Verso un governo democratico dell'euro

Di Roberto Gualtieri Lunedì 14 Gennaio 2013 14:23 Stampa

Le misure introdotte, a partire dal 2010, per tentare di far fronte alla crisi economico-finanziaria dell’UE hanno finito per delineare una sorta di “unione monetaria rafforzata” che presenta importanti limiti politico-istituzionali: una governance economica fatta soprattutto di regole volte a garantire la disciplina di bilancio e un eccessivo peso attribuito ai paesi creditori nell’azione di sostegno finanziario a quelli in difficoltà. Per uscire dalla crisi, l’Unione dovrà dunque superare i limiti di questo modello di governance, dovrà ampliare e rafforzare le proprie competenze in ambito economico, porre rimedio alle debolezze delle sue procedure decisionali e colmare l’assenza di un adeguato livello di legittimazione democratica.


Le conclusioni del Consiglio europeo, con la presentazione del rapporto Van Rompuy e il rinvio a giugno di ogni decisione sulla definizione di una road map verso un’autentica Unione economica e monetaria, si prestano a considerazioni ambivalenti. Da un lato, emergono confermati i profondi limiti dell’attuale quadro politico europeo a maggioranza conservatrice e, in particolare, la difficoltà della Germania ad andare oltre una retorica della “cessione di sovranità” che trova scarso riscontro in comportamenti e scelte concrete che rimangono ispirati al modello di una “Europa delle regole” priva di una genuina capacità (e delle relative risorse) di governo dell’economia. Dall’altro, il fatto stesso che nel rapporto Van Rompuy si sia ritenuto necessario indicare l’esigenza di un salto di qualità nel processo di integrazione, sia pure rinviando a una fumosa “fase tre” interventi più incisivi e non troppo specificati, e che si sia riconosciuta l’esigenza di dotare l’eurozona di una maggiore capacità fiscale certifica la consapevolezza ai più alti livelli che il modello politico-istituzionale che ha caratterizzato sinora la nuova governance “rafforzata” dell’euro è inadeguato. Se a ciò si aggiunge che la Commissione europea, uscendo dal suo torpore, ha presentato un proprio piano per il futuro dell’Unione economica e monetaria, che sul terreno istituzionale riprende molti punti della piattaforma recentemente approvata dal Parlamento europeo e che, pur con limiti e ambiguità, prospetta una transizione di tipo federale, il quadro appare ancora più mosso e aperto a sviluppi.

Per comprendere le ragioni che, sia pure in modo contrastato e contraddittorio, rafforzano la consapevolezza della necessità di una svolta nel modello di governance, occorre per prima cosa esaminare la natura dei provvedimenti affannosamente affastellatisi, sotto i colpi della crisi, a partire dal maggio del 2010. In estrema sintesi, essi hanno delineato una “unione monetaria rafforzata” basata su un grande scambio politico: da un lato, l’irrigidimento dei meccanismi di controllo delle politiche nazionali di bilancio; dall’altro, il conferimento di aiuto finanziario ai paesi in difficoltà sul mercato del debito sovrano, veicolato prevalentemente da nuovi organismi di tipo intergovernativo. E così, subito dopo lo stanziamento di un aiuto alla Grecia e l’istituzione dell’EFSF e del (più piccolo e comunitario) EFSM nella primavera del 2010, si è avviata la revisione del Patto di stabilità e di crescita (SGP), sfociata nel novembre del 2011 nell’approvazione del cosiddetto Six-Pack, che ha rafforzato il ruolo della Commissione nel meccanismo sanzionatorio e ha esteso la portata di quest’ultimo anche al ramo preventivo e non solo a quello correttivo degli squilibri di bilancio. A sua volta, la decisione presa alla fi ne del 2010 di rendere permanente l’esistenza del fondo salva-Stati – avviando il percorso (appena concluso e comprensivo di una riforma dell’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) per l’istituzione del Meccanismo europeo di stabilità (ESM) – e, soprattutto, quella presa nell’estate del 2011, nel vivo di una drammatica crisi sui mercati del debito sovrano dei paesi meridionali dell’eurozona, di ampliare i compiti e la portata degli interventi dell’EFSF/ESM e di rafforzare il sostegno alla Grecia, hanno invece aperto la porta al Fiscal Compact. Nel dicembre del 2011, infatti, nonostante il Six-Pack fosse stato appena approvato e la sua efficacia disciplinatrice non fosse stata ancora testata, su pressione tedesca il Consiglio europeo ha prima tentato di inserire l’obbligo del pareggio di bilancio (già sostanzialmente previsto nel Six-Pack) nei Trattati attraverso l’apposita procedura legislativa speciale (che richiede l’unanimità) e poi, di fronte al tentativo di David Cameron di barattare il consenso britannico con una sorta di opt-out del Regno Unito nei confronti della regolamentazione dei mercati finanziari, ha avviato la procedura che in poche settimane ha portato all’approvazione di un Trattato intergovernativo: appunto il Fiscal Compact (o Treaty on Stability, Coordination and Governance in the Economic and Monetary Union, TSCG).

