Che ne è del politichese?

Di Luca Serianni Martedì 13 Maggio 2008 19:37 Stampa

Tre appaiono i tratti salienti dell’ultimo quindicennio: si è verificata una perdita della marcatezza ideologica, salvo settori residuali; il politico in quanto tale ha perso autorevolezza e cerca in ogni modo di evitare il “politichese”; formule e slogan non procedono più dai politici ma dai mass media (i giornali prima ancora che la televisione).

Il 5 maggio 2001, una settimana prima delle elezioni politiche che avrebbero portato alla vittoria del centrodestra, Enzo Golino su “la Repubblica” deplorava che, in entrambi i poli, si oscillasse «dagli insulti all’opacità, dall’enfasi più scontata alla propaganda più smaccata». Aggiungendo sornione: «Vuoi vedere che era meglio il politichese della prima Repubblica? E in taluni casi, dietro la ricercata, oscura, contorta complessità di quel gergo fumoso e cifrato, non si annidavano forse idee politiche degne di nota, disegni strategici prudenti ma di lunga gittata, come potrebbe pensare un nostalgico di quei tempi?».

Quasi sette anni sono passati (un tempo lunghissimo per la cronaca politica, non solo italiana), ma i termini essenziali della questione sono ancora gli stessi. Il triennio 1992-94 segna il displuvio tra la prima Repubblica, cominciata nel 1948, e la fase, tuttora alquanto confusa, che si suole denominare seconda Repubblica. Se la causa occasionale del terremoto elettorale del 1994 è stato il crollo di credibilità della classe politica dell’epoca in seguito al noto scandalo milanese, il termine Tangentopoli «può essere considerato a buon titolo il padre di tutti i neologismi della seconda Repubblica».1

Subito dopo Tangentopoli, il tradizionale termine “partito” viene tabuizzato in quanto evocatore della famigerata era partitocratica e le nuove formazioni politiche lo evitano o lo eliminano successivamente dalla rispettiva ragione sociale: Alleanza Nazionale, Forza Italia, Lega Nord; il Partito Democratico della Sinistra, nato nel 1991, ha cambiato nome nel 1998 per diventare Democratici di Sinistra. Parallelamente, il termine partito è passato a indicare, polemicamente,2 formazioni avversarie (“partito di plastica”, “partitoazienda”, in riferimento a Forza Italia) o la categoria dei magistrati, ritenuta dal centrodestra politicamente schierata (“partito dei giudici”). Rispetto alla stabilità dei simboli tradizionali (falce e martello, scudo crociato, fiamma tricolore, sole che ride), gli ultimi anni hanno portato a un succedersi affannoso di loghi, ora con qualche motivazione ideologica (la quercia per alludere al radicamento nella società delle forze di sinistra; l’ulivo per simboleggiare l’aspirazione alla pace), ora con ammiccamenti oltreoceano (bene o male, l’America è sempre trendy: asinello, elefantino), ora senza implicazioni evidenti (margherita, girasole, coccinella). Ma l’epoca di Tangentopoli è ormai lontana e il termine partito torna disponibile nel 2007 per una formazione del tutto nuova come il Partito Democratico.

Dal punto di vista linguistico, i caratteri distintivi essenziali tra le due fasi politiche sembrano essere tre e tutti costituiscono l’effetto di trasformazione del rapporto tra politico e cittadino, o almeno della diversa rappresentazione di tale rapporto.

Perdita della marcatezza ideologica

Fino a tutti gli anni Ottanta un deputato che avesse parlato di pensioni o di riforma sanitaria avrebbe immediatamente tradito la sua appartenenza politica: oggi questo non avviene, o almeno non avviene in modo automatico. Solo i temi “eticamente sensibili” (aborto, eutanasia, convivenze) possono suscitare contrapposizioni nette; ma si tratta di posizioni che si fronteggiano in ciascuno dei due schieramenti e di fronte alle quali i rispettivi leader, Veltroni e Berlusconi, tendono significativamente a sfumare le proprie convinzioni e dunque, di fatto, a convergere. Oggi risulterebbe difficile riconoscere un politico di ispirazione cattolica se i temi trattati fossero quelli della complessiva visione della società; siamo lontanissimi insomma dai tempi di De Gasperi, fautore della laicità dello Stato e insieme cattolico fervente, che lasciava trasparire i suoi valori ideologici attraverso una terminologia di ispirazione religiosa (da interventi del 1950: «coscienza morale della democrazia», «fede nell’avvenire della nazione», «senso morale della storia» ecc.).

