Andrea Graziosi, L'URSS di Lenin e Stalin. Storia dell'Unione Sovietica, 1914-1945

Di Elena Dundovich Martedì 13 Maggio 2008 20:15 Stampa

Chiunque desideri oggi avvicinarsi alla complessa quanto affascinante storia del mondo sovietico non potrà prescindere dalla lettura del poderoso lavoro di Andrea Graziosi di cui la casa editrice Il Mulino ha pubblicato il primo volume, relativo al periodo 1914-45. Il libro è frutto di un amplissimo lavoro di lettura delle fonti pubblicate prima e dopo l’apertura degli archivi ex sovietici, avvenuta dopo il crollo dell’URSS nel dicembre del 1991, in lingua russa e non, e offre quindi il primo tentativo, molto ben riuscito, di offrire una sistematizzazione comparata di quanto pubblicato prima e dopo l’accesso diretto alla documentazione di epoca sovietica, tenendo ben presenti le talvolta forti novità interpretative che proprio quell’accesso ha consentito agli studiosi della storia politica, economica, sociale, internazionale dell’URSS.

Chiunque desideri oggi avvicinarsi alla complessa quanto affascinante storia del mondo sovietico non potrà prescindere dalla lettura del poderoso lavoro di Andrea Graziosi di cui la casa editrice Il Mulino ha pubblicato il primo volume, relativo al periodo 1914-45.

Il libro è frutto di un amplissimo lavoro di lettura delle fonti pubblicate prima e dopo l’apertura degli archivi ex sovietici, avvenuta dopo il crollo dell’URSS nel dicembre del 1991, in lingua russa e non, e offre quindi il primo tentativo, molto ben riuscito, di offrire una sistematizzazione comparata di quanto pubblicato prima e dopo l’accesso diretto alla documentazione di epoca sovietica, tenendo ben presenti le talvolta forti novità interpretative che proprio quell’accesso ha consentito agli studiosi della storia politica, economica, sociale, internazionale dell’URSS. Piani che Graziosi riesce a tenere uniti in una dialettica di analisi invidiabile e che gli permette di mantenere in tensione gli estremi di una storia complessa che si giocò, e fu giocata dai suoi protagonisti, su più livelli, spesso in contraddizione tra di loro: quello della ricerca di una soluzione al problema contadino russo, “il” grande problema della storia bolscevica sino alla dekulakizzazione dei primi anni Trenta; la ricerca di una soluzione al dilemma ideologico circa il rapporto esistente tra grande guerra, rivoluzione, ideologia, guerra civile, mobilitazione interna, repressione; la ricerca di una soluzione alla questione delle nazionalità; il difficile rapporto tra ideologia ed economia laddove il marxismo spesso «limitava gli orizzonti culturali e travisava la percezione si una situazione molto diversa» (p. 208). Due sono i concetti chiave che, come un filo di Arianna, fanno da guida durante la lettura del libro e consentono al lettore di concentrarsi contemporaneamente su questi diversi piani: in primo luogo quello di mnogoukladnost’ (un’espressione già usata da Lenin dopo il 1917 per indicare la natura del paese che i bolscevichi avevano appena conquistato), vale a dire l’interpenetrazione di più sistemi socioeconomici (uklad) e quindi di più «periodi storici» in un solo paese e in un medesimo tempo. Una convivenza già individuata all’inizio del Novecento da Parvus e Trockij, che gli avevano dato il nome di «legge dello sviluppo combinato», secondo la quale in paesi in velocissimo sviluppo settori appartenenti a più epoche storiche vivono fianco a fianco, provocando fratture e fragilità di cui i rivoluzionari potevano approfittare (p. 27). E in effetti, sia la storia dell’impero russo, che conobbe nella seconda metà dell’Ottocento una fase di rapido sviluppo, sia quella dell’Unione Sovietica almeno sino al 1939, si prestano abbastanza bene a un’interpretazione basata sui passaggi da un tipo di mnogoukladnost’ all’altro. Fondamentale per la trama del libro appare inoltre il concetto di «assalto e ritirata», un’espressione che l’autore usa soprattutto per definire il periodo 1929-30, ma che può essere esteso come chiave di lettura per tutto il periodo in cui, una volta preso il potere, i bolscevichi si trovarono impegnati nel primo e più grande esperimento di ingegneria sociale e politica che la storia abbia mai conosciuto. La storia sovietica ha quindi un andamento sinusoidale partendo dall’idea di costruire un sistema politico e socioeconomico nuovo che desse una soluzione originale ai problemi posti dal primo conflitto mondiale e dalla disgregazione degli imperi (p. 13).