In questo tortuoso percorso, scandito più dalle ricorrenti emergenze finanziarie e dalle scadenze politico-elettorali interne agli Stati membri che da una capacità di leadership a livello dell’Unione, la virtù delle istituzioni comunitarie e la flessibilità e la forza di attrazione del quadro giuridico europeo hanno saputo in diversi casi contenere la spinta verso il metodo intergovernativo e verso l’irrigidimento meccanico del Patto di stabilità. Ciò è avvenuto non solo con il Six-Pack, in cui a fianco del maggiore automatismo delle sanzioni ha fatto la sua comparsa la possibilità di deviazioni temporanee dagli obiettivi di riduzione del deficit e del debito in caso di grave recessione o circostanze straordinarie, ma anche con lo stesso Fiscal Compact, che è stato sostanzialmente “comunitarizzato” dalla Commissione e dal Parlamento, incorporandovi per questa via i margini di flessibilità già introdotti nel Six-Pack. E tuttavia, nonostante questa riduzione del danno, l’unione monetaria rafforzata, edificata tra il 2010 e il 2012, presenta due fondamentali limiti politico-istituzionali che ne hanno minato considerevolmente l’efficacia. In primo luogo, la governance economica a livello dell’UE è concepita unicamente in chiave di regole e segnatamente di regole volte a garantire la disciplina di bilancio degli Stati membri: una funzione riduttiva e funzionale all’attuazione di una linea di politica economica, l’austerità, fortemente prociclica e, per questo, non in grado di promuovere la crescita ma neanche la stabilità e il risanamento dei conti pubblici. Di fronte al permanere di un quadro macroeconomico recessivo, i margini di flessibilità faticosamente salvaguardati nel Six-Pack e nel Fiscal Compact forniscono oggi la necessaria cornice giuridica all’annunciata (dopo un delicato negoziato con alcuni Stati membri e con il Parlamento) volontà della Commissione di introdurre una maggiore flessibilità nella definizione degli obiettivi di medio termine di riduzione del deficit, che consenta deviazioni temporanee volte a salvaguardare un adeguato livello di investimenti pubblici e a ridurre il carattere prociclico delle politiche di bilancio. Anche questo possibile sviluppo positivo sarebbe, però, del tutto insufficiente in assenza di un’effettiva capacità di governo economico dell’euro dotata di risorse e poteri adeguati.

Il secondo profondo limite dell’attuale modello di governance riguarda l’azione di sostegno finanziario ai paesi in difficoltà. Essa, infatti, è prerogativa degli Stati membri, in quanto l’EFSF e l’ESM sono organismi intergovernativi esterni al quadro istituzionale dell’UE e finanziati con risorse limitate e conferite di volta in volta dai rispettivi Parlamenti nazionali. Ciò attribuisce un peso preponderante ai maggiori paesi creditori privi di problemi di approvvigionamento sui mercati e, allo stesso tempo, fa dipendere l’intera governance dell’eurozona dalle loro vicende di politica interna, accentuando ulteriormente la contraddizione fra la dimensione nazionale delle politics e quella europea delle policies, che mina la legittimità dell’UE agli occhi dei cittadini e riduce l’efficacia della sua azione. Non è, dunque, un caso che la febbre degli spread si sia raffreddata solo dopo l’annuncio da parte della BCE delle Outright Monetary Transactions (OMT), cioè di un programma di acquisto di titoli fino a tre anni sul mercato secondario, perché la BCE, in quanto istituzione federale dell’UE, può garantire un potenziale acquisto illimitato di titoli che un organismo come l’ESM non potrebbe realizzare per ragioni inerenti alla sua natura intergovernativa e alle dinamiche politico-istituzionali che ne regolano la funzione. Ma la BCE e le sue (per ora solo annunciate) OMT non possono supplire in modo permanente ai limiti di una governance basata su rigide regole di austerità e risorse limitate gestite dagli Stati membri per intervenire a valle delle crisi di solvibilità. Per superare la crisi, l’eurozona deve andare oltre il modello di unione monetaria rafforzata e affrontare i problemi di fondo del suo assetto costitutivo, che gli interventi degli ultimi due anni non hanno risolto. Il primo problema riguarda le competenze dell’Unione. La semplice competenza di coordinamento, assegnata all’UE dai Trattati in materia di politica economica, è inadeguata alla necessità di un governo economico positivo, che non si limiti al controllo della disciplina di bilancio. La via maestra per risolvere questo squilibrio è, naturalmente, la riforma dei Trattati e il passaggio, per la politica economica, da una competenza di coordinamento a una competenza condivisa, ma anche a Trattati costanti è possibile costruire un coordinamento rafforzato delle politiche economiche che sia reso sostanzialmente vincolante non solo da un meccanismo sanzionatorio sul modello di quello introdotto dal Six-Pack, ma anche da incentivi di carattere economico. La proposta di Van Rompuy di “contratti individuali” tra i diversi paesi e la Commissione nel quadro della procedura per gli squilibri macroeconomici è diversa da quella del Parlamento (basata sull’introduzione di benchmarks vincolanti) e per molti aspetti discutibile e, tuttavia, è significativo che essa sia collegata alla costruzione di una capacità fiscale rafforzata per l’eurozona.

