Famiglia e famiglie. Transizioni demografiche, migrazioni culturali, nodi delle politiche

Di Franca Bimbi Giovedì 20 Marzo 2008 19:28 Stampa

Le varianti italiane di una sfida europea Le trasformazioni della famiglia italiana vanno considerate nel contesto europeo, che ci permette di rilevare, nel nostro come negli altri paesi, due aree problematiche: la struttura del modello demografico europeo-occidentale e le forme di regolazione giuridica pubblica delle nuove modalità del vivere assieme. Un terzo nodo, da considerare separatamente perché emerso molto più di recente e con caratteristiche differenti, anche se oramai fortemente interconnesso ai primi due, riguarda le variabili relative all’immigrazione. Tutti e tre gli aspetti hanno riacceso il dibattito culturale attorno alla famiglia e suscitato nuove domande di regolazione delle forme familiari.

La seconda transizione demografica,1 che ha investito i paesi a più antica industrializzazione da circa un trentennio, presenta in Europa, con maggiore o minore intensità e con cadenze temporali diverse, alcune caratteristiche comuni: allungamento della speranza media di vita, discesa della fecondità al di sotto, o appena attorno, al livello di sostituzione, incremento dei divorzi e diminuzione dei matrimoni, aumento delle unioni di fatto e delle nascite fuori dal matrimonio. Ultimamente assistiamo anche alla tendenziale prevalenza della formazione della famiglia attraverso l’unione di fatto piuttosto che attraverso il matrimonio. Inoltre, mentre si generalizza l’incremento delle nascite fuori dal coniugio (nel ventaglio che va dal 15% dell’Italia al 50% della Svezia), le unioni di fatto che restano stabili nel tempo si trasformano meno sovente in matrimonio, anche in presenza di figli. Dunque, in una stessa generazione di adulti, le forme di famiglia si moltiplicano: l’allungamento della vita fa aumentare soprattutto i nuclei di vedove che vivono da sole; il rinvio del matrimonio e le transizioni dal divorzio incidono sull’aumento della proporzione di single giovani-adulti; una porzione crescente delle famiglie fondate sul matrimonio ha alle spalle un precedente divorzio; la scelta matrimoniale può esser preceduta o seguita da convivenze in cui coinvolgimenti, modalità organizzative e decisioni di prospettiva di vita, acquistano, per i partner e per i figli, significati di tipo familiare; si moltiplicano le famiglie con un solo genitore, la maggior parte delle volte la madre – con cui restano i figli minori almeno nell’80% dei casi, anche nei paesi in cui l’affidamento congiunto è la prassi prevalente. Soprattutto appare rilevante per il futuro delle relazioni familiari l’aumento dei nuclei genitoriali in cui crescono i figli di uno solo dei due partner oppure i figli del primo matrimonio di uno dei due con i figli di ambedue, o passano una buona parte del loro tempo i figli conviventi con l’ex coniuge o con l’ex partner di uno dei due. Da questo scenario scaturiscono molte difficoltà per il «modello sociale europeo». I quattro tradizionali modelli di welfare (anglosassone, continentale, nordeuropeo e mediterraneo) affrontano da anni, con più o meno successo, analoghi problemi di sostenibilità socio-economica, di riequilibrio tra lavoro, famiglia e vita privata, di limiti all’eguaglianza di genere e all’equità tra le generazioni, che con maggiore gravità si riflettono oggi, nell’Unione a ventisette, anche sul ritardo nello sviluppo di una società europea della conoscenza competitiva a livello internazionale. Curiosamente, a differenza di quella che spesso è una credenza diffusa, le difficoltà di interazione tra problematiche della vita familiare e governance dei processi socio-economici, risultano maggiori nei paesi a regime mediterraneo (che si rappresentano come più attaccati alla norma familiare, più comunitari, più solidali e a reti familiari più coese) che non nei paesi in cui i processi di individualizzazione delle scelte familiari e l’instabilità matrimoniale sono stati più precoci e si mantengono più profondi. Limitiamoci ad osservare che Svezia e Francia vedono aumentare quasi in sincronia sia il numero delle nascite sia la proporzione di convivenze, mentre risultano (particolarmente la Svezia) anche più capaci di politiche di conciliazione del lavo- ro femminile con la maternità e di sostegno alle responsabilità di ambedue i genitori anche se non più conviventi. La Svezia, con incrementi di nascite superiori agli altri paesi, risulta anche il paese in cui le donne e le coppie desiderano un numero più alto di figli (superiore a due), mentre in Italia anche il desiderio dichiarato oscilla attorno ai due figli o meno. La situazione italiana appare particolarmente segnata da alcuni fattori specifici (al netto delle dinamiche migratorie) che si stanno aggravando: persiste oramai da trent’anni una natalità al di sotto del tasso di sostituzione, la percentuale d’esclusione delle donne dal mercato del lavoro resta eccezionalmente elevata come pure l’asimmetria nei tempi del lavoro di cura. Inoltre, la tendenza a procreare un solo figlio sembra accentuarsi, i figli restano in famiglia sino e oltre ai trent’anni, tra i giovani che si sposano emergono rischi di povertà più elevata rispetto ai coetanei che formavano una nuova famiglia meno di dieci anni fa. Aggiungiamo che dati recenti2 indicano anche un indebolimento delle reti di cura tra le generazioni a fronte delle crescenti necessità legate all’invecchiamento della popolazione. Il patto verticale tra le generazioni, cui i genitori hanno tenuto fede sostenendo la formazione della famiglia dei figli con trasferimenti di reddito e con aiuti per la cura dei nipoti, non sembra più interiorizzato dalle coppie più giovani come obbligo morale a restituire quanto ricevuto. La sostituzione di donne straniere nella cura familiare diretta degli anziani in parte nasconde e in parte svela la fragilità attuale delle reti familiari e delle relazioni di dono tra le generazioni femminili, la cui tenuta e persistenza veniva considerata comparativamente come una peculiarità italiana: del resto ancora in parte confermata, se si pensa che le madri sole in Italia sono occupate prevalentemente a tempo pieno grazie all’aiuto delle madri o delle suocere. La ripresa del termine ottocentesco «badanti», per le figure di straniere-intime che compiono funzioni di collaborazione familiare polispecialistica, richiama antiche e quasi castali gerarchie di status e di distanze sociali, segno come minimo dell’ambivalenza presente sia nelle relazioni familiari che nei rapporti con l’«altro» che vive sotto il nostro stesso tetto. Attraverso le badanti l’immigrazione entra nel discorso sulla famiglia, anzi nel discorso sull’intimità familiare. Le collaboratrici familiari polispecializzate (normalmente pagate meno delle colf, che si occupano solo della casa) sono scelte tra quelle provenienti da nazioni e popolazioni in cui si ritiene che la cura degli anziani sia ancora molto personalizzata e attenta alla qualità del rapporto. A queste persone, tra l’altro, stiamo affidando uno dei compiti più simbolicamente densi delle relazioni familiari: quello di accompagnare i nostri cari, per lo più i genitori, verso l’ultima transizione della vita. Le ricerche su questo tema3 ci mettono di fronte a famiglie italiane dalla «doppia presenza» femminile che selezionano le badanti come se il modello familiare preferito fosse quello della coppia occupato-casalinga (in cui c’è sempre una figura femminile disponibile accanto al letto del malato) o quello della famiglia allargata di un tempo (figlie e nuore, ma sempre di più anche figli, si avvicendano con la collaboratrice familiare straniera almeno per i fine settimana e le ferie).

