Uniti per riaffermare il primato della politica sui mercati

Di Martin Schulz Lunedì 14 Gennaio 2013 13:20 Stampa

La grave crisi economica che affligge l’Europa da ormai cinque anni rischia di degenerare in crisi di fiducia nei confronti dell’Unione. Le sfide da affrontare nell’immediato sono molte: differenziali dei tassi d’interesse, regolamentazione dei mercati finanziari, salvaguardia del modello sociale europeo, lotta alle diseguaglianze sociali. Soltanto mantenendo la coesione fra gli Stati membri si potrà ottenere qualche risultato. Spetta quindi a tutti i governi europei, Italia compresa, contenere a ogni costo le pericolose e potenzialmente drammatiche spinte centrifughe che si stanno manifestando.

Nel 2013 l’Europa entra nel suo quinto anno di crisi. E lentamente capiamo il vero prezzo pagato per questa crisi, che non consiste solo nel dissolvimento di decine di miliardi di euro sui mercati finanziari. Infatti, ora vediamo in modo più chiaro anche le conseguenze di lungo termine: le difficoltà dell’economia reale, la perdita di fiducia nelle istituzioni democratiche, lo sfilacciamento del tessuto sociale e l’indebolimento della coesione al suo interno.

Osserviamo con grande preoccupazione l’emergere di nuove forze centrifughe che ci allontanano. Spuntano nuovi semi di discordia e di rancore. I demoni del passato, che pensavamo superati per sempre, quei demoni che hanno portato solo male e rovina in Europa, ritrovano forza. I sentimenti nazionalisti tornano in auge. Riaffiorano stereotipi e pregiudizi sugli altri popoli. Diventa di nuovo accettabile parlare dei “meridionali pigri”, ritrarre un politico tedesco in uniforme nazista o definire l’austerità come tipica del “Quarto Reich”. Anche questi sono costi della crisi, non solo quelli misurati dalle statistiche e dagli indicatori economici. La perdita di fiducia nelle nostre istituzioni democratiche forse non è quantificabile, ma è reale. Perché scegliere chi votare, quando anonime agenzie di rating a New York sembrano avere più potere di governi democraticamente eletti? Perché credere al proprio governo, quando alcuni hedge funds sono più ricchi di molti paesi dell’UE? Perché dare ancora fiducia ai propri rappresentanti, che hanno salvato le banche con miliardi di euro dei contribuenti, ma non hanno trovato nemmeno un euro per i giovani disoccupati?

La crisi finanziaria ed economica si è rapidamente trasformata in una crisi sociale e di fiducia. In paesi come la Grecia e la Spagna, un giovane su due non ha lavoro. Molti, anche in Italia, sono intrappolati in una spirale di tirocini non retribuiti e contratti precari. Quando l’Organizzazione internazionale del lavoro oggi parla, come negli anni Venti del secolo scorso, di una “generazione perduta” in Europa, dovremmo inquietarci davvero. Sono i giovani che stanno pagando con il loro futuro il prezzo della crisi. Le misure anticrisi per aumentare la competitività dei paesi membri dell’Unione europea colpiscono con l’accetta il nostro modello sociale. Ma dobbiamo ricordarci una cosa, la nostra economia sociale di mercato è stata creata negli anni del dopoguerra non solo dalla sinistra, ma anche da politici conservatori che avevano capito due cose: in primo luogo, che i mercati hanno bisogno di un quadro politico che li regoli; in secondo luogo, che tutte le misure che fanno parte del nostro modello sociale – l’accesso all’istruzione, l’assistenza sanitaria, la tassazione progressiva, le pensioni – sono gli strumenti migliori per stabilizzare le democrazie e il miglior baluardo contro gli estremismi, sia di sinistra che di destra.

Il desiderio di rifugiarsi nella presunta arcadia dello Stato nazione, di fronte all’opacità delle forze e delle relazioni attualmente dominanti, è comprensibile. Ma è molto pericoloso alimentare questa illusione. L’isolamento non è una soluzione, al contrario: siamo completamente interconnessi e dipendenti l’uno dall’altro.

