Per una laicità senza complessi

Di Stefano Levi Della Torre Martedì 13 Maggio 2008 18:57 Stampa

La laicità cederà terreno agli integralismi e alle loro pretese di privilegio e di primato morale se si ridurrà a pragmatismo o a nostalgia delle identità ideologiche. Saprà invece riaffermarsi positivamente se riuscirà di nuovo a produrre narrazioni attuali del mondo, nelle quali possano riconoscersi collettivamente moltitudini ora frantumate dall’individualismo e dal corporativismo. In attesa di ciò la laicità rimane l’unica garanzia di una res publica pluralistica, di una convivenza democratica nelle società pluriculturali e plurireligiose.

Quando il rettore de “La Sapienza” di Roma decise di invitare il papa a tenere un discorso d’apertura dell’anno accademico 2007-08, sessantasette professori reagirono sostenendo che era inopportuno che un’autorità religiosa aprisse i corsi in un ambito laico e dedicato alla scienza. Furono attaccati da tutte le parti. Lasciando perdere la destra, hanno stupito le dichiarazioni di Veltroni e Mussi, che con vibrante indignazione accusavano di intolleranza i professori e difendevano fieramente la libertà di espressione di chi ha a sua disposizione in ogni momento tutti i mezzi per comunicare urbi et orbi. Mi sono domandato donde provenisse questa ennesima lamentazione vittimistica a favore dei potenti, associata all’intimidazione verso una minoranza; e dove stesse conducendo questo scambiare la critica (anima della democrazia) con la prevaricazione, questo favoreggiamento sistematico del privilegio in genere e del papa in particolare di pronunciarsi, in Santa sede o all’esterno, rispetto al diritto di una minoranza di parlare una volta tanto e per competenza nella propria sede, e quale fosse, in questa logica, il destino dello spirito critico, delle minoranze e della laicità. Beninteso: chi scrive ritiene che le Chiese abbiano il pieno diritto, come tutti, di pronunciarsi su qualunque questione, compresa la politica, purché non pretendano alcun privilegio, né immunità dal giudizio. Come è detto: «Se giudicate, sullo stesso metro sarete giudicati». Discriminanti non sono gli argomenti, su cui ognuno ha diritto di spaziare; discriminante è l’illegittimità morale del privilegio e dell’immunità dalla critica.

Oggi la laicità è sottoposta a discredito. La si accusa di anticlericalismo ottocentesco, se reagisce alle attuali pretese clericali di privilegio cinquecentesco. La destra sedicente liberale ha ereditato dal fascismo la consuetudine di parassitare la religione ufficiale per captare consenso e potere; è auspicabile che la sinistra non la insegua su questo terreno, blandendo la religione perché questa non si vendichi delle polemiche passate, riconoscendo ad essa un primato etico smentito dai fatti; possiamo augurarci che non stia cercando un innesto con la religione come protesi che supplisca alla perdita delle proprie fedi e delle proprie passioni. Si accredita al credente una marcia in più rispetto al non credente, come se questi fosse segnato da una rinuncia alle più alte vette ideali, o da un mediocre pragmatismo labile sui principi.

Scriveva Norberto Bobbio: «Filosoficamente, si suole chiamare la visione laica come immanentistica, la visione religiosa come trascendente». Ciò può essere vero nell’ambito politico, morale o scientifico. Ma proprio filosoficamente sembra avvenga il contrario: quando non si riduca a semplice buon senso, lo spirito laico non critica la religione (la religione in quanto tale) perché troppo trascendente, ma perché lo è troppo poco, perché dà figure, parole, concetti e riti immanenti a dimensioni che trascendono l’umano. Possiamo, ad esempio, fare passi avanti nel conoscere come le cose siano, ma sul perché siano continuiamo a non sapere nulla. Eppure, su questo perché le religioni vorrebbero dirci l’essenziale. Come diceva Montaigne: «Nulla è creduto più fermamente di ciò di cui meno si sa». In una mirabile pagina dello “Zibaldone”, il 18 maggio 1821, il Leopardi parlava, con paradosso apparente, di “metafisica irreligiosa”: «La metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle cose, che esamina la natura, le nostre immaginazioni ed idee ecc.; lo spirito profondo e filosofico, e ragionatore, sono i fatti dell’incredulità. Ora queste cose furono massimamente propagate dalla religione Giudaica e Cristiana, che insegnarono ed avvezzarono (…) alla ricerca delle cause occulte, all’esame e spesso alla condanna ed abbandono delle credenze naturali, delle immaginazioni spontanee e mal fondate ecc. (…) (mirabile congegnazione del sistema dell’uomo, il quale non sarebbe irreligioso, se non fosse stato religioso)».