Qual è allora la famiglia «tradizionale» che è cambiata o sta cambiando e a quale modello culturale ci si riferisce quando si usa l’espressione «famiglia»? Le due questioni investono il dibattito pubblico per quel che riguarda le scelte di politiche familiari (per quali famiglie e per quali tipi di relazioni tra individui e tra individui e famiglia?), toccano la discussione sul riconoscimento legale delle forme diverse di convivenza, implicano l’accettabilità o meno dei costumi familiari presenti nelle diverse culture dei migranti.

La famiglia «tradizionale» è una metafora? Negli anni Cinquanta William Goode metteva in guardia gli studiosi dalla nostalgia della famiglia classica occidentale. Il «grazioso quadretto della vita giù nella fattoria della nonna», caro ad un’opinione pubblica già allora disorientata dai rapidi cambiamenti delle forme familiari, non corrispondeva alle dinamiche concrete della vita privata e delle relazioni intime vissute dalle generazioni precedenti. In Italia, negli anni Settanta – ma anche oltre – l’espressione «famiglia tradizionale» rimandava ancora a quello stereotipo, in parte rimpianto, in parte criticato: tre generazioni sotto lo stesso tetto trasferivano dalla più anziana alla più giovane solidi orientamenti al matrimonio indissolubile e all’obbligo morale della procreazione, gerarchicamente ben ancorate all’autorità del capofamiglia maschio e al governo degli affari domestici da parte della sua (unica) consorte. Nel contempo, la cosiddetta famiglia coniugale complementare isolata (madre casalinga, padre occupato, almeno due figli) si stava rapidamente consolidando come tipo ideale in tutte le classi e i ceti sociali. Tuttavia, altrettanto rapidamente, i suoi progressivi principi democratici (reciprocità negli impegni affettivi e nelle forme del dono sessuale, orientamento al controllo della procreazione e corresponsabilità genitoriali pur nella distinzione tra ruoli e compiti domestici, parità nei doveri e annunci di eguaglianza nei diritti) venivano sottoposti ad un doppio stress: difficoltà di trasformare l’ideale in regole consolidate e in pratiche generalizzate; critica serrata, da parte di minoranze attive femminili e femministe. Riflessione critica e nuove domande sociali affrontavano le diseguaglianze di genere inerenti al paradigma emancipazionista della modernità, mettendo in luce come la crescente trasposizione del principio dell’uguaglianza dalla sfera pubblica maschile a quella privato-pubblica della «doppia presenza» delle donne rischiava di privare di valore aspetti culturali, cognitivi e simbolici della differenza sessuale e delle capacità relazionali di tipo materno,4 che, riconsiderati attraverso il prisma delle culture gender oriented, venivano riconosciuti dalle donne come patrimonio sociale da integrare in una definizione innovativa di democrazia duale.

