La fatica delle riforme

Di Anna Finocchiaro Lunedì 04 Novembre 2013 16:00 Stampa

Quello delle riforme è un terreno sul quale, negli anni, si sono misurati, a tutto scapito del loro successo, i rapporti di forza politici e si è constatata l’assenza di una condivisione, tra i soggetti in campo, dei principi e valori fondanti della democrazia repubblicana. Oggi le riforme costituzionali rappresentano un punto del programma governativo di un esecutivo che può contare su un’ampia maggioranza. Questo, pur non mettendole al riparo dal rischio di fallimento, aumenta le probabilità che si possa procedere speditamente verso un traguardo positivo, restituendo così, tra l’altro, dignità e autorevolezza alle istituzioni.

 

Il lunghissimo dibattito sulle riforme ha storicamente segnalato una vistosa contrapposizione tra due posizioni, efficacemente definite come “conservatorismo irriducibile” e “riformismo radicale”. La loro rancorosa coesistenza è esplosa, per la prima volta, durante i lavori della Bicamerale D’Alema. La discussione pubblica agìta dai cosiddetti “conservatori” giunse a fraintendere oggetto e contenuto medesimo delle norme di riforma costituzionale, specie in tema di Titolo IV (La Magistratura).

Lo ricordo non per dar torto o ragione, ma perché colpiva che potesse giocare in maniera così definitiva uno spirito di prevenzione difensivo che evocava “l’attacco alla Costituzione” e su questo mobilitava, anche al di là della lettera stessa delle modifiche e dell’equilibrio d’impianto che ne sarebbe derivato. Se può avere un senso fare riferimento a un ricordo personale, esso è quello di un incontro pubblico a Firenze nel corso del quale bastò esibire il testo ufficiale stampato dalla Camera dei Deputati per smontare, devo dire con un certo imbarazzo dei presenti, l’infiammata requisitoria di cui il tentativo di riforma (e io, naturalmente, che quel tipo di riforma sostenevo) era stato fatto oggetto.

Dall’altra parte, giocavano un ruolo essenziale le radicali posizioni di alcuni “riformatori”, la cui carica di aggressività nei confronti delle prerogative costituzionali della magistratura, il cui sostegno all’introduzione nella Carta di un modello di governo tutto stretto sulla figura del “leader eletto dal popolo”, la cui continua evocazione degli eccessivi limiti che a Costituzione vigente “impedivano” l’esercizio del governo, il cui giudizio sommario sulla inconcludenza del ruolo del Parlamento diventavano elemento di freno e poi di blocco di ogni condivisa (e possibile) ipotesi riformatrice.

Così è stato con la Bicamerale, così con la Bozza Violante, così con il tentativo della XVI legislatura. La radicalità insita nell’idea riformatrice del centrodestra ha, da una parte, attivato meccanismi difensivi rispetto alla riforma e, dall’altra, ha condotto questo schieramento a sottrarsi clamorosamente ad accordi politici sul punto, poiché ritenuti poco utili in quanto non coerenti con la radicalità riformatrice richiesta.

Sul fronte delle riforme si sono dunque misurati rapporti di forza politici e, più chiaramente che altrove, si è verificata la difficoltà che maturasse nel nostro sistema un’idea di bipolarismo così come si esprime in altre democrazie occidentali. Non parlo, ovviamente, dell’alternanza al governo. Quel risultato è stato raggiunto, sia pure con i limiti noti. Parlo di quell’affidamento reciproco che si fonda su di un a priori che sta nel riconoscere un terreno, quello limitato dai principi costituzionali e che non è solo descritto dalla prima parte della Carta, come terreno che non può ospitare la contesa ma che, anzi, è il luogo del riconoscimento e della garanzia comune. Un terreno sul quale possono misurarsi ipotesi diverse di riforma, ma che non può conoscere conflitto su principi e valori fondanti la democrazia repubblicana.

