L’Europa dopo il rigore

Di Germanicus Venerdì 10 Febbraio 2012 12:42 Stampa

La crisi rappresenta una minaccia esistenziale per il progetto europeo, perché ne intacca uno degli elementi portanti, la moneta unica, e perché sta erodendo il patrimonio di fiducia reciproca che gli Stati membri hanno faticosamente accumulato in sessant’anni di integrazione. È in corso uno scontro fra diverse visioni politiche, amplificato e reso particolarmente complesso dalle carenze di natura istituzionale che affliggono l’Unione. Un diverso approccio di politica economica e un quadro istituzionale meno lacunoso renderebbero infinitamente più semplice la loro ricomposizione.


Pubblichiamo online una versione più ampia dell'articolo che trovate nel numero 2/2012 di Italianieuropei


Qualche tempo fa il cancelliere Merkel ha definito la crisi del debito come «il momento più difficile per l’Europa dalla guerra mondiale ad oggi». L’enfasi retorica è inusuale, per il personaggio, ma il messaggio non è esagerato. L’eurocrisi rappresenta una minaccia esistenziale per il progetto europeo. Non solo perché ne intacca uno degli elementi portanti, la moneta unica, ma anche perché sta erodendo il patrimonio di fiducia reciproca che gli Stati membri hanno faticosamente accumulato in sessant’anni di integrazione. Sotto questo profilo, le recriminazioni e gli scambi di accuse degli ultimi mesi rappresentano un fenomeno persino più inquietante degli spreads.

Ad alimentare i rischi di disaffezione è soprattutto la tendenza a schematizzare i problemi, riducendoli ad una contrapposizione fra Stati o gruppi di Stati. Le varianti più serie di questo approccio pongono l’accento sulla difficoltà di conciliare la visione e gli interessi della Germania con quelli dei paesi in difficoltà come l’Italia. Quelle meno serie optano per una lettura “etnologica”. Così, per alcuni media tedeschi, non vi sono dubbi: la colpa della crisi è soltanto degli “europei del Sud”, che dopo aver sperperato per anni vorrebbero essere salvati a spese dei contribuenti tedeschi. Rispondono a tono i media dell’Europa meridionale, che cominciano ad accusare la Germania di volontà persecutorie se non addirittura di mire egemoniche.

Come tutte le interpretazioni “riduzionistiche”, anche queste sono pericolose. Esse rischiano infatti di intrappolare il dibattito europeo in caratterizzazioni fuorvianti, quando non basate su stereotipi deteriori. La solidarietà e persino gli standard di convivenza europei rischiano di esserne seriamente danneggiati.

Per questo è interesse di tutti rinquadrare i termini del problema. Quello che è in corso non è un conflitto “fra popoli” e tantomeno fra “culture”. Quello che è in corso è innanzitutto uno scontro fra diverse visioni politiche. Uno scontro amplificato, e reso particolarmente complesso, dalle carenze di natura istituzionale che affliggono l’Unione. Sostenere questa tesi non significa cercare di rimuovere dal dibattito europeo gli interessi di cui gli Stati membri in quanto tali sono portatori: sarebbe illusorio e fuorviante. Sostenere questa tesi, come faremo nelle prossime pagine, significa, piuttosto, affermare che un diverso approccio di politica economica e un quadro istituzionale meno lacunoso renderebbero infinitamente più semplice la loro ricomposizione.


Una diagnosi ancora da completare

Il primo problema dei leader europei è mettere a fuoco le cause della crisi; un compito molto meno agevole di quanto non possa sembrare a prima vista. Finora, su impulso del “motore” franco-tedesco, ha prevalso l’interpretazione in base alla quale la causa unica, o quasi, della crisi sia il dissesto finanziario di alcuni paesi. Da due anni a questa parte, è questo il presupposto tacito di tutte le conclusioni raggiunte dal Consiglio europeo. Lo stesso presupposto da cui prendono le mosse gran parte dei media nordeuropei, che non a caso chiamano “crisi del debito” quella che, per noi, è la crisi dell’euro.

La “cura” finora prescritta è la naturale conseguenza di questa diagnosi. Se l’unico problema dell’Unione monetaria è la “dissolutezza” di alcuni Stati membri, la soluzione è imporre a tutti il rigore finanziario. Altre misure, come il trasferimento di una parte del debito a livello europeo, con l’emissione di eurobond, o l’ampliamento del mandato della BCE – per permetterle di acquistare titoli di Stato sul mercato primario – servirebbero soltanto ad allentare la pressione sui governi, che ne approfitterebbero per svicolare dal necessario risanamento. Al massimo, si può ammettere che l’Europa venga a sostegno degli Stati in momentanea crisi di liquidità, attraverso gli strumenti finanziari creati (fuori dai Trattati) a partire dalla primavera del 2010. L’EFSF e l’ESM rappresentano però un “salvagente” temporaneo – in attesa che gli Stati interessati mettano ordine nei conti pubblici – non uno strumento di politica economica europea.

Lo schema è stato confermato dal Consiglio europeo del dicembre scorso, con l’adozione di una serie di decisioni senz’altro impegnative, ma mirate più a rassicurare l’opinione pubblica tedesca che a tranquillizzare i mercati.[1] Ridotto all’osso, il suo messaggio è stato, infatti, che bisogna rafforzare e anzi “costituzionalizzare” la spinta verso il rigore finanziario. Fare more of the same, quindi, più che cercare di fare anche qualcosa di diverso.

Questa lettura, che potremmo definire “rigorista”, presenta due limiti. Il primo è la sua parzialità. I problemi di bilancio di alcuni Stati membri sono una delle cause, non l’unica causa della crisi. A farla precipitare hanno contribuito un insieme di fattori: dall’onda d’urto della crisi finanziaria del 2008, alla sovraesposizione del sistema bancario, passando per la bolla speculativa immobiliare spagnola, l’eccessivo indebitamento privato, gli squilibri nelle partite correnti e via dicendo. È un dato di fatto, del resto, che i problemi di paesi come la Spagna e l’Irlanda non sono stati causati dalla cattiva gestione delle finanze pubbliche, dato che, allo scoppio della crisi, entrambi avevano un debito bassissimo e un bilancio in surplus.