Oggi, nel dibattito pubblico, si tende a identificare la coppia coniugale formata da padre e madre occupati con non più di due figli come modello di «famiglia tradizionale», della quale, allo stesso tempo, si dichiara la crisi. Una transizione così rapida dell’imputazione della tradizione da un idealtipo ad un altro merita attenzione. La nuova famiglia coniugale moderna prevede un modello pienamente simmetrico – dell’eguaglianza, della reciprocità e della scelta – che si concretizza nell’orientamento alla procreazione condizionato dalle coincidenze delle propensioni nella coppia, e nell’affermazione della doppia presenza come investimento anche di tipo professionale da parte delle donne. Si tratta di un idealtipo che subisce lo stress della continua verifica delle coincidenze affettive con le scelte individuali e del rapporto difficile tra la presenza nel mercato e le richieste legate alle responsabilità della cura. Di fatto, l’asimmetria di genere, ovvero la «dominazione maschile»5 si riproduce nell’oscillazione continua tra il significato identitario dei ruoli lavorativi (la cui rilevanza conclamata per tutti è di fatto appannaggio di ristrette minoranze di maschi adulti) e il significato oblativo della cura delle persone, che in via di principio viene considerata anche un valore economico mentre di fatto continua ad assumere persino forme nuove di lavoro servile (non solo nel caso delle badanti).

Una stessa generazione di persone – donne e uomini nati nel secondo dopoguerra – si è trovata, nel corso della vita, a definire l’esperienza dei rapporti primari significativi nel contesto della messa in discussione di tre tradizioni fondative del racconto di sé: la famiglia felice del patriarca della fattoria; la famiglia «nuova», conquistata nel dopoguerra, coniugale, democratica e complementare; la famiglia faticosa degli ultimi vent’anni, che ha come orizzonte la reciprocità, la corresponsabilità del progetto di vita e dell’eventuale genitorialità, la riconciliazione tra lavoro e famiglia per donne e uomini. Tre rappresentazioni ideali sono troppe per una sola generazione, soprattutto se nel passaggio dall’una all’altra sembra ampliarsi sempre di più il divario tra modelli ideali, pratiche della vita concreta delle famiglie, forme giuridico-istituzionali prevalenti.

Confrontando i primi due modelli della tradizione – della nonna autorevole nella coppia asimmetrica e della coppia complementare – possiamo osservare i punti salienti delle loro caratteristiche e difformità. Nel primo, per i coniugi coincidevano (nelle differenze di ruolo) il matrimonio e l’assunzione delle responsabilità adulte, mentre per le sole donne si sovrapponevano affetti, sessualità e procreazione. Nel secondo modello le sovrapposizioni previste (matrimonio e responsabilità genitoriali, amore e sessualità) si sono confrontate con la separazione tra procreazione e sessualità e, soprattutto, con l’impossibilità di mantenere la relazione nel quadro di una forza istituzionale sovrastante la volontà dei singoli e la ricerca personale della felicità: la Nora di Ibsen non è una casalinga degli anni Cinquanta, ma anticipa tutti i dilemmi della madre e moglie totale alla ricerca di una «stanza tutta per sé». Nel corso del Ventesimo secolo l’etica del sacrificio di sé scompare man mano dall’orizzonte della norma sociale familiare, anche perché si diluisce molto il senso del matrimonio come alleanza tra famiglie e nella cop- pia finalizzata alla procreazione. Il terzo modello risulta comprensibile alla luce della legittimazione del divorzio: infatti tutte le sue variabili ideali (reciprocità, progetto di vita comune, eventuale genitorialità, eguaglianza di genere dentro e fuori la famiglia) si sono formate nel contesto di processi molteplici di individualizzazione delle scelte di vita e dunque sotto l’ipotesi della coincidenza, ricercata idealmente ma improbabile concretamente, di tutti questi elementi nella coppia e nel tempo. Non è un caso che, anche per le donne, l’inizio della vita a due preveda l’esperienza della coabitazione senza matrimonio e che il rinvio della decisione di procreare in attesa del momento adeguato per ambedue incida sul numero dei figli. La crucialità della legittimazione del divorzio emerge se si riflette sul rapporto tra questi elementi e le variabili dello scenario demografico.

