Pragmatismo e flessibilità nella strategia dell'UE sul clima ed energia

Di Simona Bonafè Lunedì 12 Gennaio 2015 16:35 Stampa

I prossimi dodici mesi possono rappresentare un passaggio cruciale per quanto riguarda la sostenibilità del futuro sviluppo europeo, con la Conferenza di Parigi di fine 2015 e con la definizione, in sede UE, della nuova strategia “clima ed energia” per il 2030. Su entrambi questi fronti, consapevole tanto dell’importanza della sfida quanto della difficile congiuntura economica, l’Europa può farsi promotrice di impegni ambiziosi, applicando alle politiche in materia lo stesso approccio pragmatico e flessibile auspicato per il più ampio tema della governance dell’Unione.

L’Europa negli ultimi anni ha perso la sua vocazione iniziale di libertà, progresso e uguaglianza. Si è trasformata nel luogo da cui provengono regole severe e direttive stringenti, certamente non volte allo sviluppo e alla crescita. Le risposte europee alla crisi economica sono stati l’austerità e l’intervento della troika. In entrambi i casi non si è trattato di interventi risolutivi. Di conseguenza, le politiche attuate finora hanno molto deluso l’elettorato. Il deficit di consenso all’Unione ha assunto dimensioni tali da permettere ai partiti euroscettici di fare leva sull’immagine di un’UE disinteressata al benessere dei suoi cittadini e totalmente concentrata sul rigore. Molte regole europee vanno riviste, aggiornate e in alcuni casi cambiate. Ridare slancio al progetto europeo è la principale sfida della nuova legislatura.

Sappiamo che fare i cosiddetti “compiti a casa” è un’indicazione legittima e l’Italia li sta facendo. D’altra parte, se siamo chiamati come altri paesi a mettere in ordine i conti è perché ereditiamo decenni di cattiva gestione da parte delle precedenti classi dirigenti. E di immobilismo sul terreno delle riforme. Questo, però, non giustifica la rigidità delle norme e degli obiettivi, che finisce per disumanizzare e limitare la capacità di azione e reazione delle istituzioni europee. Un problema di approccio che non riguarda solo le questioni di bilancio.

L’Unione europea può e deve tornare a essere percepita come moltiplicatore delle opportunità, scrollandosi di dosso un’immagine fatta di paura e sacrifici, sbiadita e senza appeal. Per tornare a guardare con speranza a un futuro europeo abbiamo assolutamente bisogno di riavviare una crescita economica e occupazionale direttamente percepibile. È in base a questa priorità che il Gruppo dei Socialisti & Democratici ha sostenuto con il suo voto la nascita della Commissione presieduta da Jean-Claude Juncker. Parola d’ordine: investimenti. Conosciamo fin troppo bene la scarsità delle risorse pubbliche e, pur puntando per questo motivo a un piano che attragga investimenti privati, sappiamo che, se non saranno indicati con chiarezza gli obiettivi cui destinare lo sforzo, i risultati rischieranno di essere ben al di sotto delle aspettative. Le priorità che stanno emergendo vanno nella giusta direzione: innovazione, economia digitale, unione energetica, ambiente, trasporti e infrastrutture sociali. Nel 2010, in piena crisi, veniva messa in campo la strategia Europa 2020 con l’intento di rimettere sui binari della crescita e della competitività l’economia europea. Un rilancio che orientasse l’Europa verso un futuro “intelligente, sostenibile e inclusivo”.

La sostenibilità come elemento caratterizzante del futuro europeo. Un’idea che poggia le basi tanto sulla consapevolezza degli enormi rischi ambientali del nostro tempo, quanto sulla coscienza del carattere inefficiente e antieconomico dell’attuale modello energetico europeo. Al centro della questione, dipendenza e sicurezza energetica, temi riportati alla ribalta dalla crisi ucraina.

Sul fronte della sostenibilità i prossimi dodici mesi possono rappresentare un passaggio cruciale. A fine 2015 a Parigi si svolgerà la XXI Conferenza tra le parti per il contrasto ai cambiamenti climatici (COP 21). A Bruxelles si continuerà a lavorare sulla nuova strategia “clima ed energia” per il 2030. Da entrambi i fronti, fortemente collegati, ci aspettiamo risultati positivi e per questo bisogna tenere alto il livello del dibattito pubblico, affinché l’Europa si faccia promotrice e protagonista di impegni ambiziosi. In ambito globale non si tratta di andare a fare i primi della classe sugli obiettivi ambientali, ma di agire a livello diplomatico con determinazione e pragmatismo, riuscendo a cogliere l’importante occasione legata alle recenti, positive aperture di Stati Uniti e Cina. Il livello di emissioni mondiali di biossido di carbonio (CO2), legate all’energia, è aumentato dell’1,4%, raggiungendo il record storico di 31,6 gigatonnellate. Il mondo si sta allontanando dall’obiettivo concordato dai governi di limitare l’aumento della temperatura media globale nel lungo termine entro i 2 °C, obiettivo tuttavia ancora tecnicamente raggiungibile. L’Agenzia internazionale dell’energia a oggi prevede che l’aumento della temperatura media possa giungere a un valore tra i 3,6 °C e i 5,3 °C.