La lettura “rigorista”, inoltre, è parziale in quanto trascura i problemi strutturali europei, che nell’evoluzione della crisi hanno avuto un ruolo almeno altrettanto importante di quelli nazionali. I mercati hanno interpretato i dissensi, le incertezze e le difficoltà di azione collettiva dei paesi europei come un segnale di scarsa determinazione nel difendere l’euro. Ogni riunione inconcludente, ogni controversia sui rimedi da adottare, ogni soluzione rabberciata ne ha aumentato il nervosismo, che a un certo punto è diventato vera e propria isteria. E così la crisi di solvibilità di un paese economicamente marginale come la Grecia si è trasformata in una tragedia continentale.

Gli stessi mercati, d’altra parte, ci danno una dimostrazione inequivocabile dell’esistenza di un problema di credibilità complessivo dell’eurozona, oltre che dei singoli Stati membri. Non si spiegherebbe, altrimenti, per quale motivo paesi dai fondamentali sanissimi come l’Austria e la Finlandia paghino dei tassi di interesse superiori a quelli della Germania sui loro titoli di Stato; non si spiegherebbe perché la Gran Bretagna, che ha una situazione fiscale più difficile di molti dei paesi dell’eurozona, continui tutto sommato ad essere graziata dai mercati e non si spiegherebbe come mai il dollaro sia diventato in queste settimane un “bene rifugio” per gli investitori spaventati dal rischio politico europeo, quando gli Stati Uniti si trovano alle prese con un deficit a due cifre, un debito che si avvicina alle tre, e una sostanziale impasse politica sui tagli di bilancio.

Il secondo limite della lettura rigorista, dopo la parzialità, sta nel suo carattere ideologico. Essa si basa, infatti, su una serie di assunti che meriterebbero di essere discussi. Il primo è la fiducia incrollabile nella razionalità dei mercati. Nel caso di specie, la lettura rigorista postula che gli investitori, presi collettivamente, siano sempre in grado di valutare correttamente il valore di un investimento, in virtù di quella che gli entusiasti della globalizzazione finanziaria definiscono “saggezza della folla” (wisdom of the crowd).[2] Di conseguenza, per risolvere la crisi di fiducia nei titoli di Stato è non solo necessario ma anche sufficiente che gli Stati in difficoltà adottino le riforme “necessarie”. I mercati ne prenderanno atto immediatamente apprezzando i titoli di Stato, chiedendo rendimenti più bassi e assestandosi quindi automaticamente su un equilibrio ottimale. Sul piano intellettuale, è un’ipotesi affascinante. Contraddetta, però, dall’evidenza storica. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti, infatti, che i mercati possono essere affetti da euforie irrazionali e da altrettanto irrazionali ondate di panico. Così come dovrebbe essere chiaro a tutti che i rendimenti richiesti sui titoli di Stato europei sono il risultato di una serie di impressioni e scelte emotive, più che di una razionalità superiore. Ne consegue che le misure di risanamento nazionale possono anche essere una condizione necessaria per il superamento della crisi, ma non è affatto detto che siano sufficienti.

L’ulteriore assunto alla base della lettura rigorista (in realtà, una conseguenza del primo) è che la crisi non richieda alcun intervento di stabilizzazione. La ricetta per superarla è rimettere ordine nelle finanze pubbliche e adottare le necessarie riforme strutturali a livello nazionale. Non vi è niente che possa essere fatto a livello europeo, a parte assicurare il rispetto delle “regole auree” del patto di stabilità (rafforzato) e sanzionare i reprobi; se possibile, anzi, gli Stati membri – tutti gli Stati membri – devono essere dissuasi dall’idea di usare la politica fiscale in funzione anticiclica, come attesta la bizzarra idea di “costituzionalizzare” il tetto dello 0,5% per il deficit.

Non siamo, in realtà, di fronte a nulla di rivoluzionario. L’approccio che tende a ridurre al minimo il ruolo delle autorità pubbliche e a delegare alle sole forze di mercato la stabilizzazione dell’economia, affermando che la crescita può essere stimolata soltanto dal lato dell’offerta ha un nome. Negli Stati Uniti è Reaganomics, nel Terzo mondo Washington consensus. In Europa, di norma, thatcherismo. E non è un caso se l’ex direttore dell’Economist, non certo un bolscevico, notava qualche tempo fa che, per essere “germanica”, l’Europa di oggi parla con uno spiccato accento inglese (tory).[3] Corsi e ricorsi storici. Per John Kenneth Galbraith l’impero austroungarico si era vendicato della prima guerra mondiale trapiantando la scuola di Vienna negli Stati Uniti. Adesso che gli USA riscoprono l’importanza dello stimolo fiscale, l’Europa reagisce alla crisi finanziaria con modalità che ricordano molto da vicino le politiche economiche dei primi anni Trenta. E non è un caso se il presidente Obama, il segretario di Stato Clinton e il segretario al Tesoro Geithner si stanno sbracciando da mesi per ammonire gli europei contro le insidie delle politiche di austerità.


I limiti del rigore

Considerati i limiti della lettura rigorista non sorprende che le ricette finora applicate dall’Unione lascino a desiderare quanto a efficacia, efficienza ed equità.