Demografia, divorzio e nuove forme di vita familiare La transizione demografica vissuta dai paesi di più antica industrializzazione, messa a confronto con le dinamiche dei cambiamenti nei paesi in via di sviluppo e ad alta natalità, offre poche ma significative certezze interpretative sulle trasformazioni della famiglia. L’investimento delle donne nell’istruzione, assieme all’aumento dell’età al matrimonio e all’accentuazione dell’esogamia extraparentale, comportano una contrazione irreversibile nella numerosità della prole. Il senso dell’irreversibilità non è dato dal numero dei figli, quanto dalla legittimazione sociale a poter costituire una famiglia sulla base della volontà di regolarne il numero in relazione ad un patto a due, intimo e non sindacabile neppure nel caso di esclusione della procreazione. L’istruzione di massa delle donne costituisce un fattore moltiplicativo dell’emancipazione femminile nelle diverse classi sociali e in tutti i contesti territoriali, producendo una sottrazione di autorità alle generazioni anziane, una forte mobilità sociale tra le generazioni di donne (nonostante in una stessa generazione la mobilità sociale delle donne resti in gran parte legata al matrimonio), una riflessività-in-azione delle donne sul «posto sociale» assegnato al proprio genere. Sono questi gli elementi che concorrono, congiuntamente, alla democratizzazione dei rapporti di genere e a quella dei rapporti tra le generazioni. Si sposta così il significato del matrimonio, dal ruolo di istituzione fondativa di un’alleanza che tiene in equilibrio i rapporti verticali (tra le vecchie e le nuove famiglie, tra la nuova coppia e i figli) e i rapporti orizzontali (tra coniugi), alla funzione di sancire pubblicamente una relazione, fondata sul valore dell’intimità a due e sulla ricerca di un’improbabile coincidenza nelle rispettive felicità. Considerare irreversibili gli elementi succitati di democratizzazione della famiglia, e intenderli come costitutivi dello scenario demografico europeo, non significa affatto rinunciare a governare le politiche familiari nella direzione del tipo di famiglia ideale per le singole persone e per gli standard egualitari di cittadinanza considerati irrinunciabili, combinati con le compatibilità socio-economiche di un modello inclusivo di welfare.6 Tutt’altro: significa impostare politiche familiari realiste, che, come dimostrano i casi francese e svedese, presumibilmente avranno maggiore probabilità di successo se risultano in sintonia con le propensioni concrete delle cittadine e dei cittadini.

Se assumiamo il modello demografico europeo-occidentale come contesto dato, rispetto al quale vanno misurate le opzioni di governance anche (ma non solo) delle politiche familiari, occorre riconoscere che la funzione di istituzione regolatrice della famiglia viene sempre più assunta non dal matrimonio, ma dal dispositivo matrimonio- divorzio (che riapre eventualmente ad un nuovo matrimonio). In Italia, la coincidenza tra la riforma del diritto di famiglia e la legge sul divorzio ha segnato lo spostamento della regolazione familiare dai diritti dei singoli pensati in relazione al gruppo ai diritti della persona (donna e uomo) sovraordinati a quelli del gruppo familiare. Nel 1970 la legge ordinaria operò uno slittamento di accento dagli articoli 29, 30, 31 della Costituzione agli articoli 1, 2, 3 della medesima. Non è un caso che oggi si ritorni a discutere di questi capisaldi.

Ad ogni transizione delle forme di historicité date, la procreazione, la maternità, la filiazione e il mandato intergenerazionale ritornano nel dibattito pubblico. Oggi, la dimensione individualizzata dei diritti relativi alle norme familiari fa emergere declinazioni specifiche dei temi tradizionali (mai scomparsi) della disciplina del corpo femminile e delle difficoltà nella socializzazione dei giovani: avanza l’ipotesi del diritto individuale a procreare, si approfondisce la distinzione tra sesso e genere, emerge la separazione tra identità sessuale e orientamento sessuale. Cosa troviamo nell’istantanea che fotografa la famiglia attuale? Se ci appelliamo al solo articolo 29 della Costituzione ritagliamo dal gruppo delle famiglie due soli sottoinsiemi: quelle definite dal primo matrimonio e quelle nate da matrimoni successivi. Ne restano fuori i nuclei di divorziati non risposati, con o senza figli; inoltre un crescente numero di famiglie ricostituite risulta fondato sul matrimonio ma può appellarsi solo parzialmente all’articolo 29, avendo perso o fortemente indebolito una parte dei legami di parentela persino di primo grado. Tuttavia, se l’i- stantanea osserva i rapporti tra le persone nella rete familiare, emergono soprattutto le complessità dei legami di parentela, segnati dalle discontinuità delle alleanze ridefinite e dalle forme diverse della filiazione, dentro e fuori dal matrimonio. Non è un caso che la ripresa di attenzione, nel corso degli anni Ottanta, nei confronti dei genitori soli, delle madri sole soprattutto, abbia messo in luce il nesso tra le possibili definizioni di famiglia e l’assunzione delle responsabilità di cura dei figli, anche indipendentemente dalla costanza o dall’esistenza originaria di un matrimonio.