Alquanto attenuato appare anche, negli ultimi anni, il tasso di riconoscibilità delle forze nel cui DNA «non c’è stato un vero “strappo” linguistico rispetto alla tradizione precedente»,3 cioè in quella parte della sinistra che non rinnega il marxismo come chiave interpretativa privilegiata della storia e della società; colpisce il fatto che nella campagna elettorale del 2008 – per la prima volta dal 1994 – la parola comunismo non figuri più nel nome dei grandi partiti e che persino Berlusconi, campione dell’anticomunismo, abbia spostato altrove i suoi bersagli polemici.

Restano semmai, a segnare le appartenenze e il riferimento a un segmento elettorale definito, gli slogan, detti, ripetuti e amplificati dalla comunicazione di massa. Così, sentendo il proposito di «non mettere le mani nelle tasche degli italiani», un elettore di sinistra non pensa a una maggiore sobrietà del prelievo fiscale (principio, in astratto, universalmente desiderabile), ma all’egoismo sociale di chi vuole – e può – sottrarsi a questo doveroso e indispensabile contributo al funzionamento della società. Invece, l’attenzione per chi «non arriva alla fine del mese» – headline dell’Unione nella campagna elettorale del 2006 – è tarata sulle aspettative di fasce sociali medie e medio-basse, con reddito da lavoro dipendente o da pensione, dunque sull’elettorato classico del centrosinistra. Ma, in periodi di crisi economica strisciante e di aumento del costo della vita, nessuno può permettersi di ignorare queste categorie; ed ecco che Berlusconi, per minimizzare le esternazioni filofasciste di Giuseppe Ciarrapico, dichiara con sintomatico prelievo linguistico dal fronte avversario: «Agli elettori queste cose non interessano. La gente pensa a come arrivare a fine mese, altro che storie».4

Perdita di autorevolezza del politico in quanto tale

Gli esponenti di partito della prima Repubblica erano circondati da un alone reverenziale (nelle tribune elettorali degli anni Sessanta i giornalisti, anche quando ponevano domande molto polemiche, si alzavano in segno di riguardo per il segretario politico di turno) e il loro modo di esprimersi, nutrito di cultura umanistico-giuridica, contribuiva a dotarli di un certo prestigio agli occhi dell’elettorato. Con la “discesa in campo” di Berlusconi si impone un nuovo modello di comunicazione politica: il riferimento professionale, quando c’è, va all’ambito economico- finanziario (decisiva diventa la capacità di «sciorinare con cognizione di causa cifre, dati, statistiche»);5 il livello del discorso è elementare non solo nella sintassi, ma anche nel lessico e nelle immagini figurali (metafore e similitudini); sono frequenti modi attinti all’oralità, attraverso i quali il politico intende spingere al massimo il pedale retorico dell’identificazione col destinatario-elettore.

In proposito, è notevole il dilagare del turpiloquio: la provocazione verbale a suo tempo propria del Fascismo (“me ne frego!”), sradicata dai discorsi pubblici nel corso della prima Repubblica, riemerge come per un fenomeno carsico con la Lega di Bossi (e il suo famoso “la Lega ce l’ha duro”), per poi dilagare di là dagli steccati originari. Già in un’intervista del 1995, Roberto Formigoni auspicava che tra esponenti del Partito Popolare si smettesse di gettarsi «merda in faccia» e asseriva che «i traditori, come Gargani e Marini», si trovavano «col culo per terra».6 Il linguaggio franco dell’attuale governatore della Lombardia non era ancora abituale all’epoca; oggi non stupirebbe nessuno né a destra né a sinistra: «Sono vecchio, ma non rincoglionito » proclamava Silvio Berlusconi in un comizio a Torino il 2 marzo 2008; «Luciana è una con le palle e non mi va di sentir dire che è una segretaria » dichiarava Giuseppe Fioroni al “Corriere della Sera” qualche giorno dopo,7 a proposito della ventilata candidatura di una funzionaria di partito.