Per quanto riguarda il primo aspetto, nessuno contesta che i membri dell’Unione economica e monetaria debbano mettere ordine nei loro bilanci. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che questa è una priorità assoluta e che sarebbe da incoscienti utilizzare l’alibi del “ci vorrebbe ben altro” per continuare a fare come nulla fosse. No: il risanamento di bilancio è una necessità ineludibile, soprattutto per un paese, come il nostro, gravato da un debito pubblico colossale. È lecito, tuttavia, dubitare che questa ricetta, da sola, basti a superare la crisi. L’andamento dei mercati, mentre queste pagine vengono scritte, sembra dimostrare che, malgrado i provvedimenti di rigore adottati dai governi spagnolo e italiano, l’incendio sia ancora ben lontano dall’essere domato. Il che lascia pensare che, per spegnere le fiamme, non sia sufficiente eliminare il materiale combustibile, riequilibrando i bilanci, ma occorra intervenire anche con degli estintori, come potrebbero essere gli eurobond o l’acquisto di quote di debito da parte della BCE.

Sul piano dell’efficienza, va poi tenuto presente il rapporto costi-benefici. È possibile, forse probabile, che alla fine, la linea del “rigore, solo rigore” riesca a rassicurare i mercati e a stabilizzare l’economia. Ma a che prezzo? Il cancelliere Merkel ha già messo le mani avanti, nel suo discorso di fine anno, pronosticando un 2012 molto duro per l’Europa. E c’è da crederle, se si considerano le implicazioni chiaramente deflattive degli aggiustamenti cui si stanno sottoponendo gli Stati dell’UE, a cominciare dall’Italia. Delle misure di sostegno europeo avrebbero favorito una stabilizzazione più rapida dell’economia europea e ridotto l’impatto deflattivo del risanamento, con benefici evidenti anche per gli Stati finanziariamente solidi.

Infine, la ricetta rigorista presenta un problema di equità, ovvero di distribuzione dei costi dell’aggiustamento. Vale la pena aprire una breve parentesi su questo aspetto. Prendiamo le mosse dal caso italiano. In questi giorni i mercati chiedono un rendimento del 7% sui BTP. Su chi lo debba pagare, non ci sono dubbi: lo Stato e quindi il contribuente italiano. Meno chiaro è se la totalità del tasso richiesto sia imputabile a “colpe” dell’Italia. La risposta, probabilmente, è negativa. Per il commentatore del “Financial Times” Martin Wolf,[4] il rendimento richiesto sui titoli di Stato dai mercati ha tre componenti. La prima è il rischio di insolvenza determinato dai problemi finanziari dei singoli paesi: un rischio che esisterebbe indipendentemente dalla collocazione di tali paesi all’interno o all’esterno dell’UEM. La seconda componente è determinata dal rischio, addizionale, che nel caso europeo è dato dai problemi di liquidità in cui gli Stati membri possono incorrere a causa dell’assenza di un prestatore di ultima istanza. Gran Bretagna e Stati Uniti possono, in caso di emergenza, ricorrere alla monetizzazione del loro debito: possono, cioè, farlo acquistare dalla Banca d’Inghilterra o dalla FED. Ai membri dell’UEM questa opzione non è data, a causa dei limiti del mandato della BCE. Per loro, quindi, il rischio di default è molto maggiore.

La terza componente del rendimento è il rischio politico. Il tasso di interesse sui titoli di Stato incorpora infatti anche un premio contro l’eventualità – che i mercati evidentemente non considerano del tutto remota – di una rottura dell’eurozona.

È impossibile determinare il peso relativo di queste tre componenti. Ma si può dire con certezza che, finora, l’Unione si sta comportando come se esistesse soltanto la prima. Come se il tasso di interesse sui titoli sotto attacco fosse determinato esclusivamente dagli errori e dai problemi interni dei singoli Stati membri. Così, per tornare al nostro esempio, l’Italia deve accollarsi per intero le conseguenze non solo dei suoi problemi finanziari (la prima componente) ma anche dei problemi di cui non è direttamente responsabile (la seconda e la terza componente). I paesi “virtuosi”, invece, non solo non pagano la prima componente, che giustamente non viene chiesta loro dai mercati, ma non sono neanche sfiorati – o lo sono solo marginalmente – dalle altre due, di cui invece sono responsabili esattamente come i paesi “dissestati”.[5] È evidente che ci troviamo di fronte a un problema di ordine distributivo che, se non risolto, rischia di causare tensioni fortissime all’interno dell’eurozona.

Un approccio più equilibrato sarebbe quello di affiancare agli sforzi di risanamento nazionali un chiaro impegno collettivo a sostegno della moneta unica, in modo da ridurre al minimo il “delta più” di interesse che i mercati chiedono ai paesi sotto attacco. Finora, però, non è stato così, perché il paradigma rigorista rifiuta di vedere che il bilancio dei singoli Stati membri è solo parte del problema. È un’impostazione da rovesciare assolutamente, non tanto stigmatizzando l’egoismo o la testardaggine dei tedeschi quanto dimostrando il carattere ideologico, fuorviante e, in ultima analisi, dannoso delle teorie economiche che ispirano le posizioni “rigoriste”.


Le lacune del sistema europeo di governance dell’economia

L’affermazione della lettura rigorista è stata facilitata dalle carenze del sistema europeo di governance dell’economia. L’argomento è stato sviscerato in maniera completa in altre sedi.[6] Basti qui ricordare che l’architettura nata con il Trattato di Maastricht, poggia, essenzialmente, sull’assunto che la moneta unica possa fare a meno di un governo dell’economia. Ad assicurare il corretto funzionamento dell’UEM basterebbe la politica monetaria federale, accompagnata da un coordinamento delle politiche economiche nazionali e da un set precostituito di regole in materia di politica fiscale. Questo impianto è stato sottoposto a durissima prova dalla crisi finanziaria.