Alla COP di Parigi l’ambizione è di arrivare a un accordo globale sottoscritto finalmente dai principali “responsabili” delle emissioni di gas serra, Cina e Stati Uniti in primis. La firma dell’accordo è di fondamentale importanza se consideriamo che, a fronte della mancata ratifica del Protocollo di Kyoto, nonostante l’impegno dei firmatari, abbiamo continuato ad assistere a un costante aumento delle emissioni. Certo, dovrà trattarsi di un accordo che consideri sia il piano delle responsabilità nazionali nell’economia mondiale che la capacità dei diversi paesi di contribuire al risultato globale. La road map che ci condurrà alla conferenza di Parigi sarà decisiva. Se i membri del G20 presenteranno presto i loro obiettivi, ci sarà più tempo per valutare la compatibilità tra gli impegni assunti e una strategia complessiva di contrasto dell’aumento del riscaldamento globale.

Il settore energetico si pone al centro di questa sfida, contando per circa due terzi delle emissioni di gas a effetto serra, con l’80% del consumo mondiale di energia ancora coperto da fonti fossili.

In vista della COP 21 e della preliminare COP 20 di Lima, che si è svolta a inizio dicembre, il Consiglio europeo ha discusso e definito in ottobre la sua posizione sugli obiettivi “clima ed energia” dell’UE per il 2030. La strategia europea si basa fin dal 2008, anno in cui furono stabiliti i target per il 2020, su tre ambiti di azione: la riduzione delle emissioni, l’incremento dell’energia prodotta da fonti rinnovabili e l’aumento dell’efficienza energetica. Si tratta naturalmente di ambiti che si intrecciano tra loro in termini sia di effetti che di risultati. A cinque anni dal 2020 è possibile fare previsioni verosimili sul raggiungimento degli obiettivi fissati e discutere i nuovi target per il 2030.

Nelle comunicazioni presentate dalla Commissione europea nel 2014 si è fatto il punto sullo stato dell’arte e sui possibili scenari post 2020, mostrando le proiezioni al netto di nuove possibili azioni e indicando i risultati auspicabili con nuovi interventi. Il traguardo da raggiungere al 2020 è il famoso 20-20-20: 20% di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, 20% di aumento dell’energia consumata proveniente da fonti rinnovabili, 20% di incremento dell’efficienza energetica. Il tutto rispetto ai valori del 1990. Il percorso di avvicinamento a questo obiettivo è a buon punto.

Nel 2013 le emissioni di gas a effetto serra erano diminuite del 19%, con un’aspettativa plausibile di arrivare a una riduzione del 24% nel 2020 e del 32% nel 2030. Sul fronte dell’energia finale consumata proveniente da fonti rinnovabili nel 2012 eravamo al 14,1%, con una previsione di ulteriore aumento al 21% nel 2020 e al 24% nel 2030. Più critica risulta, invece, la situazione relativa ai progressi sull’efficienza energetica, dove sembra meno scontato il raggiungimento del risultato. Nonostante l’impegno convinto di molti Stati membri, le stime della Commissione parlano di un serio rischio di mancare l’obiettivo del 20% di uno o due punti.

Possiamo guardare positivamente a quanto fatto senza, però, nasconderci alcuni fattori che hanno influito e che andranno tenuti in conto in riferimento alla strategia per il 2030. Sicuramente bisogna considerare che le emissioni sono diminuite anche in funzione della crisi economica e del conseguente calo di consumi e produzione. Sempre in questo senso possiamo leggere nel claudicante risultato sull’efficienza energetica la drastica riduzione della capacità di investimento degli Stati membri, anch’essa legata all’impatto della crisi. Parallelamente, l’incremento di energia prodotta da fonti rinnovabili non è sempre avvenuto in linea con i necessari criteri di efficienza ed economicità. Tuttavia, queste criticità, se associate alla fortissima dipendenza energetica e alle sue conseguenze in termini di costi (3,1% del PIL nel 2012) e di bilancia commerciale dell’UE, non fanno che rendere ancora più urgente il rafforzamento di un’azione europea comune per la transizione a una società a basse emissioni di carbonio. Tornando al tema del rapporto tra istituzioni europee e cittadini, è sempre utile ricordare che il peso della bolletta energetica finisce in ultima istanza per gravare sulle famiglie e sulla produzione industriale, con risvolti in termini sociali e di competitività facilmente immaginabili. Il percorso è chiaro. Dobbiamo procedere in linea con la tabella di marcia per il 2050. In questo senso la Commissione ha anticipato, e il Consiglio ha approvato con qualche modifica, gli obiettivi al 2030. Questi obiettivi, da un punto di vista economico, non presentano costi significativamente maggiori rispetto a quelli comunque necessari per rinnovare un sistema energetico antiquato, per far fronte all’aumento dei prezzi dei combustibili fossili e per adeguarsi alle politiche climatiche ed energetiche vigenti.