Si comprende, perciò, come la distanza profonda su questioni centrali, che è stata talvolta addirittura distanza sulla lettura stessa della Costituzione e sull’apprezzamento del suo spirito, abbia continuamente alimentato una diffidenza di fondo. La ragione essenziale del cosiddetto conservatorismo costituzionale sta in questa diffidenza, squisitamente politica, nei confronti dell’interlocutore. Dall’altra parte, i cosiddetti riformatori radicali sempre dubitano della volontà riformatrice altrui, considerata “schiava” dell’impianto costituzionale come esso è, integralmente, dato. Non è un caso che le riforme oggi intraprese abbiano possibilità di successo perché il Titolo IV è escluso dalle materie da riformare, e che fallimenti pregressi si siano registrati esattamente sul terreno della riforma costituzionale della magistratura (Bicamerale D’Alema), mentre lo spauracchio del semipresidenzialismo è stato agitato (anche rompendo un esplicito patto ad excludendum del tema da quello delle riforme condivise) ben conoscendone la potenza simbolica e politica e il fatto che avrebbe interrotto il percorso delle riforme, come è accaduto nella XVI legislatura.

Ma, mentre sulla scena pubblica infuriava lo scontro, maturava nel paese una cauta diffidenza in ordine agli esiti riformatori raggiunti. È la ragione essenziale dell’abrogazione, con i referendum del 2006, della complessiva riforma costituzionale (ben 54 articoli risultavano modificati) approvata dal centrodestra nel 2005, senza i voti dell’opposizione. In quel caso, pur scontando una sostanziale diserzione del centrodestra durante la campagna referendaria, a prevalere fu appunto la diffidenza (vistosamente presente nelle Regioni del Sud) nei confronti di una riforma che veniva avvertita come una sorta di resa dei conti di un conflitto politico e anche come potenzialmente lesiva dell’attuazione/conservazione di diritti fondamentali, a cominciare da quello alla salute. L’impressione era rafforzata dal protagonismo della Lega, sostenitrice del modello di federalismo recato dalla riforma. Fondata o meno che fosse quell’impressione (fondata, a mio giudizio), ciò che fece premio fu la diffidenza rispetto all’esito di un patto sul federalismo che aveva visto la Lega Nord protagonista vincente all’interno della coalizione di centrodestra. La premessa non è inutile per valutare il dibattito pubblico odierno. Al quale partecipa, come attore nuovo, un ulteriore soggetto, che si oppone alla stessa individuazione delle tre questioni del bicameralismo perfetto, della forma di Stato e della forma di governo come oggetto primo, e necessario, di riforma e introduce, alternativamente, il tema della democrazia diretta. Sia pure con forme e proposte non ancora sistematicamente organizzate, e scisse da una necessaria riflessione sulla possibilità di innesto su di un impianto costituzionale costruito sul modello della rappresentanza, dovrà comunque tenersi conto che il discorso pubblico sulle riforme non potrà prescindere dal coltivare le potenzialità espansive di alcuni strumenti (dal referendum alle proposte di legge di iniziativa popolare, a forme di coinvolgimento ampio nel dibattito che accompagna le riforme).

Per l’intanto, osserviamo come la discussione sulla legge costituzionale di riforma dell’articolo 138 della Costituzione abbia segnalato la presenza, e la forza, dei soggetti “antagonisti” della riforma, siano essi soggetti appartenenti alla schiera dei “conservatori” o dei “radicali” o sostenitori di un modello di democrazia diretta. Ciò, peraltro, in un contesto segnato dalla eccezione di un esecutivo politico cui partecipano centrodestra e centrosinistra e che ha fatto delle riforme costituzionali un tema essenziale di programma.