Le “regole” si sono dimostrate insufficienti a prevenire comportamenti di tipo free rider (come quello posto in essere dalla Grecia nascondendo i dati del suo deficit pubblico) e assolutamente inadeguate a reagire a situazioni di crisi, mentre il coordinamento ha mostrato tutti i suoi limiti quando si è presentata la necessità di predisporre delle misure eccezionali. Nelle prime fasi della crisi si è perso un tempo infinito fra veti reciproci, diatribe e recriminazioni, facendo montare l’isteria dei mercati. Così, quando finalmente si è deciso di agire, ci si è accorti che i costi dell’intervento erano lievitati enormemente.

La primavera del 2010 ha segnato un passaggio di grande importanza, con il superamento del tabù maastrichtiano che impediva di sostenere i paesi in difficoltà. Ma la fragilità del quadro istituzionale ha fatto sì che gli strumenti di intervento venissero definiti in un quadro prevalentemente intergovernativo, al termine di estenuanti negoziati fra Stati membri. Questo modo di procedere ha dilatato enormemente i tempi di reazione e diluito le decisioni. Con una duplice conseguenza. La prima è che l’Unione è apparsa costantemente in ritardo sui mercati, dotandosi di una fionda quando sarebbe servito un fucile, di un fucile quando sarebbe servito un bazooka e di un bazooka quando probabilmente, avrebbe avuto bisogno di un carro armato.[7] La seconda è che i paesi rigoristi hanno avuto gioco facile nell’imporre le proprie preferenze. Per affermarle, essi non hanno dovuto far altro che difendere lo status quo e far pagare a caro prezzo le concessioni in materia di sostegno finanziario. Per i fautori di un intervento più deciso dell’Europa, la strada era molto più impervia, dato che qualsiasi innovazione di sostanza rispetto agli assetti maastrichtiani avrebbe richiesto l’unanimità.

Insomma, i negoziati per la definizione della strategia anti-crisi dell’Unione non si sono svolti su un level playing field, su un terreno di gioco equilibrato, perché le regole del sistema di governance dell’economia creano un’asimmetria di potere a vantaggio dei sostenitori di politiche rigoriste.[8] Tali regole sono state d’altra parte concepite negli anni Novanta, nel pieno della great moderation[9] e si basano, coerentemente con i postulati dell’epoca, sulla convinzione che per stabilizzare l’economia bastino alcuni mirati interventi delle autorità monetarie. La crisi del 2008 ha però dimostrato che il ciclo economico non è stato affatto domato[10] e che le autorità pubbliche devono poter disporre di un ventaglio più ampio di strumenti per far fronte alle situazioni di crisi. La latitanza di una politica fiscale europea rappresenta quindi qualcosa di più di un problema di ingegneria istituzionale. È un fondamentale problema politico. Il punto non è fare in modo che l’Europa adotti a livello federale una politica interventista di stampo keynesiano. Il punto è che le istanze europee devono poter scegliere, di volta in volta, in funzione delle circostanze politiche, della congiuntura economica e dello stato di evoluzione del dibattito pubblico, cosa fare. Gli attuali assetti istituzionali, invece, contengono già la scelta, perché consentono soltanto di attuare, e rafforzare, la politica di rigore. Se non si cambia questo dato, la UEM potrà diventare, al massimo, una stability Union, non una vera e propria Unione fiscale.


L’interesse degli Stati e le disavventure della virtù

Porre l’accento sugli aspetti “ideologici" e istituzionali della crisi non significa minimizzare l’importanza delle divergenze fra gli Stati membri. Aiuta però a spiegare come siano maturate e perché si siano rivelate così difficili da gestire.

Come è naturale che avvenga, nei negoziati degli ultimi due anni ogni attore ha cercato di massimizzare i propri benefici minimizzando al tempo stesso i costi. Gli Stati più solidi finanziariamente, Germania in testa, hanno cercato di limitare il coinvolgimento finanziario dell’Europa, perché avrebbero rischiato di pagarne il conto. Al tempo stesso, hanno cercato di ottenere degli impegni convincenti sul fronte del risanamento da parte dei paesi più esposti. Questi ultimi hanno spinto nella direzione opposta, cercando di evitare impegni troppo vincolanti sul fronte del risanamento e sollecitando un maggiore sostegno dell’Europa. La difficoltà a far dialogare le due posizioni è stato uno dei principali elementi di paralisi dell’Unione.

A complicare le cose ha contribuito anche il tono “moralisteggiante” che alcuni governi hanno impresso al dibattito. Intendiamoci, è vero che non bisogna incoraggiare il moral hazard dei governi e delle banche lasciando “impunite” le loro scelleratezze finanziarie. Ed è vero che bisogna reclamare il rispetto delle regole da parte di tutti. Tuttavia, non si può fare a meno di pensare che molti guai sarebbero stati evitati se si fosse seguito l’ammonimento dell’Ecclesiaste: «noli esse justum multum».

Queste posizioni, per quanto legittime, non hanno aiutato a rasserenare gli animi. Peggio, hanno contribuito a determinare la paralisi dell’Unione nei mesi decisivi in cui la propagazione della crisi poteva ancora essere evitata. Fino alla primavera del 2011, i tassi sui titoli di Stato italiani e greci erano ancora relativamente contenuti. Ma a partire dal luglio 2011, le divisioni fra i leader europei hanno portato gli investitori internazionali a fuggire dai titoli di Stato di tutti i paesi considerati finanziariamente “fragili”.[11] Da quel momento, l’infezione si è estesa a Spagna e Italia, come era assolutamente prevedibile, dopo aver lasciato aperta per oltre un anno la “ferita” greca.

Gli elementi di novità, negli ultimi mesi, sono stati il cambio di governo e il rilancio della politica di risanamento in Spagna e Italia. Ma le dinamiche interstatali sono cambiate poco. Ancora oggi, la Germania frena sulle misure che potrebbero arrestare immediatamente la crisi. Gli eurobond la insospettiscono, come tutto ciò che minacci di trasformare l’Unione in una “Transfer Union”. Mentre l’avversione “storica” nei confronti dell’inflazione la porta a guardare con orrore all’acquisto diretto di titoli del debito da parte della BCE.[12] Per il governo tedesco, la via maestra resta quella dell’espiazione dei peccati finanziari da parte degli Stati in difficoltà. Tutto legittimo e comprensibile, per carità. Se non fosse che, difendendo le sue “linee rosse” Berlino sta di fatto imponendo unilateralmente agli altri Stati membri le sue preferenze di politica economica e persino le sue valutazioni di carattere etico.