Sulla riduzione delle emissioni Commissione e Consiglio hanno concordato su un obiettivo UE vincolante di almeno il 40%, da associare all’impegno di portare la quota di energie rinnovabili almeno al 27%. In quest’ultimo ambito si lascerebbe ai paesi membri la flessibilità di definire i propri obiettivi nazionali, a differenza di quanto era previsto per il 2020. Relativamente all’efficienza energetica, la Commissione ha prodotto un’apposita Comunicazione, indicando un obiettivo auspicabile al 2030 del 30%, anche in considerazione del fatto che una riduzione delle emissioni del 40% comporterebbe verosimilmente già di per sé un aumento dell’efficienza energetica del 25%. Su questo, però, le conclusioni del Consiglio di ottobre si sono limitate a indicare un obiettivo di “almeno” il 27%.

Su questa scelta si fa sentire nuovamente il segno della crisi economica e dell’attuale difficoltà e futura incertezza sulle possibilità di investire degli Stati membri. Ancora a luglio del 2014 si rilevava come, nonostante i progressi registrati, solo cinque Stati membri avessero notificato il pieno recepimento della precedente direttiva sull’efficienza energetica. Naturalmente, tenendo conto del valore aggiunto di ogni euro investito nell’innovazione energetica e nella protezione ambientale, rimane fondamentale indirizzare con lungimiranza le risorse finanziarie in modo strategico. In questo senso, ad esempio, l’Italia ha tenuto la barra dritta sulle politiche per l’efficienza energetica. D’altro canto, dobbiamo realisticamente considerare le oggettive difficoltà economiche che affrontano gli Stati membri nell’attuazione di questa come di altre politiche definite in ambito europeo.

In questa fase di discussione una maggiore flessibilità per gli Stati membri in ambito energetico è stata, infatti, presentata congiuntamente a un auspicabile rafforzamento della governance europea sui target stabiliti, in coerenza con il raggiungimento degli obiettivi nazionali ed europei di riduzione delle emissioni.

Una parte importante del mondo ambientalista, così come lo stesso Parlamento europeo in una risoluzione approvata in vista della Conferenza di Lima, ha denunciato un’eccessiva timidezza nel quadro definito dal Consiglio europeo. Non è, però, sfuggita la scelta dello stesso Consiglio di accompagnare ogni obiettivo con l’indicazione “almeno”. In questo modo i margini per l’innalzamento dei target rimangono rivedibili, anche in considerazione dei possibili sviluppi legati a un accordo internazionale sulle emissioni e a un eventuale accesso a un sistema di crediti internazionali. Le indicazioni di ottobre hanno intanto avuto il merito di individuare una prima base di consenso tra gli Stati membri nella COP 20 di Lima.

Sulle politiche “energia e clima”, come sul più ampio tema della governance europea, un approccio pragmatico è fondamentale per affrontare le sfide di innovazione e competitività che abbiamo di fronte, creando opportunità per le future generazioni. Siamo in un’era politica assolutamente diversa rispetto a quella precedente il 2008. La crisi economica, la difficoltà nell’affrontarla e la miopia di molte delle scelte dell’UE hanno segnato uno spartiacque. Obiettivi più o meno ambiziosi non possono più prescindere dalla flessibilità necessaria a renderli adatti ai cambiamenti di scenario economico e alle trasformazioni globali. Un piccolo ma significativo segnale di questa consapevolezza potrebbe emergere nei prossimi mesi. È, infatti, in programma la revisione dell’ETS (Emission Trading System), uno strumento che, adottato a livello europeo nel 2005 per ridurre le emissioni di gas serra, si è scontrato in tempo di crisi con la rigidità della sua impostazione, non solo mancando i suoi risultati ma paradossalmente rischiando di creare ulteriori distorsioni.

Questo non è più ammissibile. Non c’è più tempo da perdere sul fronte dello sviluppo sostenibile. Bisogna andare avanti producendo risultati concreti e facendo un sano test di realismo europeo. Il nostro futuro non potrà più prescindere dall’economia verde e, prima che la questione diventi ineludibile, occorre rimboccarsi le maniche e lavorare da subito affinché i ventotto paesi agiscano in maniera il più possibile armonica nel settore ambientale.