Inoltre, le nuove domande di paternalità, che hanno prodotto anche le legislazioni sull’affido congiunto, provengono da una duplice radice interpretativa e normativa in emersione: la genitorialità deve sopravvivere completamente al matrimonio (principio che in passato era stato negato alle madri e comunque non presente in tutte le legislazioni europee); la volontà/capacità di cura, nell’interesse del minore, va considerata un principio cruciale che prevale anche sul legame matrimoniale. Se guardassimo con attenzione alla maggior parte delle forme delle cosiddette nuove famiglie, ci renderemmo conto del peso che ha, nel loro emergere, lo slittamento dal matrimonio al matrimonio-divorzio sul piano giuridico-istituzionale e quello dai legami formali alla presa in carico concreta delle responsabilità di cura da parte dei genitori, e delle persone che costituiscono le loro concrete reti familiari. Possiamo avanzare l’ipotesi che oggi la famiglia sia da considerarsi «società naturale» (e cioè fatto squisitamente e crucialmente sociale, di natura pregiuridica) in relazione alle sue capacità di prendersi cura delle persone? Comunque il suo essere fatto sociale totale, fattore primario della sociabilità umana, così come lo definiva la sociologia classica, oggi risulta percepibile solo a partire dalla libera assunzione di un patto di corresponsabilità nei confronti della cura: di sé, dell’altro da sé, della possibile prole. Sicuramente il dispositivo che ne definisce primariamente i contorni giuridici risulta essere sia il matrimonio (l’ultimo non sciolto e riconosciuto dallo Stato) che il matrimonio-divorzio.

Questa prospettiva chiarirebbe la natura attualmente percepibile di quell’artefatto culturale che è la relazione familiare come luogo primario della sociabilità (né proiezione sociale della coppia biologica e neppure istituzione riducibile alle sue specifiche forme di regolazione giuridica). Nello stesso tempo sembrerebbe emergere più chiaramente il rapporto derivato che le varie altre forme delle relazioni familiari contemporanee hanno con le due principali fonti del diritto di famiglia: matrimonio, divorzio e filiazione.

Matrimonio, contratti e diritti in una società multiculturale Se proviamo a ragionare attorno alla costellazione che tiene assieme il discorso della famiglia contemporanea, troviamo alcuni capisaldi convergenti nei comportamenti e negli orientamenti di valore: l’importanza della ricerca della felicità personale (concretamente viene meno l’obbligo morale al sacrificio di sé incondizionato in vista del bene del gruppo familiare); la reciprocità nel prendersi cura l’uno dell’altro e la corresponsabilità nella cura dei membri più deboli; la rilevanza relativamente più debole dell’istituto matrimoniale rispetto ai primi due elementi e nei confronti di altre modalità del fare famiglia. Non c’è dubbio che questi elementi convergano nel rendere fragile la forma giuridica della famiglia e nel mettere costantemente alla prova le sue relazioni. Non è un caso che da diversi anni gli studiosi avvertano il riemergere di contratti privati che costeggiano il matrimonio, celebrato o non celebrato. Da questo orizzonte conviene guardare alle nuove domande di diritti, che aspirano ad avvicinare l’esperienza dei singoli ad una relazione familiare riconosciuta, pur senza attraversare la forma del matrimonio. Si tratta di domande tra loro anche molto differenziate, che possono essere giudicate socialmente come più o meno affini ad una domanda di famiglia, cioè di riconoscimento del senso di una relazione primaria orientata dalla responsabilizzazione e alla stabilità, in base a diversi elementi, oggettivi e di contesto.