Tre sono inoltre le caratteristiche ricorrenti in tutti i periodi cronologici in cui l’opera è suddivisa e che l’autore tiene sempre a mente lungo il dipanarsi delle pagine. In primo luogo l’imprevedibilità e gli esiti sorprendenti che ebbero le vicende sovietiche, animate da una serie di paradossi, il principale dei quali fu il raggiungimento di risultati spesso diversi da quelli attesi; una singolarità, questa, che si riflette in maniera prepotente nella conseguente ovvia difficoltà di ricostruire e interpretare quelle vicende anche a causa della concorrenza di ulteriori elementi: l’assenza prima di fonti dirette, sino a quando il regime è esistito, poi l’abbondanza, dopo l’apertura degli archivi, di una documentazione quasi esclusivamente di provenienza ufficiale – e la cui lettura deve essere pertanto sempre cauta – e scritta in un linguaggio, quello sovietico, ormai morto e difficile da far rivivere, ma le cui sfumature ideologiche risultano invece di primaria importanza. In secondo luogo vi è lo sviluppo, soprattutto nel secondo dopoguerra, di una storiografia manichea, ideologicamente divisa tra sostenitori e detrattori di un’esperienza che spesso veniva ricostruita perdendo i tratti reali del suo concretizzarsi nella storia. E infine l’intreccio anomalo tra storia nazionale e storie nazionali tanto in epoca zarista che sovietica, laddove quindi si deve sempre tenere presente l’intreccio tra decine di culture, religioni e nazioni confluite poi in un’unica grande storia. Su tutte e tre queste caratteristiche sovrasta, regina assoluta, una quarta che emerge a tinte fosche ma sempre lucide e obiettive da tutte le pagine del volume: la tragicità che fece di quell’epoca, come dice l’autore stesso, «una storia di scosse ripetute: guerra, guerra civile e carestia del 1921-1922, rivoluzione dall’alto e grandi carestie del 1929-1933, ancora guerra e carestia del 1937-1949 (…). Una storia tragica – aggiunge Graziosi – inscritta tuttavia in una parabola straordinaria che, iniziando con una guerra civile quasi genocida, tocca il genocidio con le carestie del 1931-1933, passa attraverso la guerra (…). Per poi trasformarsi in un’ansiosa ricerca di tranquillità e terminare con un segretario del Partito comunista che annuncia in televisione, in una notte di Natale, il pacifico scioglimento di uno stato già così potente e violento (…). Questa paradossale evoluzione dà subito la misura dell’imprevedibilità che rende la storia sovietica così interessante e viva anche dal punto di vista intellettuale (…) a colpirci sono piuttosto il carattere e gli esiti sorprendenti delle vicende sovietiche, a cominciare da quella rivoluzione di febbraio che nessun rivoluzionario si aspettava, nemmeno Lenin» (pp. 9-10).

Molti sono i temi centrali intorno ai quali si svolge la narrazione dell’autore, ricostruiti con dovizia di particolari e sui quali il lettore è indotto a riflettere: il ruolo delle classi sociali, soprattutto di quella operaia e delle burocrazie che il sistema cominciò presto a creare; quello dell’ideologia, che Graziosi identifica con una sorta di parareligione su cui si fondarono non solo lo Stato sovietico, ma anche le speranze e le delusioni di milioni di persone sia del Primo che del Terzo mondo; il rapporto tra Stato ed economia e quello tra Stato, contadini, modernizzazione, nazionalizzazione (o statizzazione) delle masse da un lato e, dall’altro, il fenomeno della massificazione dello Stato, ossia della conquista di quest’ultimo da parte delle masse. Costante appare inoltre, lungo tutto il percorso, la riflessione sul ruolo della personalità nella storia, attraverso l’esame del profilo estremamente soggettivo che la storia sovietica assunse nei suoi momenti più cruciali.

