendo alle conferenze episcopali il loro ruolo di “organi di aiuto” e non di censura.

In questa cornice in cui all’ottimismo irenico si contrappone la speranza cristiana, rivalutando il ruolo del dubbio e della stessa incertezza, si inserisce una piena valorizzazione del Concilio Vaticano II, come enorme sforzo di rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Una cultura di fronte alla quale la Chiesa deve tenere le porte aperte non preoccupata di fortificare confini, ma sollecita a cercare l’incontro. Torna altresì insistito il profilo di una Chiesa dei poveri, che nelle periferie del mondo, del bisogno, degli ultimi ridotti ad avanzi da vite di scarto afflitte da miserie a fragilità, individua il luogo privilegiato del discernimento della realtà poiché «tutto il cammino della nostra redenzione è segnato dai poveri» (“Evangelii gaudium”, n. 197). Qui non siamo solo in presenza di una versione deideologizzata della teologia della liberazione, ma di una rilettura attualizzata della “Populorum progressio” di papa Montini, attraverso la ripresa di un filone della tradizione teologica che da Giovanni XXIII giunge fino a papa Wojtyla e poi a Benedetto XVI nella denuncia del dramma della povertà, delle sue basi materiali e strutturali insite nello scambio ineguale tra Nord e Sud, della violenza inferta all’uomo attraverso lo sfruttamento, della sua riduzione a mezzo sino alla recente tematizzazione – con l’enciclica “Laudato si’” – della questione ambientale come questione antropologica e sociale. Del resto un’evocazione, seppur indiretta, del Paolo VI dell’“Evangelii nuntiandi”, si coglie pure nella valutazione da parte di papa Bergoglio del processo di secolarizzazione che, a suo avviso, configura l’essere minoranza non come disgrazia per i cattolici, ma come appello alla missionarietà. Si tratta dunque, per i credenti, di avviare processi più che di occupare spazi, quanto alla dimensione sociale dell’evangelizzazione perché – così nella “Evangelii gaudium”, n. 172 – «nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità».

Inclusione sociale dei poveri, cura delle fragilità, bene comune, pace costituiscono le arcate su cui reggere l’impegno della Chiesa volto alla propria “conversione pastorale”. Essa si fonda su quattro assiomi: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte. L’approfondita disamina delle patologie sociali condotta nell’esortazione apostolica “Evangelii gaudium” (n. 52-60), unitamente alla ridefinizione degli aspetti salienti dell’insegnamento della Chiesa (n. 182-191) in vista di una promozione integrale di ogni essere umano, si accompagna alla sottolineatura che se da un lato la comunità ecclesiale «non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia», dall’altro «il giusto ordine della società e dello Stato è il compito principale della politica». Un’esortazione ad assumere, dunque, un impegno per la polis in un tempo di crisi che sottopone lo sforzo teso all’inculturazione della fede, alle tentazioni dell’accidia, del pessimismo, della “mondanità spirituale”. Quest’ultima nella duplice accezione dello gnosticismo soggettivistico e del neopelagianesimo autoreferenziale, prometeico, che finisce per produrre «un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e classificano gli altri e invece di facilitare l’accesso alla Grazia si consumano le energie nel controllare». Temi e motivi di riflessione già anticipati nella quarta parte dell’enciclica “Lumen Fidei” del 29 giugno 2013, enciclica ripresa da Benedetto XVI, dove l’accento batte sulle implicazioni sociali della fede da praticare nella città che “Dio prepara per loro” (Eb. 11,16).

È dunque alla luce di questo impianto teorico, di questa ermeneutica iscritta dentro la svolta antropologica della teologia contemporanea, così come di scelte e dati concreti che segnano evidenti discontinuità, se non vere e proprie cesure – la vicenda dello IOR, il rinnovo di ruoli e incarichi in posizioni chiave nella diplomazia vaticana – accanto a modalità di comunicazione e stili di vita inusuali, che papa Bergoglio assegna al suo pontificato un’impronta “impolitica”, secondo un registro pastoraleprofetico. Esso non implica assenza o estraneità, piuttosto distinzione e diversità che comportano rifiuto di ogni ingerenza e invasione in campo politico – un Tevere più largo si sarebbe detto un tempo – e insieme autonomia della Chiesa secondo una linea che restituisce pienamente al laicato cattolico l’onere, il diritto, il dovere di scelte coerenti, al di là di tentazioni collateralistiche, di stampo moderato, pur ancora presenti in taluni e non marginali settori dell’associazionismo cattolico.

Testimonianza della comunità dei credenti e cultura della mediazione per chi si ispira al messaggio evangelico sono i due poli attorno a cui gravita il nuovo rapporto che la Chiesa di papa Francesco intende istituire con la politica italiana nel nome della “differenza cristiana” anziché dell’attivismo di pressione. Questo non significa agnosticismo o indifferenza; piuttosto solleva interrogazioni radicali sulle strutture della vita sociale, sulla stessa insostenibile leggerezza che la politica è venuta assumendo. Con un’ulteriore implicazione. Come ha scritto persuasivamente Franco Monaco in “Jesus”, non è vero che «con Papa Francesco si possono misconoscere e archiviare i cosiddetti principi non negoziabili e la questione antropologica, cioè i due mantra della stagione precedente. Solo che i primi (i principi) sono affidati alla mediazione culturale e politica » all’interno del processo democratico di produzione della norma, e «la seconda (la questione antropologica) acquista rilievo più sul versante dell’evangelizzazione e della sfida educativa che non su quello della politica ». Una pedagogia della fede, dunque, che ricerca il dialogo, rifugge ogni integralismo e va, consapevole, incontro al rischio della verità. Un’opportunità da cogliere in vista di un rilancio della tradizione culturale e politica del cattolicesimo democratico italiano e dell’intera vita civile del nostro paese.