Non si può negare, insomma, che le divergenze fra Stati sono state la causa immediata dell’”avvitamento” della crisi. È tuttavia importante sottolineare che è stato il contesto istituzionale e ideologico a renderle ingestibili. Delle procedure di carattere prettamente intergovernativo come quelle che caratterizzano la governance economica europea sono inadatte a gestire i conflitti di natura distributiva perché non consentono in alcun modo di superare i veti nazionali e non forniscono quindi alcun incentivo al compromesso. L’ideologia complica ulteriormente il confronto distorcendo il calcolo dei costi e dei benefici. Se si adotta un approccio iperliberista, la cura che il cancelliere Merkel sta impartendo al resto dell’Europa può sembrare sensata, al di là di tutte le considerazioni di ordine morale che l’accompagnano. Ma se si parte da presupposti meno fideistici ci si rende conto dei suoi limiti. La ricetta del solo rigore, infatti, sta facendo ripiombare una larga parte dell’Europa in recessione, con danni economici gravi anche per la Germania.[13] E persino sul piano strettamente contabile, rischia di costare molto più di un atteggiamento “proattivo”.[14] Bisognerebbe spiegarlo ai contribuenti tedeschi, terrorizzati all’idea, che è stata loro inculcata, di dover mantenere il resto degli europei. Bisognerebbe spiegarlo, se non si fosse per l’appunto prigionieri di un dogma economico.


Quanto dista Richmond da Berlino?

Sullo sfondo rimane la grande questione dei meccanismi di ridistribuzione all’interno dell’Unione monetaria. La teoria dell’integrazione regionale prevede che, per funzionare correttamente, un’Unione di Stati si debba dotare di meccanismi di compensazione interni.[15] Non occorre, infatti, scomodare la teoria dei giochi per intuire che, se è vero che il pooling di risorse può creare una serie di benefici collettivi non è affatto detto che questi benefici vengano ripartiti in maniera omogenea. Il compito del leader (o, come lo definisce la teoria dell’integrazione regionale, del paymaster) è quello di assicurare una “ridistribuzione dei guadagni” e di alleviare, conseguentemente, le tensioni distributive fra i partner.

Uno scambio di questo genere è all’origine, ad esempio, del patto federale statunitense. Uno dei primi atti dell’Amministrazione Washington fu, infatti, quello di proporre il trasferimento a livello federale dei debiti contratti dai tredici Stati originari durante la guerra di indipendenza. La Virginia – allora lo stato più ricco, popoloso e finanziariamente solido dell’Unione – accettò soltanto dopo un lungo braccio di ferro. Ma in cambio pretese il riconoscimento simbolico del suo primato, con il trasferimento sul suo territorio della capitale federale. Quella che sarebbe diventata la città di Washington.

Oggi, il bilancio federale statunitense ridistribuisce circa il 25% del reddito nazionale (a fronte dell’1% del bilancio europeo) con i cinque, sei Stati più ricchi che finanziano indirettamente quelli meno prosperi.[16] E, malgrado l’avversione pressoché universale nei confronti delle tasse, nessuno, negli Stati Uniti, si sogna di tirare fuori la narrativa dei “saldi netti” che tanto inquina il dibattito politico europeo. Ironia della sorte, la Virginia ha passato ad altri il privilegio della leadership, diventando un beneficiario netto dei trasferimenti federali.

Per quale motivo Berlino dovrebbe seguire le orme di Richmond accettando la federalizzazione di parte del debito europeo? E, in prospettiva, perché dovrebbe accettare che l’Unione assuma le temutissime fattezze di una Transfer Union? Una risposta un po’ rozza potrebbe suonare grosso modo così: perché la leadership ha il suo prezzo, come aveva compreso, a suo tempo, la Virginia.

La risposta più articolata è che puntellare l’Unione dotandola di strumenti di politica economica adeguati è nell’interesse della stessa Germania.

Come l’Unione delle tredici colonie originarie, anche l’Unione europea ha prodotto, in questi anni, una serie di benefici materiali e immateriali: ha facilitato la ricostruzione postbellica (e il reinserimento delle potenze dell’Asse nella comunità internazionale); ha posto le condizioni per uno straordinario boom economico mettendo a disposizione degli Stati membri un mercato di proporzioni continentali; ha prodotto una serie di beni immateriali, a partire dalla stabilità politica e dalla pace, e ha cominciato a produrre dei fondamentali common goods come la tutela degli interessi europei nel mondo. Questi benefici non sono contabilizzati nelle bilance dei pagamenti e non sono oggetto di valutazione da parte delle agenzie di rating ma costituiscono una formidabile ricchezza per tutti gli Stati membri, a cominciare dalla Germania.

Al conteggio del dare e dell’avere andrebbero poi aggiunti i vantaggi specifici che Berlino ha tratto e trae dall’appartenenza all’UE. È un dato di fatto che in cinquant’anni di integrazione le politiche regolatorie e relative alla fissazione di standard hanno quasi sempre finito col mutuare i modelli tedeschi, ed è un dato di fatto che la politica monetaria della BCE è influenzata in maniera determinante dalla cultura e dalle esigenze della Germania. Queste scelte non sono frutto della Machtpolitik tedesca ma della razionalità economica. Perché scegliere le soluzioni più vicine a quelle della principale economia continentale è il modo più diretto per massimizzare il benessere aggregato a livello europeo.