L’opera è divisa secondo un criterio cronologico, più che tematico, una scelta felice che permette al lettore di seguire l’andamento degli eventi senza per questo perderne la complessità, che emerge in maniera chiara e coerente fase per fase. Alle origini vi è una riassuntiva descrizione degli anni che precedettero il 1914, letti privilegiando le affinità piuttosto che le differenze che avvicinarono l’esperienza dell’impero russo a quelle dell’Europa continentale dai tempi di Pietro il Grande. Una Russia zarista vista non come un impero immobile, autocratico e condannato perciò a una rivoluzione già annunciata nel 1905 (come invece altri autori sostengono) e quindi per fato destinata a passare dallo zarismo al bolscevismo, ma un paese sulla via di un rapido sviluppo bruscamente interrotto dal conflitto, nel cui contesto nacquero le premesse delle due rivoluzioni del 1917. La Rivoluzione d’ottobre, in particolar modo, affondò le sue radici nelle condizioni della guerra, e a questa cercò con successo di dare una risposta che mostrò però ben presto la sua ambivalenza di fondo: già alla fine del 1917 emerse infatti con chiarezza quanto si fronteggiassero i due bolscevismi che di quella rivoluzione erano stati l’anima fondante: quello, da un lato, dei contadini e dei soldati (e dei contadini-soldati) e degli operai (e degli operaicontadini) e, dall’altro, quello della piccola élite politica che guidava gli eventi. Una rivalità che nel 1918 sarebbe presto sfociata in un’aspra guerra civile. Quest’ultima non ebbe avvio, secondo l’interpretazione dell’autore, nel maggio del 1918, al momento del pronunciamento delle truppe ceche, come invece sostengono molti storici, compresi quelli sovietici, per dimostrare che quella guerra fu imposta ai bolscevichi, ma fu da questi ultimi scelta in prima persona quando nel dicembre del 1917 Lenin e Stalin, allora commissario alle Nazionalità, decisero di invadere la Repubblica ucraina amministrata dai partiti socialisti: «La guerra tra Russia e Ucraina rivoluzionarie segnò l’inizio formale della guerra civile che Lenin aveva dichiarato ad aprile e acceso a ottobre. Essa fu quindi una scelta bolscevica e si presentò subito come conflitto tra progetti di costruzione statale in competizione sui territori dell’ex impero e non solo come lotta tra le forze – i rossi e i bianchi – che tale impero, sia pure in modo diverso, si proponevano di ricostituire e che naturalmente ne furono i protagonisti principali» (p. 102). La complessità e la pericolosità della guerra civile indussero i bolscevichi ad adottare politiche repressive durissime contro chiunque ostacolasse il loro progetto. Essi vinsero ma a prezzo, appunto, di una dura repressione interna, e fu questa vittoria a sua volta a sgombrare il campo da ogni remora per il futuro e a convincerli di poter a quella repressione far ricorso ogni volta che ve ne fosse stato bisogno.

Il 1919 segnò la definitiva sconfitta dei “bianchi”. Tre attori cominciarono allora a fronteggiarsi: il nuovo Stato, le campagne e le nazionalità, mentre gli operai restavano esclusi, impoveriti e ai margini del confronto. Trockij risolse il problema della smobilitazione creando le Armate del lavoro che, insieme al progetto di costruire un’economia non monetaria, caratterizzarono l’avvio del comunismo di guerra. Questo a sua volta richiedeva uno «strato privilegiato di organizzatori» che garantissero gerarchie e disciplina rigide nel partito. Le requisizioni contro i contadini si infittirono e la loro resistenza crebbe. Nel 1920 si assistette alla più grande rivolta contadina dopo quella del 1905 e quella del 1917. Era il primo atto della grande guerra contadina inscenato dal regime (il secondo avrebbe visto protagonista Stalin nove anni più tardi) che ebbe, tra le sue prime conseguenze, un impoverimento enorme delle città tanto che, si interroga l’autore, «c’è da chiedersi se, per esempio, tra gli sgradevoli lasciti del 1918-1922 non vi fosse, specie nelle zone non russe, la disponibilità di una parte della popolazione urbana ad appoggiare per desiderio di vendetta politiche ferocemente anticontadine come quelle staliniane» (p. 147).