Ed è proprio questo il punto politico. Le riforme costituzionali come punto di programma governativo comune, piuttosto che come terreno di contesa tra avversari. Obiettivo considerato così impegnativo da far dichiarare al presidente del Consiglio, il 29 aprile 2013, nel discorso dinanzi alle Camere in occasione del voto di fiducia: «Dal momento che questa volta l’unico sbocco possibile per questo tema è il successo nell’approvazione delle riforme che il paese aspetta da troppo tempo, fra diciotto mesi verificherò se il progetto sarà avviato verso un porto sicuro. Se avrò una ragionevole certezza che il percorso di revisione della Costituzione potrà avere successo, allora il nostro lavoro potrà continuare. In caso contrario, se veti e incertezze dovessero minacciare di impantanare tutto per l’ennesima volta, non avrei esitazioni a trarne immediatamente le conseguenze». Queste parole trovano precedente in quelle pronunciate dal presidente Napolitano nel discorso di insediamento davanti alle Camere: «Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese».

In realtà, il percorso riformatore delineato dal presidente Letta nel suo discorso è quello descritto poche settimane prima nella relazione finale della cosiddetta “Commissione dei saggi”, costituita dal presidente Napolitano il 30 marzo 2013. La svolta è quella di far pronunciare il Parlamento su proposte formulate da una Convenzione, aperta alla partecipazione anche di esperti non parlamentari e che parta dai risultati dell’attività parlamentare della precedente legislatura e dalle conclusioni del cosiddetto “Comitato dei saggi”. Il presidente del Consiglio si rifà proprio a quella relazione e propone che «la revisione costituzionale si compia attraverso una Commissione redigente mista costituita, su base proporzionale, da parlamentari e non parlamentari (…). Questa, in dialogo con le Commissioni affari costituzionali della Camera e del Senato, redigerà un testo di riforma e lo presenterà al Parlamento che lo voterà articolo per articolo senza emendamenti. Il Parlamento, prima di votare, può approvare ordini del giorno vincolanti per la Commissione, per chiedere (e ottenere) la correzione del testo».

La scelta è assolutamente inedita. La deroga alla procedura prevista dall’articolo 138, pur operata in occasione della istituzione della Commissione De Mita-Iotti e della Commissione bicamerale presieduta da D’Alema, non ha mai contemplato né la presenza di “laici” nell’organo proponente le riforme, né, e direi soprattutto, ha mai previsto che quell’organo procedesse in sede redigente, con la conseguente limitazione dei poteri del Parlamento. La ragione che ha condotto a questa scelta – criticabile per molti versi – è chiara. La troviamo in premessa nella relazione dei cosiddetti “saggi” («Il processo di revisione costituzionale, per quanto possibile, deve essere tenuto al riparo dalle tensioni politiche contingenti che attraversano quotidianamente la vita del Parlamento e dei partiti. La revisione costituzionale (…) diventa il luogo ove si sono sistematicamente scaricate, a partire dalla Commissione Bozzi (1985), le tensioni politiche e i dissensi tra i partiti») e la troviamo nel discorso di Letta («Abbiamo assistito troppe volte all’avvio di percorsi riformatori che (…) si sono infranti contro veti reciproci, chiusure partigiane, prese di posizioni strumentali e contrapposizioni dannose nonostante i reiterati richiami del Presidente della Repubblica»). Colpisce che, mentre si assumono le riforme come obiettivo essenziale e imprescindibile del governo, e dunque essenziale punto d’accordo tra le forze che compongono una larghissima maggioranza, si operi per esorcizzare lo spettro di un conflitto e di un fallimento che si ritiene ancora in agguato.