Un ragionamento analogo vale anche per la partecipazione della Germania all’UEM. L’euro le ha infatti consentito di beneficiare di tassi di cambio artificialmente bassi, rispetto a quelli che avrebbe potuto avere se fosse stata da sola. Cosa che le ha consentito di accumulare un consistente surplus commerciale nei confronti dei suoi partner, inclusi i paesi dell’Europa del Sud.

Insomma, ha avuto ragione il ministro degli Esteri polacco Sikorsky a chiedere a Berlino di «ammettere di essere il maggiore beneficiario degli attuali assetti e di essere quindi tenuta in maniera particolare a far sì che siano sostenibili».[17] E qui torniamo sulla questione ideologica. La scelta di un paradigma economico di stampo iperliberista impedisce a Berlino di vedere le controindicazioni della sua linea politica in Europa. Ed è questo paradigma che le impedisce di integrare appieno, nel bilancio dei suoi rapporti con l’Europa, i vantaggi diretti e le esternalità positive di cui anch’essa beneficia.


La nascita del “discorso politico europeo”

È poco probabile che la conferenza intergovernativa in corso a Bruxelles vada oltre la trasposizione giuridica delle intese del Consiglio europeo del dicembre 2011. Sarà già tanto se il nostro governo riuscirà ad ottenere un ammorbidimento delle richieste tedesche sul fronte del rientro del debito e della gestione dei deficit. E sarà già tanto se la peer pressure degli altri Stati membri riuscirà a convincere la Germania a incrementare i fondi dello ESM.[18]

Sul piano politico, però, le questioni che abbiamo menzionato restano sul tavolo. Il Parlamento europeo sta ponendo con forza il problema del controllo democratico e chiede di conciliare la stabilità di bilancio con la solidarietà e il rilancio della crescita.[19] La Commissione ha presentato un “libro verde” sugli eurobond, con una serie di concrete ipotesi di lavoro. Si comincia a ipotizzare la creazione di project bonds che potrebbero essere utilizzati per aiutare gli Stati in difetto di competitività.[20] Da più parti è invocato un maggiore attivismo della BCE, cui dovrebbe essere data la possibilità di acquistare titoli di Stato sul mercato primario. Il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy e l’ex presidente della BCE Trichet hanno proposto la nomina di un ministro delle finanze europeo, che dovrebbe supervisionare e assicurare il coordinamento delle politiche fiscali degli Stati membri.[21] E l’elenco potrebbe continuare.

Sullo sfondo, rimangono poi due grandi temi. Il primo è quello di dotare l’UE, o quantomeno l’eurozona, delle risorse che le consentano di volgere, in caso di emergenza, degli interventi di stabilizzazione economica.[22] Il secondo, è quello di risolvere il nodo della coesistenza, all’interno dell’Unione, di un nucleo semi-federale, da costruire attorno al governo dell’euro, e di un “cerchio esterno” di Stati meno integrati. Sono i temi dell’approfondimento e della diversificazione. Affrontarli significa parlare della costituzione di un’Unione politica, economica e fiscale: la premessa degli Stati Uniti d’Europa.[23]

Per il momento, dovremo accontentarci di molto meno. Il tempo potrebbe tuttavia riservare delle sorprese. E magari procurare qualche dispiacere a quella infinita schiera di uccelli del malaugurio che, soprattutto sulla stampa anglosassone, danno già per spacciata l’Unione economica e monetaria e persino l’idea europea. A ben vedere, infatti, in questi mesi è avvenuta una trasformazione di grande importanza: è nato un discorso politico europeo. Non è un’evoluzione da poco, dato che proprio l’assenza di una sfera pubblica in cui i cittadini possano essere informati e discutere liberamente delle opzioni politiche disponibili è sempre stata considerata una delle principali carenze del progetto europeo.[24]

Paradossalmente, la crisi potrebbe porre le premesse per un salto di qualità del processo di integrazione favorendo l’avvicinamento dei dibattiti politici nazionali. Ormai, i cittadini e i media europei discutono degli stessi argomenti: la crisi economica, le misure per il rilancio dell’economia, persino lo spread, salito agli onori del capodanno napoletano. Non solo: seguono ormai le questioni interne degli altri paesi come se avessero un impatto diretto sulle loro vite. E non hanno torto.

Viceversa, le questioni europee influenzano in maniera crescente le dinamiche politiche nazionali. Anni fa, potevano essere considerate come distanti e astratte. Oggi, incidono direttamente sulle scelte fondamentali dei paesi membri. Ed è forse il caso di ricordare che la crisi dell’euro ha causato la caduta di cinque governi (greco, irlandese, portoghese, spagnolo e italiano) e che le misure economiche da adottare nei singoli paesi vengono ormai discusse collettivamente.

Vi è infine, un terzo livello dell’europeizzazione del dibattito pubblico, che attiene alla creazione di una dialettica politica a livello europeo. Anche in questo campo la crisi degli ultimi mesi ha marcato un vero e proprio salto di qualità. Alle scelte di politica economica promosse dal cancelliere Merkel e dal presidente Sarkozy si contrappongono i programmi della SPD e dei Verdi,[25] in Germania, e quelli del candidato socialista Hollande, in Francia. Non a caso, entrambi sono molto più aperti nei confronti di interventi di stabilizzazione europea di quanto non siano gli attuali leader di Francia e Germania.