Pensiamo, ad esempio, al debito pubblico. Il consolidamento fiscale è chiaramente necessario, anche per una questione di giustizia intergenerazionale – non possiamo goderci la festa e lasciare il conto da pagare ai nostri figli. Spesso, però, il problema è visto attraverso una lente sbagliata, in un’ottica puramente nazionale. «Questo paese ha vissuto al di sopra dei propri mezzi; questo Stato ha falsificato i bilanci»; così, si pensa che la soluzione del problema sia “ognuno per sé”. Sembra un approccio ragionevole: «ognuno deve tenere la propria casa in ordine». Ma, in un mondo interdipendente, non è questa la via d’uscita.

Prendiamo poi il caso della Germania: i tassi d’interesse bassi di cui gode la Repubblica federale sono legati agli elevati tassi di altri paesi della zona euro. Così, la Germania ha guadagnato prestando soldi alla Grecia. Ha preso in prestito denaro a interessi molto bassi, o addirittura a interesse negativo, e poi a sua volta ha prestato soldi alla Grecia, a un tasso d’interesse molto più elevato. Un giornale tedesco ha giustamente scritto che lo Stato tedesco ha guadagnato in questa operazione 400 milioni di euro, ovvero l’equivalente della prima tranche di aiuti alla Grecia. L’impressione che la Germania abbia guadagnato dalla crisi degli altri fa molto male alla reputazione di noi tedeschi, perché viola il senso di giustizia di molti. La storia del debito pubblico è raccontata come una narrazione moralista di delitto e castigo. Gli alti tassi d’interesse sui titoli di Stato e i periodici declassamenti delle agenzie di rating sono considerati la giusta punizione per chi non fa i compiti. Mi chiedo, allora, come sia possibile che, con un governo guidato da Silvio Berlusconi, l’Italia abbia goduto per anni della fiducia dei mercati e, nonostante tutti gli scandali, abbia avuto per anni i massimi rating, mentre durante la grave crisi economica, con il professor Mario Monti al governo, essa sia stata “declassata”. Monti sarebbe forse meno affidabile del suo predecessore?

Altre volte si sente dire che tassi d’interesse elevati sono necessari per mantenere la pressione sugli Stati, affinché attuino i loro programmi di riforma. Ma non accade piuttosto che, in paesi come la Spagna e l’Italia, tutti gli sforzi fatti sotto la pressione dei mercati finanziari, ovvero riforme difficili e dure misure di austerità, vengano vanificati da tassi di interesse alle stelle e che i soldi risparmiati con duri sacrifici dei cittadini finiscano nelle tasche di coloro che speculano sul debito pubblico italiano? C’è da sorprendersi, allora, se la gente scende in piazza in tutta Europa, come è accaduto lo scorso 14 novembre? Se si indigna quando vede che si tagliano i servizi e ci guadagnano gli speculatori? Speculatori che, per inciso, sono in gran parte collocati fuori dall’Europa.

Quello che sta avvenendo è una brutale redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto. Coperta da populismi che mettono i popoli l’uno contro l’altro. Ai tedeschi si dice: «dovete pagare perché i popoli del Sud sono inefficienti e pigri». Agli italiani, agli spagnoli, ai greci si dice: «dovete dissanguarvi perché i tedeschi ci impongono l’austerità». Per questo, intervenire sulla questione dei tassi d’interesse è la cosa più urgente. Altrimenti, tutte le misure di austerità saranno vane.

L’intervento di Mario Draghi all’inizio dello scorso settembre è stato provvidenziale: ci ha probabilmente salvato dal baratro. La BCE, tuttavia, non si può sostituire a 27 governi e ai rispettivi Parlamenti. Draghi ha ridato ancora una volta ossigeno all’eurozona. Ma è indispensabile, come chiede Mario Monti da tempo, trovare soluzioni di lungo termine al problema del debito. Le proposte sul tavolo non mancano: eurobond, debt redemption fund, licenza bancaria. Qualunque soluzione si scelga, una cosa deve essere chiara: correre da soli non è un’opzione. Nessun paese da solo può vincere la lotta contro gli speculatori. Altrimenti, dopo la Grecia, la Spagna e l’Italia, ci saranno la Francia e, forse, la Germania. Senza neanche menzionare l’effetto domino e le conseguenze devastanti che provocherebbe l’uscita dall’euro di un paese.