Una difesa avanzata che non mancherà di produrre effetti negativi. Risorge infatti, in tutta la sua radicalità, la protesta di chi – è sempre questo il punto – ritiene che l’impegno assunto dal governo e la strada indicata per le riforme rappresentino il primo inaffidabile esito dell’accordo tra centrodestra e centrosinistra, rischio amplificato dal vincolo di maggioranza. La questione politica è intatta. E si manifesta in tutta evidenza anche quando, dopo avere raccolto fondate critiche sulla composizione mista e sui poteri redigenti della Convenzione, il 29 maggio i gruppi di maggioranza presentano, e approvano, una mozione parlamentare che impegna il governo alla presentazione di un disegno di legge che preveda la procedura straordinaria di deroga all’articolo 138 della Costituzione e che, piuttosto che alla Convenzione, affida a un Comitato di venti senatori e venti deputati l’esame, in sede referente, dei progetti di legge di revisione costituzionale dei Titoli I, II, III e V della Parte seconda della Costituzione e la conseguente legge elettorale. Con la stessa mozione viene previsto ancora che sia possibile sottoporre a referendum confermativo le leggi di revisione anche quando esse siano state approvate con la maggioranza dei due terzi.

Nello stesso giorno, quarantatré parlamentari del Partito Democratico presentano un documento critico sulla mozione e contestano, tra l’altro, la deroga alla procedura di revisione della Costituzione, considerata «un oggettivo problema e un pericoloso precedente». Si producono appelli e documenti che denunciano “l’attacco alla Costituzione”. Tutto legittimo, naturalmente, ma anche significativo del fatto che la mutata vicenda politica costituita da un impegno della inedita compagine di governo, e che corrisponde a una larghissima maggioranza parlamentare, piuttosto che rassicurare, allarma su una possibile deriva del processo riformatore.

Si intravvede, nel dibattito, un argomento da difesa estrema, secondo cui la rappresentanza parlamentare eletta con il Porcellum non sarebbe pienamente legittimata a riformare la Costituzione. La mozione del M5S è, in questo senso, assolutamente esplicita, sostenendo che il Parlamento eletto con legge costituzionalmente viziata vede signifi cativamente indebolita la legittimità morale e politica del riformatore costituzionale, che può intervenire limitatamente su alcune signifi cative questioni «unanimemente sentite dal popolo italiano, senza però scardinare il sistema delle forme di Stato e di governo vigenti». Allo stesso tempo, viene espressa una critica di fondo sul fatto che sia il governo (rectius: proprio questo governo) a farsi carico della proposta di revisione dell’articolo 138 della Costituzione. Ininfl uenti le considerazioni sul fatto che sarà il Parlamento a decidere, che avrà ogni possibilità di emendare il testo, che nulla esclude l’iniziativa parlamentare, che da troppi anni e in troppe occasioni il processo, pur avviato dal Parlamento, sia fallito.

È dunque indispensabile che l’esame delle proposte di legge di revisione costituzionale dell’articolo 138 della Carta provi a definire un ambito e un metodo che mettano in protezione il percorso delle riforme. È questo il lavoro a cui ci si accinge. La proposta del governo viene sottoposta a un vaglio attentissimo dalla Commissione affari costituzionali del Senato e poi dall’Aula. Le questioni più delicate da affrontare riguardano la costituzione del Comitato parlamentare paritetico, la sua composizione proporzionale, la definizione dell’ambito delle riforme, la competenza in materia di riforma elettorale, il procedimento e i poteri di modifica del testo consegnato dal Comitato al dibattito d’Aula, i referendum confermativi e gli strumenti di partecipazione pubblica al dibattito.