Questi sviluppi dimostrano che esiste ormai una sfera politica europea e confermano, inoltre, l’idea guida di questo scritto: ovvero che l’attuale contrapposizione sui rimedi da dare alla crisi non andrebbe concettualizzata soltanto in termini di contrapposizione fra Stati ma dovrebbe piuttosto essere vista come uno scontro fra diverse visioni all’interno di uno spazio politico sempre più integrato. Se questo è il caso, i toni anche accesi che hanno caratterizzato la polemica mediatica degli ultimi mesi sono il sintomo di una crescente politicizzazione delle dinamiche europee più che di un crollo imminente dell’edificio comunitario. È vero, se non si troveranno delle soluzioni alla crisi del debito, la politicizzazione potrebbe rompere gli argini, trasformarsi in conflittualità e mettere a repentaglio la stessa tenuta dell’edificio comunitario. Se ne vedono già le prime avvisaglie, con l’onda montante del populismo e del risentimento anti-UE. Tuttavia, se i leader europei ritrovassero coesione e sense of purpose, reagendo alla crisi, la dialettica intraeuropea potrebbe essere canalizzata in un alveo molto più costruttivo: quello del confronto fisiologicamente acceso all’interno di un organismo che non si basa più esclusivamente sulla mediazione diplomatica e sull’expertise tecnocratica ma che comincia ad essere innervato da un autentico dibattito pubblico.


Il ruolo dell’Italia

E l’Italia? È inutile negare che il nostro paese ha giocato negli ultimi tempi un ruolo sostanzialmente passivo in Europa, da sorvegliato speciale, prima, e da oggetto delle decisioni altrui, in un secondo momento. Occorre recuperare margini di azione politica. Ma per farlo, occorre un forte consenso nazionale su alcune grandi linee di azione.

La prima è quella del risanamento finanziario e del rilancio della competitività. È qualcosa che l’Italia deve innanzitutto a se stessa e alle future generazioni, come non si stanca di ripetere il presidente del Consiglio. Ma è anche una linea di condotta necessaria a presentarsi a testa alta in Europa. Dopo aver adottato tre manovre correttive in un anno e dopo aver avviato un ambizioso, e non indolore, programma di riforme, l’Italia può chiedere qualcosa in cambio a Bruxelles.

Al tempo stesso, e siamo alla seconda linea guida, il nostro paese deve contrastare con decisione la narrativa in base alla quale le uniche cause della crisi sono i problemi strutturali degli Stati membri. Deve respingerla per due ragioni: in primo luogo perché non risponde alla verità, o almeno a tutta la verità, come abbiamo visto. In secondo luogo, perché tende a “colpevolizzare” i paesi in difficoltà finanziaria invece di sottolineare la necessità di adoperarsi, a livello europeo, per trovare soluzioni comuni. Ora, è vero che in tedesco si usa la stessa parola, Schuld, per indicare tanto il “debito” quanto la “colpa”, ma dal punto di vista dell’igiene mentale faremmo bene ad evitare di auto-colpevolizzarci eccessivamente. Il nostro “peccato originario” è quello del debito pubblico, che avremmo dovuto ridurre molto più rapidamente, approfittando degli anni di crescita. Tuttavia, al nostro paese può essere rimproverato ben poco sul fronte del deficit. A differenza della Germania, l’Italia non ha mai infranto le regole del patto di stabilità e si è anzi sforzato di farlo anche dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, quando per quasi tutti gli altri è risuonato il “tana libera tutti”. Questo non è bastato a metterlo al riparo dall’attacco dei mercati per tutta una serie di ragioni. Ma accusare il nostro paese di aver abusato della fiducia dei partner europei è ingiusto e fuorviante. Nessun vittimismo, per carità, ma deve essere chiaro che l’Italia sta pagando un prezzo particolarmente elevato per degli eventi di cui è responsabile solo in parte e che l’Europa avrebbe potuto prevenire, se fosse stata più lungimirante.

Non è soltanto una questione di orgoglio nazionale. La questione di principio su chi sia responsabile di cosa ha, infatti, delle implicazioni operative molto precise. Ancora oggi, si legge di frequente nei giornali tedeschi che «Il futuro dell’Europa dipende dall’Italia».[26] È sbagliato. Dall’Italia dipende soltanto il futuro dell’Italia. Il futuro dell’Europa dipende da quello che gli europei, collettivamente, decideranno di fare.

Il che ci porta alla terza grande linea di azione del nostro paese. Il nostro compito deve essere quello di chiedere con forza che dalla crisi dell’Euro si esca con soluzioni europee. Non si tratta di presentarsi a Bruxelles con il cappello in mano né di sognare che un mitico “salvatore esterno” venga a risolvere i nostri problemi interni. Si tratta, una volta fatta la propria parte, di pretendere che anche gli altri facciano la loro, riconoscendo la necessità di affiancare agli sforzi di risanamento dei paesi in difficoltà una più convinta difesa collettiva dell’euro. È questo il modo per tutelare al meglio non solo il nostro interesse nazionale ma anche l’interesse europeo. Ed è il modo per riconnettersi con la radice più nobile della politica estera del nostro paese: quella che ha portato l’Italia a promuovere in maniera attiva, dal dopoguerra in poi, il superamento delle divisioni continentali e un’integrazione sempre più stretta fra i popoli europei.

 



[1] G. Amato, Il vicolo cieco che l’Europa deve evitare, in “Il Sole 24 Ore”, 27 Dicembre 2011.

[2] T. L. Friedman, The Lexus and the Olive Tree, Farrar, Straus, Giroux, New York 1999.

[3] B. Emmott, Germany Is Speaking with an English Accent, in “The Times”, 5 dicembre 2011.

[4] M. Wolf, To the Eurozone: Advance or Risk Ruin, in “Financial Times”, 22 novembre 2011.

[5] È anzi probabile che ne siano addirittura avvantaggiati. Non è peregrino ipotizzare che gli investitori in fuga dai titoli “a rischio” stiano acquistando Bund tedeschi tenendone particolarmente basso il rendimento.

[6] N. Verola, L’utopia del governo delle regole, Aspenia 50/2010.

[7] La dotazione attuale dell’EFSF (e del futuro ESM) sarebbe stata largamente sufficiente ad affinare la crisi se fosse stata mobilitata fin dall’inizio. Adesso che nei guai sono finiti paesi di grandi dimensioni come Spagna e Italia, è insufficiente. Sarà uno degli argomenti del prossimo Consiglio europeo.

