Giustizia

Di Michele Vietti Venerdì 08 Giugno 2012 10:45 Stampa

Il concetto contemporaneo di giustizia è assai diverso da quello anteriore all’Illuminismo. Prima del Settecento, infatti, gli ordinamenti statali articolano l’esercizio della giurisdizione come diretta e indistinta emanazione del potere politico assoluto che, proprio in quanto tale, non distingue alcuna peculiarità tra manifestazioni di carattere giurisdizionale, di governo o legislativo.

Come osserva nel 1578 il filosofo e giurista francese Jean Bodin: «la prima prerogativa sovrana è il potere di dare la legge a tutti in generale e a ciascuno come singolo, senza bisogno del consenso di nessuno». In ciò, a ben vedere, si radica il sistema giurisdizionale medievale, e ancor prima quello di derivazione romanistica, sia classica che del tardo Impero (Giustiniano diceva: «quod principi placuit legis habet vigorem») e in generale ogni sistema continentale, forse con la sola eccezione della Grecia classica, laddove peraltro il bilanciamento dei poteri è visto più nei sistemi rappresentativi che non in quelli esecutivi e giudiziari. La separazione dei poteri di Montesquieu rompe il blocco assolutistico e impone alle legislazioni moderne un approccio sistematico basato sulla necessità di introdurre pesi e contrappesi, sì da garantire che mai alcun potere dello Stato non solo possa identificarsi in una sola entità, ma nemmeno operare del tutto indipendentemente dagli altri.

Se la giurisdizione, come espressione di uno dei tre poteri dello Stato moderno, incarna la potestà dello Stato di amministrare la giustizia, è certamente al senso “etico” di giustizia che bisogna ricorrere allorquando si concepisce la giustizia come applicazione pratica dei sistemi giurisdizionali finalizzata alla ricerca del bene comune.

La giurisdizione esiste e può funzionare in quanto i cittadini le riconoscono la funzione di perseguimento della giustizia; è infatti indubbio che, storicamente, gli alti e bassi della stima e della considerazione che i cittadini hanno avuto degli operatori di giustizia sono indissolubilmente legati al grado di riconoscimento ai singoli sistemi giurisdizionali della loro idoneità a perseguire il fine di giustizia.

Questa in fondo è, a ben riflettere, la ragione profonda e la giustificazione della non elettività dei magistrati, protagonisti della giurisdizione, la cui ratio non si declina come ingiustificabile riserva di potere a una “casta”, ma come garanzia per il cittadino che coloro che sono chiamati a interpretare la giurisdizione abbiano professionalità tale da essere effettivamente in grado di perseguire il fine di giustizia, e come impedimento che l’investitura popolare possa far divergere le finalità dell’esercizio della giurisdizione dall’oggettiva applicazione della legge al caso concreto.

La giustizia persegue dunque l’obiettivo di “dare a ciascuno il suo” e per farlo occorre che ognuno rispetti l’altro e le norme che regolano la convivenza e che consentono a ciascuno, avendo ciò che gli compete, di vivere ordinatamente accanto a tutti gli altri. Ciò che spetta a ciascuno, proprio perché deve tener conto di ciò che compete a ciascun altro, risponde non solo a esigenze di giustizia commutativa, ma anche a esigenze di giustizia distributiva e sociale, cioè a ragioni complessive che hanno riguardo al bene comune.

Rispettare le regole costa e farle rispettare è attività delicata che comporta un saggio discernimento tra gli interessi in gioco, che devono essere mediati dalla politica nel superiore interesse generale. Ma è faticoso anche amministrare la giustizia, applicando la regola generale al caso concreto. Ciò comporta uno sforzo di preparazione tecnica, di conoscenza aggiornata dell’ordinamento, di attenta ricostruzione del fatto, di equilibrata mediazione tra gli interessi delle parti.

Un paese sano deve riconoscere questi sforzi e apprezzarli. È pericolosa la sottovalutazione o, peggio, il disprezzo delle regole, di chi le scrive e di chi le applica. L’inclinazione umana a perseguire il proprio vantaggio a scapito degli altri ha bisogno di un clima culturale, prima che politico, che valorizzi il rispetto della legalità, come condizione per vivere insieme, rischiandosi diversamente una delegittimazione reciproca dei poteri e l’offerta di un alibi per i consociati a violare le regole.

L’Italia ha molti problemi, ma quello dello scarso senso di legalità è forse il più grave, perché condiziona l’intera convivenza socioeconomica e influisce negativamente sulle nostre possibilità di sviluppo. Infatti, indagando il rapporto tra giustizia e legislazione non si può fare a meno di considerare che quanto più alto è il grado di determinatezza della legge, tanto più certo sarà il confine tra normazione (prerogativa della politica) e applicazione pratica delle norme (prerogativa della giurisdizione).

Se la sottoposizione soltanto alla legge è per il giudice a un tempo la suprema garanzia e l’invalicabile limite dell’esercizio del suo potere, al legislatore spetta il compito di dettare norme chiare e coerenti, e tanto più ciò accade, tanto meno può avere ingresso la difformità nell’applicazione della legge da parte del giudice, ferma restando l’inevitabile discrezionalità dell’attività interpretativa. Anche se, come ha di recente sottolineato Vladimiro Zagrebelsky in un articolo di stampa, l’attività di interpretazione non deve vanificare la legge e ciò accade tutte le volte in cui sia imprevedibile, oscillante, contraddittoria. Ciò può accadere quando i giudici rifiutino di considerarsi parte di un potere, certamente diffuso, ma non per questo estraneo a criteri di coerenza istituzionale con lo Stato di cui è espressione.

Solo attraverso la reale consapevolezza della cornice di regole in cui operano, i poteri del nostro modello di Stato possono garantirsi reciprocamente autorevolezza e autonomia. In un sistema basato sulla separazione dei poteri non è possibile pensare che uno di essi possa prevaricare sull’altro, poiché in tale evenienza lo scompenso che ne deriva comporta conseguenze difficilmente prevedibili e di rilevante impatto sul sistema complessivo.

Tempi recenti della nostra storia sembrano caratterizzati da guasti in gran parte riconducibili allo squilibrio che si è determinato tra i poteri dello Stato: sia la pretesa “supplenza” dei giudici sulla politica, sia i tentativi della politica di “riprendersi il maltolto con gli interessi”.

Fino a quando la politica, sull’erroneo presupposto del mandato elettivo, crederà di dover perseguire politiche di contrasto all’esercizio delle prerogative giurisdizionali, il risultato sarà un perenne scontro tra le norme prodotte e i sistemi di garanzie esistenti.

La magistratura dovrebbe a sua volta uscire dalla logica del consenso che alla fine del secolo scorso l’ha talora tentata, rischiando di annebbiarne le finalità e facendo in qualche caso perdere a singoli interpreti quel senso di continenza e di appartenenza che sono prerogative irrinunciabili della giurisdizione.

Uno sforzo corale per recuperare tutti insieme, ognuno nella propria sfera di attribuzioni, i capisaldi della nostra democrazia si impone, perché se le evidenziate distorsioni dovessero perpetuarsi, la sfiducia che ne potrebbe derivare nell’opinione pubblica aprirebbe scenari preoccupanti.

Legislatore, governo, magistrati e cittadini debbono quindi sottoporsi, ognuno nel proprio ambito, alla fatica di essere giusti, cioè di servire, e non di servirsi della giustizia. Se ciò accadrà a questo sforzo corrisponderà certamente una società più giusta, cioè un contesto più favorevole per l’armonico sviluppo delle potenzialità di tutti e di ciascuno.