In tanti incontri con gente comune, ad Atene come in Germania, le persone mi dicono: «non capisco tutto quello che sta accadendo, ma una cosa è chiara: il merito e la giustizia non hanno più valore». È questo senso di giustizia ferito che è fatale per la democrazia. Nella prima fase della crisi, è toccato ai contribuenti pagare il conto. Le banche sono state salvate con soldi pubblici. Ai salvataggi è seguita la promessa: «regolamenteremo i mercati finanziari una volta per tutte. Una crisi del genere non si ripeterà mai più». Queste promesse solenni sono state ripetute in tutti i vertici del G20. Ma alle parole non sono seguiti i fatti. Il principio del primato della politica sui mercati non è stato applicato. Gli Stati sono ancora un giocattolo in mano agli interessi finanziari. La politica è sottomessa ai dettami del mercato. E la gente comune paga ancora il conto. Questa situazione crea una lacuna giuridica per cui i profitti sono privatizzati e le perdite sono pubbliche. Il risultato di un capitalismo privo di rischi è la peggiore forma di capitalismo in assoluto: un capitalismo assolutamente corrotto. Se vogliamo evitare il ripetersi di una crisi simile, dobbiamo fare in modo che il rischio e la responsabilità vadano di nuovo mano nella mano. Perché, come scrive l’economista Nouriel Roubini, le crisi non sono semplicemente cigni neri, bestie rare, eventi imprevisti. Sono cigni bianchi – la regola, non l’eccezione – del capitalismo. Analizzando le diverse crisi finanziarie, si osservano le stesse caratteristiche: esuberanza irrazionale dei mercati, credito a valanga per tutti – famiglie, imprese o governi – (di solito sotto il nome di “innovazioni del mercato finanziario”), sopravvalutazione delle attività, panico, corsa alle banche. È possibile dare un’alzata di spalle e dire: «è il capitalismo, le crisi sono strutturali»? Io credo di no. Perché le crisi devastano l’economia reale, distruggono ricchezza e posti di lavoro e, in passato, hanno portato gli Stati alla bancarotta e poi alle guerre. Questa catena di eventi deve essere evitata. E, se non si possono totalmente eliminare le crisi, almeno dobbiamo fare di tutto per minimizzare i rischi. Siamo sulla strada giusta per dare i segnali necessari ai mercati? Vorrei citare almeno un elemento positivo: la tassa sulle transazioni finanziarie, che ha finalmente ottenuto il via libera di undici governi dell’Unione attraverso una cooperazione rafforzata. Credo che sia un segnale importante di giustizia sociale. Chi ha causato la crisi deve finalmente dare un contributo per ripagarne i costi.

Con la limitazione dei bonus dei banchieri non siamo allo stesso punto. Il Parlamento europeo al momento sta negoziando con i governi dell’UE, chiedendo che i bonus non possano essere superiori agli stipendi. Sappiamo benissimo che bonus esorbitanti per prodotti finanziari ad alto rischio e profitti nel breve termine hanno creato incentivi sbagliati e provocato l’assunzione di rischi eccessivi. Non c’è da stupirsi, quindi, che questi prodotti avventurosi, a partire dai credit default swaps, definiti da Warren Buffet “armi di distruzione di massa”, si siano moltiplicati. Sappiamo che è andata così, eppure i governi dell’UE riuniti nel Consiglio, oggi, bloccano la proposta che stabilisce un tetto ai bonus.

Anche su altre questioni, in questi anni di crisi, siamo diventati più vecchi, ma non necessariamente più saggi. In occasione del G20 di Londra del 2009, si decise di mettere al bando i paradisi fiscali. Al momento, però, i governi nazionali in seno al Consiglio dell’UE non sono nemmeno d’accordo sulla definizione di “paradiso fiscale”. O forse non vogliono mettersi d’accordo. Anche qui c’è una grave lacuna giuridica: i ricchi portano i loro soldi all’estero, mentre i comuni cittadini mantengono lo Stato con i loro salari e le loro pensioni. In nessun luogo questo è più evidente che in Grecia.