Conviene alla società l’emersione di questo tipo di domande? E conviene dar loro una qualche forma di riconoscimento giuridico? Per rispondere positivamente (come sono orientata a fare) occorre guardare meglio sia all’esperienza della formazione delle coppie e delle convivenze, sia alle configurazioni concrete delle coppie di fatto più stabili. La diminuzione dei matrimoni tende a nascondere una realtà diffusa: molto spesso chi resta celibe/nubile, come chi si sposa (ancorché tardivamente), ha vissuto almeno una relazione affettiva lunga, con coabitazione più o meno stabile (una quasi - famiglia magari vissuta nella casa dei genitori); sempre più spesso separati/divorziati con figli formano relazioni stabili, di tipo familiare, anche se non vivono sotto lo stesso tetto. Inoltre in Italia sono in aumento i matrimoni celebrati col solo rito religioso cattolico: tra vedovi, tra liberi di stato di religione differente, tra divorziati dal solo rito civile. Per lo Stato, chi contrae matrimonio col solo rito religioso costituisce una coppia di fatto, anche se il vincolo ha una rilevanza pubblica per la sfera comunitaria di appartenenza di almeno uno dei coniugi: questa fenomenologia emerge con problematiche particolari anche in relazione alle culture di provenienza di parte delle famiglie dei migranti. L’immigrazione mette in luce aspetti non nuovi, ma sino a vent’anni fa molto meno diffusi, del conflitto tra appartenenze comunitarie (sovente di affiliazione religiosa, ma non solo) e norme civili del diritto di famiglia. In sintesi, oggi il ritorno a forme contrattuali private nella regolazione delle nuove tipologie di relazione familiare si affianca a domande di riconoscimento pubblico, sia delle modalità giuridiche differenti di regolazione del matrimonio e della filiazione (si considerino la poligamia e la persistenza dell’autorità maritale e paterna) che delle forme diverse di «patti civili di solidarietà» paralleli al matrimonio.

Le nuove domande esplicitano sia la consapevolezza delle fragilità – interne alle dinamiche familiari attuali e/o derivanti dal confronto tra comunità con regole differenti in un ambiente sempre più multiculturale – sia il valore assegnato alle garanzie pubbliche nella ricerca di solidarietà nella vita privata. In questo contesto si collocano anche le domande di famiglia degli omosessuali, che sui due versanti, dell’alleanza e della filiazione, giungono a sfidare l’egemonia del dispositivo eterosessuale in maniera radicale, in particolare per quel che riguarda la rilevanza dei principi simbolici del materno e del paterno, cui si riferiscono donne e uomini anche indipendentemente dal loro orientamento sessuale. Una riflessione sulla dimensione simbolica, e non solo su quella sociale e giuridica, della «sfida» omosessuale potrebbe essere utile per considerare pacatamente le domande di famiglia sulle quali il dibattito pubblico appare più ideologizzato. Notiamo anche che la divaricazione del dibattito sulle definizioni della famiglia («famiglia è matrimonio» contro «famiglia è serietà dei sentimenti e responsabilità di cura»; «l’omosessualità contrasta il fare famiglia» contro «l’omosessualità non contrasta il fare famiglia») impedisce di rilevare che la crescita delle più stabili tra le convivenze senza matrimonio è dovuta, almeno in Italia, alle coppie di adulti in età avanzata, vedovi che intendono evitare la perdita di una pensione di reversibilità o il danneggiamento dell’eredità dei figli di uno dei due partner. Si tratta, dunque, di vecchie famiglie (quanto all’età dei partner e al momento della decisione di convivere) che incrementano nuove forme di unione.

Al contrario, con i migranti possiamo osservare l’emergere di famiglie nuove (nel senso dell’età al matrimonio e alla nascita dei figli) che sembrano ripercorrere una vecchia storia: quella già vissuta dagli emigranti italiani nei paesi d’oltreoceano. Gli italiani furono tra i primi gruppi di migranti ad essere studiati negli anni Trenta dalla Scuola sociologica di Chicago come esempio del «dilemma americano»: come tenere assieme la coesione garantita dai legami culturali comunitari d’origine con l’integrazione nel way of life di una società aperta, democratica e acquisitiva? Il rapporto autoctoni-migranti parrebbe oggi più semplice di quello eterosessuali-omosessuali. Comunque, mettendo in campo una riflessione approfondita sui due temi – delle domande di famiglia degli omosessuali e delle trasformazioni nelle famiglie migranti, con le domande relative – dovrebbero diminuire i rischi di «guerre di civiltà», pur con l’avvertenza che ad ogni generazione sembra ripetersi una qualche forma di «conflitto di civiltà» attorno alle transizioni familiari.