Furono questi anni che impressero un marchio indelebile sul gruppo dirigente: il partito si sentiva assediato dalle «oscure masse contadine» (p. 149) e cominciò a dimostrarsi devoto al culto del capo vittorioso capace di prendere decisioni radicali per sgominare anche con la violenza estrema complotti che sembravano fiorire ovunque e di cui la rivolta di Kronstadt del 1921 sembrò l’estrema conferma. Secondo l’autore non fu questa, come per anni invece si è pensato, a spingere Lenin sulla strada della NEP, ma la guerra contadina in sé, mentre la NEP fu presentata e accettata come una ritirata strategica imposta dalle circostanze. La Nuova politica economica subì una prima battuta d’arresto nella tarda primavera del 1921 a causa della carestia sopraggiunta in quei mesi e dovuta alla siccità oltre che alle requisizioni, motivo quest’ultimo per cui anch’essa deve essere considerata parte integrante della guerra tra Stato e contadini. Per arginarne le conseguenze (a differenza di quanto sarebbe poi avvenuto durante la carestia del 1932- 1933), il regime inviò aiuti alla popolazione, permettendo a quella parte di essa che risiedeva nelle zone più colpite di trasferirsi altrove in cerca di pane. Poiché ci si trovava in stato di guerra, anche in questo caso i bolscevichi adottarono misure estreme di repressione per cui «visti in questa prospettiva gli anni Trenta cessano di essere ‘straordinari’ e straordinario diventa semmai l’ammorbidimento dei quattro-cinque anni di vera NEP» (p. 161).

Quest’ultima conobbe due sottofasi negli anni 1922-1925 e 1925-1929, la prima delle quali fu sicuramente più positiva dal punto di vista della ripresa dell’economia e della costituzione relativamente “liberale” del nuovo Stato sovietico (con la Costituzione del 1924, per esempio, fu data una soluzione abbastanza liberale al problema delle nazionalità). Ma proprio questi successi ebbero un effetto paradossale sul gruppo dirigente e i quadri del partito, che li guardarono con sospetto perché rafforzavano quell’«oceano piccolo-borghese» (p. 208) che essi tanto temevano. E mentre in questo contesto l’obiettivo primario sembrava quello di ricercare ogni forma di degenerazione capitalista, nessuno si accorse che il vero problema era la costituzione di uno Stato leviatano che avrebbe presto inghiottito tutti. In questo senso l’anno 1925 fu di fondamentale importanza: proprio grazie ai successi della NEP, per riprendersi dallo shock della mancata rivoluzione mondiale, ormai refluita in maniera definitiva, e superare quindi la cronica paura dell’accerchiamento capitalista, nacque il mito, assunto poi come dogma al XIV congresso del partito, che vi fossero nel paese ingenti riserve contadine che potessero essere usate per lanciare l’industrializzazione del paese. Fu dunque nel 1925, come già sostenevano gli storici sovietici, e non nel 1928, come invece datano molti di quelli occidentali, che ebbe inizio la corsa all’industrializzazione forzata che procedette negli otto anni seguenti a ritmi sempre più serrati e che, precipitando la crisi della NEP, segnò la ripresa della feroce guerra tra Stato e campagne.

In questi stessi anni si giocava all’interno del partito la grande lotta per la successione a Lenin. Stalin ne uscì vincitore nel dicembre nel 1927 contro Opposizione unita, e già nel gennaio seguente l’Ufficio politico emanò una direttiva sugli ammassi che costituì il primo passo ufficiale della ripresa della guerra alle campagne. Questa decisione, che non fu mai sanzionata dal Comitato centrale del partito, segna l’inizio della «dittatura personale di Stalin» che fu, almeno sino alle purghe del 1937-1938, legata direttamente alla guerra alle campagne e l’avvio, dunque, di quella specifica fase della storia sovietica nota con il termine di stalinismo.