Genesi mediatica del lessico politico

Sempre più spesso le parole della politica non procedono dall’elaborazione concettuale degli stessi addetti ai lavori (del resto ormai rara, o addirittura assente, di pari passo con la caduta delle ideologie), ma dai mezzi di comunicazione di massa; e qui i giornali – o meglio gli opinionisti e i grandi articolisti che scrivono nelle testate principali – riacquistano un’importanza maggiore rispetto al più volatile mezzo televisivo. All’inventività di Giovanni Sartori dobbiamo il “mattarellum”, la legge elettorale maggioritaria con correzione proporzionale del 1993 proposta da Sergio Mattarella: una formazione scherzosa «che richiama altri sostantivi latineggianti in ambito politico, come, ad esempio, referendum»;8 su questo modello si è creato “tatarellum”, in riferimento alla legge regionale del 1995 (da Giuseppe Tatarella); più recente il “porcellum”, per designare la legge vigente, definita dal suo stesso estensore Roberto Calderoli «una porcata»; recentissimo il “vassallum”, il progetto di riforma elet- torale elaborato dal costituzionalista Salvatore Vassallo (e dal suo collega Stefano Ceccanti), inizialmente chiamato “veltronellum”, con allusione all’appoggio manifestato da Veltroni. Ancora di matrice giornalistica sono gli ormai appassiti “cespugli” e i più recenti “nanetti” (altro neologismo semantico di Sartori) per indicare polemicamente piccole formazioni politiche che riescono a condizionare i grandi partiti. In parte dai giornali, in parte dalle forze politiche (specie di centrodestra) nasce la proliferazione delle varie manifestazioni dedicate a un singolo tema e indicate dal modulo “X+day”: “no-tax day”, “risparmio day”, “family day” e addirittura, è cronaca recentissima, “gazebo day”. A Filippo Ceccarelli (“la Repubblica”) si deve invece l’ironico “Veltrusconi day”. Se tante cose sono mutate, rimane intatto un limite (non facilmente superabile) spesso denunciato nella comunicazione politica, non solo italiana: l’indeterminazione, la vaghezza, l’ambiguità del lessico fondamentale di riferimento. In uno stesso numero del “Corriere della Sera”, il giurista Vittorio Grevi lamentava l’abuso di giustizialismo e di garantismo, «parole spesso usate a vanvera da politici orecchianti»;9 e Dino Messina polemizzava con Marco I. Furina che, presentando la traduzione italiana di un libro di Lakoff, “La libertà di chi?”, considerava libertà un «termine da sempre sinonimo di sinistra, che l’ha declinato in ogni suo aspetto» (mentre per Messina, se proprio si vuole adottare la contrapposizione destra/sinistra, la libertà sarebbe «un po’ più di destra che di sinistra»).10 La lingua, duttile interprete delle cose, riflette insomma l’attuale crisi della politica. Al vecchio rischio dell’autoreferenzialità (i politici parlano un gergo che capiscono solo loro perché sono lontani da ciò che la gente realmente sente e vuole) tende a sostituirsi, almeno in ampie fasce di rappresentanti del popolo, l’appiattimento sull’uomo della strada e sul suo modo, necessariamente angusto, di vedere le cose (i politici parlano come tutti perché sono come tutti e quindi sono autorizzati a comportarsi come chiunque farebbe al loro posto). Si diceva del turpiloquio; ma ben più volgari di qualche, tutto sommato innocua, parolaccia sono i pubblici e sfrontati conteggi dei posti sicuri nelle liste elettorali (conseguenza della legge in vigore, si tratta di un vero e proprio sberleffo al cittadino, al quale non spetta se non ratificare ciò che è stato deciso da altri); l’inserimento in lista di qualcuno non per le sue idee e la sua capacità di realizzarle, ma semplicemente perché “porta voti”; la facilità con cui chi non è stato ripresentato cambia casacca senza farsi troppi problemi di coscienza; la riduzione dei temi politici all’hic et nunc e al, vero o presunto, tornaconto economico immediato del singolo votante.

 

[1] M. V. Dell’Anna, P. Lala, Mi consenta un girotondo. Lingua e lessico della Seconda Repubblica, Congedo, Galatina 2004, p. 15.

[2] Ivi, p. 127.

[3] L’osservazione, riferita a interventi di Fausto Bertinotti risalenti agli anni 1996-98, si legge in G. Antonelli, Sull’italiano dei politici nella seconda Repubblica, in S. Vanvolsem e altri (a cura di), L’italiano oltre frontiera, Leuven University Press-Cesati, Lovanio-Firenze 2000, pp. 211-34.

[4] F. Verderami, E Letta ebbe l’idea per frenare Storace, in “Corriere della Sera”, 11 marzo 2008.

[5] Antonelli, op. cit., p. 217.

[6] G. Ballardin, Formigoni: divisione consensuale e simbolo congelato. Bindi: lo scudocrociato è solo nostro, in “Corriere della Sera”, 14 marzo 1995

[7] M. Guerzoni, Fioroni e la segretaria: Lucianetta porterà voti, in “Corriere della Sera”, 6 marzo 2008.

[8] S. Novelli, G. Urbani, Il dizionario italiano. Parole nuove della seconda e terza Repubblica, Datanews, Roma 1995, p. 63.

[9] V. Grevi, Non parlate di giustizialismo e garantismo, in “Corriere della Sera”, 1 marzo 2008.

[10] D. Messina, “L’Unità” Confonde Uguaglianza e Libertà, in “Corriere della Sera”, 1 marzo 2008.