Per alcuni gruppi culturali di migranti le regole comunitarie di alleanza e filiazione raggiungono un grado molto alto di difformità sia rispetto alle norme italiane del diritto di famiglia sia rispetto all’idealtipo di famiglia che la popolazione autoctona rivendica come valore: anche se quest’ultimo è contraddetto dalle fenomenologie delle violenze familiari almeno con la stessa intensità degli altri modelli. Molti studiosi7 mettono in luce la necessità di regolare quantomeno gli effetti giuridici di alcuni dei modelli familiari degli immigrati, trovando un qualche equilibrio con le norme della famiglia paritaria, monogamica e non gerarchica tra le generazioni, che consideriamo tipica del modello europeo. Tuttavia, se ci spostiamo dalle norme delle comunità alle pratiche e alle dinamiche delle rappresentazioni delle famiglie migranti, il quadro risulta differente. Tra l’altro, l’analisi comparata degli scenari del cambiamento delle strutture familiari a livello internazionale mostra che, anche nei paesi a forte legittimazione delle norme patriarcali, i tre elementi della scolarizzazione femminile, dell’innalzamento dell’età al matrimonio, dell’allentarsi delle norme matrimoniali endogamiche, agiscono nel senso già noto della democratizzazione della famiglia. Soprattutto, le due rappresentazioni ideali che abbiamo già conosciute, della famiglia patriarcale dei nonni e della famiglia complementare asimmetrica del male breadwinner regime, si confrontano oggi nelle relazioni familiari dei migranti presenti tra noi, pur all’interno di quadri culturali tra loro notevolmente diversi. Lo possiamo verificare anche osservando i comportamenti demografici delle donne straniere. La più alta fecondità delle straniere presenti in Italia (2,3 figli per donna) supera la soglia della sostituzione demografica: un contributo importante all’incremento della natalità, che, qui come altrove in Europa, deriva da paesi a bassa istruzione femminile, in cui ci si sposa precocemente e nei quali la procreazione è controllata dalla famiglia in base al prerequisito dell’obbligo femminile alla castità prematrimoniale. Tuttavia la fecondità delle migranti più prolifiche risulta comunque inferiore a quella media dei rispettivi paesi di provenienza: un segno, assieme agli investimenti delle famiglie migranti nell’istruzione e nella mobilità dei figli, della transizione interna ai loro modelli reali e ideali di famiglia. Se nel dibattito pubblico emerge soprattutto il conflitto intergenerazionale vissuto dalle figlie nei confronti delle norme di patriarcato, ricordiamo che questa è stata ed è anche la «nostra» storia, non troppo lontana nel tempo.

I figli, il futuro. Fuori dalle metafore In Italia la discussione politica sulle trasformazioni della famiglia è appena all’inizio (anche se si tratta di un inizio ricorrente), sia sul versante delle politiche familiari sia su quello delle forme di regolazione giuridica. Rispetto alle seconda dimensione, dobbiamo tener conto del fatto che sostenere il (solo) matrimonio internalizza gli effetti del divorzio, senza offrire risposte all’instabilità dei legami. Il risultato italiano è palese: non si contrastano comunque i processi di defamiliarizzazione (dall’instabilità ai rischi di povertà e di indebolimento delle reti). Siamo di fronte a un dilemma: sostenere i legami sociali primari non coincide più col sostegno al matrimonio. Per ora siamo tra i pochi Stati europei a non aver introdotto una qualche regolazione pubblica delle convivenze e a non aver affrontato almeno alcu- ni degli effetti dei conflitti tra il nostro ordinamento giuridico e quelli di alcuni Stati da cui provengono i migranti. Questa situazione corrisponde alla rinuncia a offrire riparo ad una parte non secondaria delle insicurezze che vivono i più giovani. I figli degli autoctoni e dei migranti vivono, pur in maniera differente, i processi di crescita all’interno di forme familiari in transizione.