Il secondo problema dell’attuale modello di governance è dato, infatti, dall’inadeguatezza del bilancio europeo e dall’assenza di un vero meccanismo di risorse proprie, legato a imposte e tariffe su base europea, che superi il modello dei contributi nazionali. Nonostante la posizione restrittiva adottata dagli Stati membri sul prossimo Quadro finanziario multiannuale (MFF), l’accordo per l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie attraverso la procedura di cooperazione rafforzata e l’apertura del cantiere per la costruzione del cosiddetto bilancio dell’eurozona, di cui lo Strumento per la convergenza e la competitività proposto dalla Commissione potrebbe essere il primo tassello, rappresentano sviluppi positivi, che vanno nella direzione delle proposte del Parlamento. Resta, però, una forte reticenza sulla questione della gestione comune del debito. Il progetto della Commissione riprende l’impostazione del Parlamento su fondo di redenzione del debito, su eurobills e persino sulla comunitarizzazione dell’ESM, anche se antepone a tali interventi una riforma dell’articolo 125 del TFUE (la celebre no bail out clause), che, secondo il Parlamento, non sarebbe necessariamente violato da alcuni di questi strumenti. Il rapporto Van Rompuy e le conclusioni del Consiglio europeo indicano invece una preoccupante difficoltà a collocare stabilmente tali sviluppi nella road map, confermando il carattere decisivo e preliminare di alcuni dei prossimi appuntamenti politico-elettorali.

Il terzo problema dell’assetto attuale dell’eurozona riguarda la debolezza delle procedure decisionali europee e l’assenza di un loro adeguato livello di legittimazione democratica. Anche in questo caso, solo una riforma dei Trattati potrà realizzare la necessaria generalizzazione della procedura legislativa ordinaria e del voto a maggioranza nell’ambito della politica economica, fiscale e di bilancio, superando l’unanimismo e mettendo Parlamento e Consiglio sullo stesso piano. E, tuttavia, l’attuale quadro giuridico offre gli strumenti per realizzare fin da subito alcuni dei passi necessari verso la costruzione di un’adeguata capacità di decidere delle istituzioni europee e verso la sua democratizzazione. Anche sotto questo punto di vista, il blueprint della Commissione riprende in misura significativa alcune proposte del Parlamento, il cui riflesso è rintracciabile, sia pure in modo più timido, nel documento Van Rompuy. Ma il rafforzamento della Commissione, del Parlamento e del processo decisionale dell’UE non sarebbero sufficienti sotto il profilo della legittimazione democratica (ma anche della loro efficacia) senza la loro politicizzazione e la costruzione di un vero spazio politico europeo. In questo quadro, l’indicazione, prima dello svolgimento delle elezioni europee, da parte dei partiti politici europei dei rispettivi candidati alla presidenza della Commissione rappresenta un’innovazione fondamentale. Essa trasformerebbe significativamente la costituzione materiale europea senza alcuna riforma dei Trattati e sarebbe pienamente coerente con la norma che già ora prevede che il presidente della Commissione sia eletto dal Parlamento europeo e che la sua indicazione da parte del Consiglio europeo (a maggioranza qualificata) debba avvenire tenendo conto del risultato delle elezioni europee. Il fatto che anche su questo punto decisivo, ripreso pure nel blueprint della Commissione, si sia registrato in Parlamento il consenso dei maggiori gruppi politici fornisce ragioni di moderato ottimismo circa la possibilità che le elezioni del 2014 possano rappresentare una tappa fondamentale verso la costruzione di una vera democrazia europea, che a sua volta costituisce la condizione e la premessa per la realizzazione di un’autentica Unione economica e monetaria nel quadro di una graduale ma indispensabile transizione di tipo federale.