La culla della laicità incredula è dunque «la metafisica che va dietro alle ragioni occulte delle cose» e che è anche pensiero che pensa se stesso perché esamina le «nostre immaginazioni ed idee», la nostra sfera soggettiva, con un’oggettività analoga a quella con cui esamina la natura. La religione che sprofonda il principio delle cause (Dio) nell’infinito apre la strada a una ricerca infinita, alla coscienza critica che in ogni risultato raggiunto non vede un punto fermo ma l’apertura ad altre possibilità. Così dalla costola inquieta e interrogativa della religione, inappagata dall’acquisito e dalle apparenze, si sviluppa lo spirito critico della laicità. La laicità cerca di fondare il vero sul reale, la religione cerca di fondare il reale sul vero che le è stato rivelato: divergono, ma il loro conflitto è ravvicinato, acerbo, come avviene tra consanguinei.

La religione è anima dell’Occidente? Lo spirito critico (che secondo il Leopardi ne è storicamente il figlio) non lo è di meno, anzi. Se oggi, sotto la pressione del neoclericalismo e della minacciosa suscettibilità islamistica, la critica del fenomeno religioso è sottoposta a un tabù, pure essa è una tradizione che ha i suoi ascendenti nei profeti biblici e in Platone, nell’illuminismo, nel pensiero liberale e in quello socialista, nell’antropologia culturale e nella psicoanalisi. Le “ragioni occulte delle cose”, su cui la tradizione biblica ha pure aperto uno sguardo, sono la passione dello spirito razionale. Passione per la ragione: senza passione la ragione non ha impulso né orientamento. Una laicità appassionata dà credito alla ragione, ma si rende conto che gli impulsi che la mettono in moto e ne indirizzano l’applicazione su un argomento piuttosto che su un altro sono poco o punto razionali; e che lo stesso veicolo su cui la ragione viaggia, e cioè il linguaggio, non si è formato nella storia razionalmente, né razionalmente vive e si trasforma. Un laico cerca di applicare i criteri di verità alla realtà delle cose e dei fatti; ma, appassionato com’è del senso storico, si rende conto che il reale lo percepiamo in modo diverso a seconda dei nostri interessi, dei nostri strumenti e dell’epoca. Laico è chi considera impossibile per l’essere umano afferrare verità ultime. Pure la differenza tra il vero e il falso è decisiva e in molti campi onestamente verificabile, per cui l’argomentazione e la dimostrazione sono, per il laico, virtù in genere più limpide che non le dichiarazioni di fede restie al contraddittorio. Questo laico rinfaccia alla religione in genere di pronunciare troppo spesso il nome di Dio invano e di pretendere autorità vantando conoscenze circa l’inconoscibile; le rinfaccia di evocare il mistero per poi coprirlo di spiegazioni e rappresentazioni e di saturare di risposte la muta trascendenza del perché esista l’universo. Questa laicità, a cui per principio nulla di umano è estraneo, guarda con partecipazione le figure e i gesti che la mente religiosa proietta sull’oscurità del mistero, come a formare un sipario su cui si rappresentano domande e bisogni insopprimibili.

Per confrontarsi con la religione bisogna andarla a trovare a casa sua, nei suoi testi e nelle sue argomentazioni. Se, infatti, sul piano giuridico e istituzionale ha senso il principio (laico) della reciproca non interferenza (libere Chiese in libero Stato), sul piano del confronto delle idee e delle mentalità l’interferenza è invece doverosa. Chi scrive non condivide la posizione di quei laici secondo i quali gli argomenti religiosi sono affari che non li riguardano. La religione non è solo un fatto privato, bensì collettivo e sociale, ed è su questo terreno che ci si confronta realisticamente con essa. In massima parte, laicità e religione si occupano in modo diverso delle stesse cose: di come va il mondo e di come dovrebbe andare, della vita e della morte, della sofferenza e della speranza.