Il punto centrale di una regolamentazione efficace dei mercati finanziari è garantire che finalmente ci sia la massima trasparenza sui mercati finanziari stessi. Obiettivo non ancora raggiunto. Il Parlamento europeo vuole vietare il trading ad alta frequenza per limitare la speculazione sulle materie prime, vuole abolire le dark pools, ovvero i mercati paralleli, e assicurare che la liquidità serva ad alimentare l’economia reale e non i profitti degli speculatori. Perché questa è la realtà perversa: i soldi ci sono, e sono tanti, ma sono oggetto di una caccia famelica che si consuma in poche frazioni di secondo in tutto il mondo, spostando miliardi su miliardi da un mercato all’altro: beni immobili, oro, cibo, tutto è preda appetibile, purché assicuri i rendimenti più elevati. Un’altra conseguenza nefasta è che, siccome il profitto deve essere massimo nel minimo tempo possibile, le piccole e medie imprese, nell’economia reale, hanno difficoltà ad accedere al credito. Ma senza investimenti come si genera crescita? Un programma di credito della Banca europea degli investimenti e dell’Unione europea potrebbe essere utile. Queste sono, oggi, alcune delle sfide più urgenti a livello europeo e mondiale. Agire per regolamentare i mercati finanziari, sapendo che lo facciamo con la pistola dei debiti pubblici puntata alla tempia.

Se vogliamo difendere la nostra capacità di agire, abbiamo bisogno dell’Europa. Nessun paese dell’Unione europea è in grado, a livello nazionale, di domare i mercati e salvare la democrazia. Dal punto di vista demografico, l’Europa perde peso. Lo stesso si può dire per il profilo economico: probabilmente nel 2050 la Germania non sarà più un paese del G7. I quattro più grandi paesi dell’UE, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia messi insieme, oggi rappresentano quasi un quarto del PIL mondiale. Nel 2050 peseranno solo per il 10%. È in atto un cambiamento degli equilibri a favore dei mercati emergenti. È una buona notizia, perché significa che centinaia di milioni di persone in tutto il mondo usciranno dalla povertà. Ma significa anche che i paesi più grandi dell’Unione europea sono troppo piccoli per competere da soli. Basta questa constatazione a spazzare via gli argomenti di chi si scaglia contro l’UE e propone un ritorno alle monete nazionali. O immaginiamo davvero uno scenario in cui, nel 2050, lo scellino austriaco, la lira italiana, il marco tedesco e la dracma greca competano con il dollaro americano e il renminbi cinese? Bisogna proprio essere fuori dalla realtà per credere che arriverà il grande momento degli Stati nazionali!

Invece, se uniamo la potenza dei nostri 27 paesi, presto 28, e i nostri 500 milioni di cittadini, che rappresentano il più grande mercato interno del mondo, allora potremo ottenere risultati tangibili. Pertanto, pur sapendo che tante cose in questa Europa non vanno e che dobbiamo cambiarle, abbiamo bisogno dell’Unione europea più che mai.

Ulrich Beck ha formulato il paradosso della rinuncia alla sovranità che si traduce in un aumento di sovranità: l’europeizzazione quale gioco a somma positiva in cui, contrariamente a quello a somma zero, non succede più che uno debba perdere perché l’altro vinca. La logica del gioco a somma positiva è piuttosto: o si vince tutti o si perde tutti. Eppure, vi sono dirigenti nazionali che giocano ancora il gioco a somma zero nel “Congresso di Vienna” dei nostri tempi, il palazzo del Consiglio a Bruxelles. Perché? Forse per paura di ammettere la loro impotenza come singoli Stati davanti alle opinioni pubbliche nazionali.

Il nostro ruolo in quanto rappresentanti delle istituzioni europee, allora, ma anche quello del prossimo governo italiano, è di invertire questa tendenza. È di prenderci la responsabilità del nostro futuro comune: per l’Italia e per l’Europa e per un’Italia migliore in un’Europa migliore.