La «grande svolta» del dicembre 1929, quella cioè della collettivizzazione e della conseguente dekulakizzazione, ebbe quindi uno specifico retroterra e «benché – come scrive l’autore – la svolta del 1929 non fosse inevitabile (…) dopo quello che era successo nel 1918-1922 tra Stato e contadini i giochi erano in gran parte fatti. Lenin e Bucharin potevano cambiare idea; salvo eventi eccezionali, possibili ma improbabili, Stalin aveva però già vinto. Certo anche Stalin poteva non essere Stalin (…) il fatto che si andasse allo scontro con le campagne predeterminò in altre parole le forme e i modi di questo scontro stesso, che negli anni successivi dipesero in larga parte dalle scelte di una persona, ricordando l’immenso ruolo che singoli individui possono esercitare nella storia (…). Ciò non vuol dire che ritirate non fossero possibili anche dopo la grande rottura del 1929. Proprio perché la crisi era il frutto di scelte politiche, finché vi furono i contadini, vale a dire fino a tutti gli anni Cinquanta, tornare indietro fu sempre possibile. Ma farlo divenne un’opzione sempre più costosa dal punto di vista ideologico e politico. Se nel 1928-1929 ci si poteva ritirare senza rotture politiche traumatiche, nel 1932-1933 sarebbe stato necessario disfarsi di buona parte dei vertici del partito e in seguito anche dell’atto fondante e legittimante del regime staliniano, la rivoluzione dall’alto, e del sistema socioeconomico da essa fondato, nonché del potere e dei privilegi della maggioranza dei suoi quadri» (p. 252). Stalin rispose alle rivolte contadine del 1929-1930 elaborando nel biennio seguente due diverse risposte secondo un modello che doveva caratterizzarne l’azione sino alla morte: da un lato attuò misure capaci di affrontare i problemi, dall’altro, seguendo un’interpretazione soggettivistica della crisi, divise il mondo in amici e nemici, perseguitando e uccidendo questi ultimi senza remore. Nel 1931, anno di una forte crisi degli ammassi, l’aumento della pressione sulla popolazione si accompagnò a quello della repressione politica. Le porte del sistema concentrazionario sovietico (il “GULag”), nato in realtà su richiesta nel 1928 del ministero della Giustizia, del ministero degli Interni e della OGPU per contenere i costi del sistema penitenziario, si spalancarono per accogliere migliaia di nuovi inattesi detenuti, mentre altrettante centinaia di migliaia di persone, attraverso le operazioni di deportazione, venivano trasferite al confino nelle regioni più remote del paese. Niente valse però a contenere la tragica crisi imminente, segnalata dalla comparsa, nel 1932, dei primi focolai di carestia e dal blocco delle esportazioni, mentre cresceva il malcontento operaio e le grandi città venivano invase da masse di ex contadini in cerca di cibo. «Ma – scrive Graziosi – come nel 1921 la carestia aveva salvato il regime così la carestia del 1932-1933 dopo averne minacciato la sopravvivenza, lo salvò. Grazie alla fredda crudeltà di Stalin, che tra il 1932 e il 1933 applicò il proprio modello di repressione preventiva, categoriale e perciò collettiva, che aveva già raggiunto il suo culmine con la dekulakizzazione, a numerosi gruppi nazionali e socialnazionali che a suo giudizio rappresentavano una minaccia per il regime» (p. 337). E fu in questo contesto che, benché non premeditata, la carestia in Ucraina fu abilmente sfruttata dal regime, che la trasformò in un vero e proprio genocidio (p. 361).

Fu tra il 1929 e il 1933 che Stalin pose le basi del proprio potere creando più «uno stato violento e primitivo, guidato da un despota malvagio, che un totalitarismo modernizzante, teso in nome dell’ideologia a conquistare e rifondere le coscienze dei suoi soggetti» (p. 362). Un percorso più anomalo, dunque, di quanto si fosse pensato in passato, che ci costringe a ripensare in modo nuovo la storia dell’URSS e le categorie sinora usate.