Le religioni in genere hanno sempre mostrato un’indole piuttosto aggressiva nei confronti di Dio: proprio perché lo proclamano signore del mondo, ciascuna ha preteso di impossessarsi di lui per gestire in proprio i privilegi simbolici e materiali che ne derivano. Scendendo tra noi, Dio è stato sistematicamente sequestrato da ogni religione, e da quel bene universale, pubblico e inclusivo che per eccellenza sarebbe, è diventato un bene privato ed esclusivo, sicché invece di accomunare gli uomini li divide e li rende nemici. E dunque il simbolo che avrebbe dovuto presiedere alla convivenza pacifica sarebbe stato meglio che non fosse disceso dal cielo alla terra ma che fosse piuttosto salito dalla terra al cielo; e invece che sul Dio incarnato si puntò sull’uomo disincarnato, ossia sulla persona umana universale e astratta, portatrice di dignità e diritti, della quale in effetti siamo più o meno tutti “a immagine e somiglianza”. Così siamo giunti alla laicità, che nel suo pieno sviluppo consiste nel considerare ogni essere umano concreto come incarnazione della persona umana astratta e quindi anch’esso portatore di diritti dell’essere umano in generale e del cittadino in particolare. Ora, la laicità è componente essenziale della democrazia, la quale, ponendo laicamente al centro della scena la persona umana in quanto tale, a prescindere dalle posizioni politiche e dal credo religioso, ha costituito il quadro istituzionale meno sfavorevole alla convivenza e alla competizione pacifica delle idee e degli interessi.

Tuttavia la laicità si è articolata in diverse tendenze non solo riferite ai diritti individuali ma anche a quelli collettivi, animando movimenti ora di riscatto nazionale, ora di riscatto sociale. Così la laicità è stata ambito di forti ideali e di obiettivi determinati, ed ha perciò saputo ridimensionare le religioni e le Chiese in quanto con esse competeva nell’indicare orizzonti di redenzione, mondi futuri e rivelazioni, nel conferire identità e senso di appartenenza collettiva e nel costituire apparati organizzativi (partiti, Stati ecc.). Ma questi ideali e interessi, che laicamente si proclamavano nati dalla storia e applicati alla storia, dalla storia sono stati anche macinati. I soggetti sociali o politici in cui la laicità si incarnava erano storicamente mutevoli: la borghesia dei risorgimenti nazionali, il proletariato industriale non sono scomparsi ma hanno perduto le loro connotazioni di personalità storiche definite, la loro coesione e la loro tensione; e gli Stati costituzionali, che sono la massima realizzazione istituzionale dei criteri laici, vanno ora declinando, ossia perdendo in sovranità, sia a favore di più ampie dimensioni continentali (l’Europa) non ancora interiorizzate, sia di più ristrette articolazioni territoriali e identitarie (le Regioni e le piccole patrie). Sicché la laicità si trova in un passaggio in cui è indebolita strutturalmente e quindi anche nelle sue idealità e obiettivi definiti, e si presenta piuttosto come ridotta a criterio di metodo e abito mentale, e il suo campo non appare più composto da formazioni potenti e coese, ma decomposto in un vastissimo pulviscolo di persone, ciascuna con le sue idee e obiettivi: avendo fatto perno sull’idea di persona, a quella, polverizzandosi, è ritornata come al suo seme originario: pulvis es et in pulverem reverteris, sei polvere e polvere ritornerai. Il pensiero laico che in nome della res publica aveva relegato la religione nell’intimo delle convinzioni private, ora si trova a sua volta ridotta a opinione personale, mentre la religione si riafferma come fatto collettivo e sociale. In Italia la laicità si misura con un cattolicesimo preponderante come confessione e ancor più come sostrato della mentalità diffusa. È il disfacimento dei soggetti sociali e la solitudine individuale che ne deriva, è il bisogno di sicurezza e di identità comune ad animare la domanda di appartenenza confessionale gerarchica e prescrittiva. In questo clima si iscrive il ribaltamento del Concilio Vaticano II, condotta con decisione dall’attuale gerarchia cattolica. Riassumendo: se Gesù aveva detto: «Non l’uomo è fatto per il Sabato, ma il Sabato per l’uomo», l’attuale magistero afferma il contrario: non la vita è fatta per l’uomo, ma l’uomo è fatto per la vita (che sembra più il messaggio biologico del DNA che non quello dello Spirito). Non la dottrina è fatta per l’uomo, ma l’uomo per la dottrina. A tutto vantaggio dei titolari della dottrina, del loro prestigio e potere.