Sono, in particolare, la seconda e la terza questione quelle su cui si misura – per davvero – la possibilità di andare avanti. Sarà, così, necessario definire con ogni esattezza che il Comitato esamina i progetti di revisione costituzionale degli articoli di cui ai Titoli I (Il Parlamento), II (Il Presidente della Repubblica), III (Il Governo) e V (Le Regioni, le Province, i Comuni) della Parte seconda della Costituzione, nonché, in materia elettorale, esclusivamente i conseguenti progetti di legge ordinaria concernenti i sistemi di elezione delle due Camere, e che il Comitato esamina o elabora, in relazione ai progetti di riforma costituzionale definiti, anche le modificazioni strettamente connesse ad altre disposizioni della Costituzione o di legge costituzionale. La definizione dell’ambito di riforma esclude il Titolo IV. Non può essere altrimenti, a meno di evocare, ancora una volta, lo spettro di una divisione e di uno scontro politico mai spento. D’altro canto, l’esigenza di coerenza interna di ogni testo di riforma, in sé autonomo anche per agevolare l’espressione dei cittadini in caso di referendum (che, dunque, non avrà a oggetto il “blocco” delle riforme, ma singoli provvedimenti su ciascuno dei temi affrontati), e di coerenza dell’intero sistema riformato impone che la competenza del Comitato si estenda alle modificazioni strettamente connesse. Ciascuno sa che, qualora la forma di governo scelta fosse quella del cosiddetto “semipresidenzialismo”, modifiche al Titolo IV con riguardo ai poteri del presidente della Repubblica sarebbero inevitabili, a tutela stessa della indipendenza e autonomia della magistratura.

Il procedimento d’esame d’Aula viene studiato e modificato per allargare la possibilità di proporre emendamenti parlamentari. Il referendum confermativo resta ammissibile anche in caso di approvazione con la maggioranza dei due terzi. Il Senato viene impegnato ad attivare una piattaforma online che consenta un ulteriore spazio di confronto e informazione con i cittadini sui temi delle riforme discusse in Parlamento. D’altra parte, la composizione tutta parlamentare del Comitato, la sua pariteticità e composizione proporzionale e la sua signorìa nel proce-dimento rispondono all’obiezione che le riforme abbiano visto l’espropriazione del Parlamento a vantaggio del governo e che le opposizioni siano di fatto escluse dal processo. E tende a evitare un rischio: che un preteso istinto conservatore del Senato boicotti la riforma del bicameralismo perfetto.

La legge costituzionale si avvia oggi, nel testo licenziato dal Senato, alle letture conclusive. Il processo delle riforme potrà dirsi, da allora, cominciato. Resta da capire, e sarà assai interessante, se le recenti vicende politiche, culminate nel voto di fiducia del 2 ottobre scorso, riscatteranno in parte, o meno, questo percorso dalle ansie difensive dei “conservatori irriducibili” e dei “riformatori radicali” e quanto giocherà, nella fisionomia della Carta riformata, il consistente appello agli strumenti della cosiddetta “democrazia diretta”, che si giova di circa un terzo della consistenza parlamentare.

Non mi aspetto cambi radicali di scenario, certo, e quelle ansie perdureranno. Peraltro, la cronaca di questi giorni e la violenza degli attacchi al lavoro della Commissione consultiva per le riforme costituzionali ne danno ampiamente atto. Continuerà a usarsi, come arma impropria, quel discredito delle istituzioni che nutre anche tanta parte della comunicazione, incapace e disinteressata rispetto ai mutamenti necessari. Ma penso che l’attenzione politica con cui si è fi n qui lavorato al governo e in Parlamento e, direi, la cura con cui si è provato anche a fecondare di nuovi stimoli e nuove proposte il terreno del lavoro comune possano condurre ai necessari, ineludibili, risultati di riforma.

Sarà indispensabile, anche per rafforzare questo processo, che il Parlamento approvi intanto una nuova legge elettorale, che serva transitoriamente a mettere in sicurezza il paese rispetto alla malaugurata evenienza che si torni a votare prima del compimento delle riforme e della legge elettorale a esse coerentemente conseguente. Sarebbe il segnale che si fa sul serio e che la volontà delle forze politiche di operare – finalmente – una soluzione di continuità rispetto agli insuccessi e ai fallimenti è reale. Servirebbe a ridare ruolo e potere di decisione ai cittadini e a confermare dignità e autorevolezza delle istituzioni rappresentative. Ed è tutto questo che compone, appunto, l’ulteriore, e nuova, fatica della politica delle riforme.