La «rivoluzione dall’alto», che vide il paese ovunque avvolto dalla sofferenza (e per la prima volta – anche questo un grande merito del libro – Graziosi ci propone cifre precise sulle vittime del sistema nelle sue varie fasi) vide anche svilupparsi un parallelo fenomeno di mobilità sociale verso l’alto e verso il basso, la costruzione di nuove burocrazie che, grazie ai privilegi direttamente elargiti dal partito, diventarono il principale sostegno di Stalin, da cui erano state create e da cui dipendeva la loro fortuna, nel contesto di una «guerra dello stato contro il suo popolo» (p. 364) che rese onnipotente la polizia politica, strumento per eccellenza per controllare la crescente impopolarità del regime e di Stalin stesso. Così, dopo il biennio 1934-1936, definito il «periodo buono» del decennio, caratterizzato da un desiderio di ordine e stabilità condiviso tanto dalla popolazione quanto da molti quadri del regime e anche da una leggera ripresa dell’economia, gli anni tra il 1936 e il 1939 tornarono a essere un periodo di uso pianificato e sistematico del terrore di Stato come pratica di governo, i cui obiettivi furono, sino al giugno 1937, l’eliminazione dei membri dell’élite sovietica, e poi, dopo quella data, di tutti i gruppi sociali e nazionali che Stalin riteneva inaffidabili. Il Grande terrore del 1937-1938 fu dunque un fenomeno di massa dettagliatamente pianificato dall’alto e destinato a «ripulire» il paese da chiunque fosse ancora ostile al socialismo o, nella crescente incertezza della situazione internazionale dopo il 1936, potesse operare come quinta colonna in caso di guerra.

Alla vigilia del conflitto, scrive l’autore, «ci troviamo dunque di fronte al paradosso di una società che per certi versi si ammodernava tecnicamente ed economicamente e al tempo stesso si degradava socialmente, culturalmente e politicamente» (p. 437). Per un sistema politico e una società così atipici la guerra ebbe «un’importanza pari a quella da cui era[no] nat[i] e del conflitto con i contadini durante il quale erano state gettate le [loro] fondamenta» (p. 447). Quella degli anni 1939-1945, a parte gli aspetti militari ormai noti che vengono qui riproposti, è la fase ancora meno studiata e sulla quale gli archivi sono ancora in gran parte chiusi. La «grande guerra patriottica» viene quindi riassunta in questa parte del lavoro, prestando particolare attenzione a quella contraddittorietà, ancora non completamente svelata, che animò quegli anni e che con queste parole Graziosi riassume: «La guerra stava (…) producendo al tempo stesso riscatto e asservimento, speranze e depressione, orgoglio e miseria, crescita della fiducia nelle proprie forze e del senso di impotenza e stupore di fronte allo stato vittorioso e al suo despota. Sono fenomeni ai quali non è stata data l’attenzione che meritano e dei quali riusciamo a vedere solo le grandi linee anche perché si svolsero in condizioni di relativa “libertà”: l’occhio dello stato era puntato sul fronte e quindi, una volta ottenuto dalla popolazione ciò di cui aveva bisogno per esso, le permetteva di arrangiarsi come meglio poteva» (p. 519). Fu proprio questa relativa libertà, nonostante che il regime continuasse a far uso della repressione sia contro la popolazione stessa sia deportando le popolazioni considerate traditrici (prima quelle del Caucaso e della Crimea) o non fidate (quelle poi dei paesi occupati dall’Armata Rossa) a far nascere l’aspirazione a non agire più e a non considerarsi più dei vintiki (letteralmente vitarelle), ma individui capaci di gestire spazi automi di responsabilità e iniziativa.

Quanto queste aspirazioni saranno soffocate negli anni che seguirono la guerra sarà uno dei probabili oggetti della seconda parte dell’opera di Graziosi. Questo primo volume, non corredato da note per condivisibili ragioni di praticità, si conclude dal canto suo con un lungo saggio bibliografico che rimanda ai lavori e alla fonti citate nel testo. Una versione più limitata di una ben più sterminata bibliografia alla quale l’autore ha lavorato per diversi anni e che è consultabile sui siti internet di H-Russia e dell’Harvard Project on Cold War Studies. Anche questa uno strumento prezioso e ormai indispensabile per chiunque voglia seriamente approfondire uno dei tanti affascinati snodi della storia sovietica nel XX secolo. È una storia che si studia con drammatico stupore; è un libro che si legge con ammirazione stupita nei confronti di un autore che tiene incollato il lettore per le 559 pagine di un meraviglioso e dettagliato affresco a tinte fosche felicemente ispirato dalle muse.

Elena Dundovich