La gerarchia cattolica sta cogliendo l’occasione del declino della sovranità dello Stato laico per allargare le brecce della sua influenza sulla legislazione e per avanzare nuovamente richieste (per lungo tempo in sordina) specie per quanto riguarda l’istruzione, il controllo sulla procreazione e soprattutto sulle donne. Il controllo delle donne è l’argomento centrale di ogni fondamentalismo nel mondo, perché è l’asse di ogni richiamo tribale all’appartenenza, sfondo antropologico del “conflitto tra civiltà”. L’impietosa campagna clericale contro l’autodeterminazione della persona circa la propria vita e la propria morte, contro l’autodeterminazione nella contraccezione e nella procreazione – in particolare, la questione dell’aborto – il disconoscimento dell’amore e della solidarietà tra gli esseri umani che non siano subordinati alla giurisdizione della Chiesa (la questione delle coppie di fatto), suggeriscono l’ipotesi che la stessa Chiesa voglia recuperare un antico retaggio che lo Stato laico le aveva sottratto: il controllo dell’assistenza sociale. Su questa strada essa incontra un’alleata nell’ideologia liberista. Che cosa oggi può avere in comune la Chiesa con il liberismo? Hanno in comune l’insofferenza verso le norme laiche della legislazione: il liberismo perché norme e quindi vincoli; la Chiesa perché laiche e cioè indifferenti in linea di principio alle prescrizioni confessionali. In nome dei suoi valori superiori la Chiesa pretende privilegi; in nome della libertà e dell’efficienza il liberismo pretende privilegi: entrambi sono portati a sostituire il privilegio (privatae leges) ai diritti erga omnes. Ma la destra liberista, che è laica per natura e clericale per opportunità, trova anche un altro terreno di convergenza ideale con i movimenti ecclesiali della destra cattolica: quello dell’amore verso il prossimo, quando il povero non è visto come soggetto di diritti ma come oggetto da soccorrere e la solidarietà ad arbitrio dei più forti tende a sostituire le regole redistributive dello Stato sociale, favorendone il declino. A questi appuntamenti giungono anche gli spiriti delle piccole patrie e degli irredentismi regionali, i quali puntano sull’omogeneità delle identità e delle tradizioni e sulla loro conservazione e difesa dagli intrusi. E puntano sulla destra cattolica come alleata e sul cattolicesimo come identità tradizionale piuttosto che come religione.

Da questa triplice convergenza tra movimenti della destra cattolica, liberisti e piccole patrie, emerge una sorta di federalismo neoguelfo, che attende dal Vaticano una qualche egemonia ideologica e copertura morale degli interessi particolaristici. Ora, lo stato depressivo della laicità in Italia, le sue abdicazioni sono tanto più gravi in quanto non corrispondono a un effettivo esaurimento di ruolo e di orizzonte. In due campi, ad esempio, lo spirito laico ha ancora una funzione decisiva: in quello della gestazione di un nuovo diritto internazionale che dia efficacia giuridica ai diritti umani, superando i principi della non ingerenza negli affari interni degli Stati; e in quello delle società europee in senso plurietnico, pluriculturale e plurireligioso. Perché solo lo spirito laico include per principio il pluralismo, e solo lo spirito laico può costituire uno spazio pubblico – territoriale, culturale, normativo, di diritti e doveri sociali erga omnes – favorevole alla convivenza pluralistica. Senza questo, si andrà incontro a una decomposizione sociale e istituzionale in cui ciascun gruppo di appartenenza, o corporazione economica, etnica, religiosa cercherà senza limiti di imporre il proprio interesse; il vantaggio o l’emarginazione si modelleranno di fatto e per principio sui rapporti di forza tra lobby; lo spirito privatistico, il conformismo e la fedeltà del singolo rispetto a un gruppo di potere prevarrà, per principio, sullo spirito pubblico della responsabilità di ciascuno verso l’insieme; e la res publica verrà smembrata non più solo eventualmente nei fatti, ma per principio, a seconda dei rapporti di forza.