[8] N. Verola, Il governo economico dell’Europa, Politica Internazionale, 1-2-3/2004.

[9] Il termine great moderation si riferisce alla riduzione della volatilità del ciclo economico a partire dalla metà degli anni Ottanta. Per i fautori del Washington consensus la liberalizzazione dei movimenti dei capitali e dei cambiamenti strutturali introdotti nelle economie avanzate a partire dagli anni Ottanta (deregulation, privatizzazioni ecc.) avevano consentito di “domare” una volta per tutte il ciclo. La crisi del 2008 si è incaricata di dimostrare il contrario. Per l’aneddotica, è interessante notare che l’espressione fu coniata da Ben Bernanke, allora membro “semplice” del Board della FED, nel 2004, in un discorso alla Eastern Economic Association.

[10] J. Quiggin, Zombie Economics. How Dead Ideas Still Walk among Us, Princeton University Press, Princeton 2011.

[11] C. Forelle, M. Walker, Leaders’ Divisions Turned EU Crisis Into Global Threat, in “The Wall Street Journal Europe”, 29 dicembre 2011

[12] T. Piller, Monti und die Illusionisten, in “Frankfurter Allgemeine Zeitung“, 14 dicembre 2011. In realtà, come hanno sottolineato negli ultimi mesi diverse testate economiche, soprattutto anglosassoni, per “calmare” i mercati non sarebbe probabilmente neanche necessario che la BCE acquistasse per davvero i titoli di Stato dei paesi in difficoltà. Basterebbe probabilmente il suo impegno, ritenuto credibile, ad impedire che i tassi di interesse dei paesi dell’UE superino un determinato tetto. Questo impegno porterebbe automaticamente i mercati a moderare le proprie richieste.

[13] Basti pensare che, secondo le ultime proiezioni, la crescita tedesca dovrebbe subire un drastico rallentamento nel 2012, attestandosi vicino allo zero. Un esito che non sorprende, considerata l’interdipendenza economica fra i paesi europei e l’importanza del mercato interno per le esportazioni tedesche.

[14] Uno studio dell’UBS di qualche tempo fa cercava di quantificare le implicazioni finanziarie dei vari scenari. Il bailout completo di Grecia, Portogallo e Irlanda sarebbe costato ai contribuenti tedeschi 1000 euro a testa. I costi di una rottura dell’eurozona sarebbero enormemente maggiori. Eurozone: Where next? UBS Investment Research, 26 settembre 2011.

[15] W. Mattli, The Logic of Regional Integration: Europe and Beyond, Cambridge University Press, Cambridge 1999.

[16]In alcuni casi, il “contributo netto” è particolarmente importante. In vent’anni, fra il 1990 e il 2009, il “piccolo” Delaware ha pagato 124,8 miliardi di dollari in tasse federali e ricevuto solo 86,4 miliardi in trasferimenti. Con un saldo netto che rappresenta il 206% del PIL di questo Stato. Il saldo netto di New York nello stesso periodo rappresenta “soltanto” l’87% del PIL dello Stato della grande mela. Ma ammonta alla cifra impressionante di 956 miliardi di dollari. Sull’altra parte della scala vi sono il New Mexico, con un “saldo positivo” pari al 291% del suo PIL, il Mississippi, con il 254%, il West Virginia, con il 184% e via dicendo. The Red and the Black, in “The Economist”, 1 agosto 2011.

[17] Citato nell’articolo di B. Severgnini, A Word of Advice for My Emotional German Friends, in “Financial Times”, 13 dicembre 2011.

[18] Il cancelliere Merkel si sarebbe dimostrata disponibile a discutere proposte mirate alla crescita, una volta incassata la garanzia della conversione del resto d’Europa al rigore finanziario. A. Bonanni, Nello scontro tra Londra e Parigi la prima sconfitta della Gran Bretagna, in “la Repubblica”, 10 dicembre 2011.

[19] Si vedano, in proposito, le dichiarazioni (bipartisan) dei rappresentanti del Parlamento europeo alla conferenza intergovernativa che sta elaborando il nuovo Trattato: Elmar Brok (PPE, appartenente allo stesso partito di Angela Merkel), Roberto Gualtieri (S&D), Guy Verhofstadt (ALDE), Daniel Cohn-Bendit (Verdi).

[20] Against the Temptation of a Franco German Coup de Chefs d’Etat. Shared Leadership for a Truly Democratic and Federal European Union, statement of the Spinelli Group.

[21] J. C. Trichet, Une vision pour l’Europe, in “Les Echos”, 28 dicembre 2011

[22] Non è necessario arrivare a un bilancio federale dell’entità di quello statunitense. Per alcuni qualificati osservatori basterebbe un bilancio dell’ordine del 5% del PIL europeo, ovvero 650 miliardi di euro: una cifra grosso modo equivalente alla somma dell’ESM e ESFS. Va da sé, peraltro, che gli interventi dovrebbero poter essere decisi a maggioranza qualificata per evitare che il veto di un singolo Stato membro possa paralizzare l’Unione. E. Bonino, The Euro Will Be Saved Only if Europe Exists, European Council on Foreign Relations, 9 dicembre 2010.

[23] R. Prodi, G. Amato, Caro Mario, l’Italia non molli su un governo dell’euro, in “Il Sole 24 Ore”, 6 dicembre 2011.

[24] N. Verola, L’Europa legittima. Principi e processi di legittimazione nella costruzione europea, Passigli, Firenze 2006.

[25] Si veda il “Documento in 12 punti” elaborato congiuntamente dalla SPD e dai Grüne e il magistrale discorso di Helmut Schmidt al Congresso della SPD il 4 dicembre 2011.

[26] Die Zukunft des Euro hängt von Italien ab, in “Handelsblatt”, 25 dicembre 2011.