Per sostenere i percorsi identitari complessi, che comunque tutti i giovani si trovano ad affrontare, occorre offrire regole di transizione realistiche, chiare e che aiutino ad elaborare alcuni dei dilemmi relazionali oramai noti. Irrigidire il diritto di famiglia sulle rappresentazioni del passato non sembra una soluzione. Soprattutto il crescere dei matrimoni (e dunque dei divorzi e delle unioni) tra i cittadini dei paesi dell’Unione europea sta spingendo il diritto internazionale privato verso soluzioni dei conflitti d’instabilità familiare che privilegiano gli interessi del minore, in relazione alle capacità di cura degli adulti significativi e alla persistenza concreta dei legami.8 La cancellazione delle frontiere interne dell’Europa e la porosità dei suoi confini esterni mettono ulteriormente in luce una novità della modernità: il lavoro modella la famiglia e non viceversa (anche se il viceversa permane). Ai giovani si offre un contesto che incita alla mobilità geografica o persino la impone: per gli autoctoni italiani e le attese delle relative famiglie si tratta di una sfida alla fortissima endogamia subregionale; per l’economia delle reti familiari diventa un problema. Per contrastare i rischi della defamiliarizzazione occorre elaborare l’instabilità familiare anche regolando le nuove forme di convivenza. Rassicurare sulle certezze relative dei legami primari, creando regole di transizione riconoscibili tra le diverse forme familiari e per le differenti culture, serve sia a ridefinire aspetti culturali agevolanti il riconoscimento identitario di sé nel mondo, che a contrastare quei rischi di povertà delle madri riconosciuti come cause predittive primarie della «ereditarietà» del disagio sociale tra le generazioni. Sappiamo (insegna l’esperienza svedese come quella più recente della Spagna) che l’incremento significativo della «buona» occupazione femminile risponde a necessità economiche, previene la povertà familiare, permette l’avvicinamento del crescente capitale culturale femminile delle ragazze ad una resa ottimale anche rispetto alle vocazioni personali. Se ci si proponesse di tradurre il concetto della flexicurity in politiche attive per riconciliare lavoro, famiglia e vita privata, affronteremmo contemporaneamente qualche nodo della decrescita demografica e dei processi di pauperizzazione dei giovani.9 Nel caso italiano i nodi più problematici per i giovani si riallacciano alla dinamica del figlio unico, alla permanenza prolungata nella famiglia, alla dispersione delle risorse umane (particolarmente quelle femminili) nel dispositivo flessibilità-precarietà diffuso anche nel ricco Centro-Nord. La rinuncia alla maternità e alla paternità, compresse nell’unico figlio che sembra possibile poter sostenere, risulta un indicatore della caduta delle attese di mobilità sociale intergenerazionale, che avevano qualificato tutte le fasi dello sviluppo socioeconomico italiano dal secondo dopoguerra. La sfiducia che porta al figlio unico risulta purtroppo fondata: in Italia più che in altri paesi l’istruzione e il merito pesano relativamente poco sugli avanzamenti di carriera. Dunque, nel paese delle mamme e dei bambini, le coppie, investendo sull’unico figlio, compierebbero una scelta razionale: su quest’unico erede convergono i risparmi per offrirgli la casa al tempo della formazione della nuova famiglia, e gli aiuti per la ricerca del «posto» attraverso le reti familiari-amicali-familiste. La dinamica spiega in parte anche la scarsità di investimento nell’istruzione dei figli proprio nelle aree del paese dove la sicurezza economica è maggiore e più diffusa. Tuttavia, la razionalità dei genitori non ha più gli effetti sperati nemmeno sul figlio unico: assicurargli per tempo l’uso di una casa di proprietà diventa più difficile; assicurarsi allo stesso tempo un buon «posto» in giovane età, un buon stipendio, buone possibilità di carriera prevede coincidenze improbabili per i ragazzi e decisamente impossibili per le ragazze. Metter su famiglia diventa un’impresa rischiosa per ambedue. Diventa difficile inserire, in questo contesto, anche le attese di integrazione degli immigrati, che, a loro volta, consegnano ad un numero di figli maggiore attese di mobilità sociale comparativamente non minori. Il conflitto tra classi e generazioni degli anni Sessanta e Settanta si è trasformato in quello tra giovani autoctoni e giovani immigrati, almeno sul versante della percezione culturale.

Il contesto del rapporto famiglia-lavoro è segnato in Italia da rigidità che mostrano la corda, anche perchè famiglie e decisori pubblici sembrano credere ancora che è la famiglia a poter/dover modellare il lavoro. La prevalenza del paradigma opposto, ove non affrontata, produce da noi gli stessi effetti di defamiliarizzazione dei paesi in cui la liberalizzazione non regolata dei processi economici si coniuga con un welfare minimo e compassionevole.

Non ci sono ricette. Guardare alle buone pratiche e alle migliori performance europee può aiutare ad affrontare le difficoltà che il modello demografico occidentale pone al futuro delle giovani generazioni. La scommessa italiana potrebbe orientarsi a ridefinire un mix mediterraneo, tra qualità delle cure familiari, autonomia delle persone, solidità dei legami primari, solidarietà delle reti.

Come dire che occorre reinventare il rapporto tra economie di dono ed economie di mercato.

[1] R. Lesthaege, The Second Demographic Transition in Western Countries: An Interpretation, in K. O. Mason e A. M. Jensen, Gender and Family Change in Industrialized Countries, Oxford University Press, Oxford 1995.

[2] L. L. Sabbadini, Come cambia la famiglia, paper presentato alla Conferenza nazionale sulla famiglia, Firenze 24-26 maggio 2007.

[3] F. Bimbi e R. Trifiletti (a cura di), Madri sole e nuove famiglie. Declinazioni inattese della genitorialità, Edizioni Lavoro, Roma 2006.

[4] C. Gilligan, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1991.

[5] P. Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998.

[6] C. Saraceno, La famiglia come tema centrale nella ricerca sociale e nel dibattito politico, in «La rivista delle politiche sociali», 4/2005, pp. 27-42.

[7] P. Donati, Famiglia, migrazioni e società interculturale: quali regole di convivenza civile?, paper presentato alla Conferenza nazionale sulla famiglia, Firenze 24-26 maggio 2007.

[8] M. Bonini Baraldi, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, IPSOA, Milano 2005.

[9] G. Esping-Andersen, I bambini nel welfare State. Un approccio all’investimento sociale, in «La rivista delle politiche sociali», 4/2005, pp. 43-86.