Un nuovo piano del lavoro per la crescita

Di Susanna Camusso Lunedì 13 Febbraio 2012 10:18 Stampa
Un nuovo piano del lavoro per la crescita Foto: Fiorella Sanna

Se si vuole invertire la tendenza all’autoimpoverimento del sistema Italia, rafforzando la competitività del paese all’interno del nuovo modello sociale europeo, bisogna ripartire dal lavoro. Investire in istruzione e formazione, soprattutto in campo tecnico-scientifico, e ridare stabilità ai rapporti di lavoro: questi i pilastri di un nuovo Piano del lavoro, di cui non si può più fare a meno.


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L’Italia è ormai in recessione, l’Europa non esce dalla stagnazione. Le politiche per la crescita diventano urgenti ed essenziali per riconsegnare ai cittadini europei prospettive accettabili di vita e aspettative positive per le future generazioni. Le politiche per la crescita sono la condizione anche di un riequilibrio stabile dei conti e dei bilanci di ciascuno Stato. Senza crescita le manovre di rientro dal debito non sono credibili e le speculazioni contro l’euro e contro i titoli di Stato di ciascun paese non cessano. Senza crescita, i rating – per quanto discutibili – peggiorano anche nei paesi più forti. Senza crescita europea nemmeno l’economia tedesca può essere solida e duratura. Con un colpevole ritardo di almeno dieci mesi, anche le leadership europee sembrano essersi convinte che la priorità assoluta è la crescita. Crescita del reddito, del lavoro, della domanda.

A questa convinzione ormai esplicita e generale continuano tuttavia a corrispondere decisioni politiche incoerenti, a dimostrazione che la crisi economica e finanziaria ha prodotto anche, nei fatti, una crisi politica e forse culturale nel continente. La governance europea ha ceduto i poteri di intervento in materia di emergenza economica ai singoli Stati membri, nessuno di loro è in grado di far assumere all’Europa le scelte necessarie per salvare l’euro e l’Unione. In questa contraddizione stiamo vivendo da troppo tempo: tra l’insufficienza delle politiche nazionali e l’insostenibile leggerezza delle politiche europee. Oggi viviamo una condizione non prevista dai padri fondatori: anche le democrazie interne di ciascun paese, non solo le Banche centrali, sono governate (e persino messe in mora) da un organismo monetario, la BCE, che non dovrebbe dettare le politiche agli Stati, e dalle intese bilaterali (fuori da trattati e regolamenti) tra Francia e Germania. Difficile immaginare quando e come si volterà pagina. È auspicabile che al più presto e insieme vengano affrontati entrambi i nodi che in questi anni si sono stretti attorno all’Unione europea: l’inadeguatezza della governance politico-istituzionale e l’inesistenza di una politica economica di crescita. Se si pensa agli obiettivi ambiziosi del Trattato di Lisbona e della Strategia Europa 2020, si può persino parlare di regressione europea dai suoi stessi obiettivi.

Se l’Europa si affidasse per la sua crescita esclusivamente alla ripresa americana, che sembra stia ripartendo, riconoscerebbe di aver deciso di giocare un ruolo marginale e di risulta nei processi di globalizzazione. Poco conta argomentare che la crisi in Europa è stata importata dall’estero ed è dipesa soprattutto dal peso eccessivo dell’economia finanziaria su quella reale, in cui l’Europa è ancora forte. Ormai l’ombra della recessione si è allungata sul continente. Ormai per tutti i paesi e le aree che operano in un’economia di mercato si pongono le stesse domande. Può tornare a esserci stabilità economica e di bilancio senza regole restrittive per la finanza? Può tornare a crescere l’economia reale se continuano ad aumentare a dismisura i profitti del settore finanziario a scapito di chi impiega capitali per produrre merci e servizi? Può crescere la domanda aggregata se continuano ad aumentare le disuguaglianze economiche e sociali fra le persone?

Forse un’economia finanziaria senza regole può determinare un aumento delle disuguaglianze sociali e di reddito e convivere con esse poiché non deve vendere i propri prodotti a un pubblico di massa. Ma l’economia reale non è più compatibile con una distribuzione così ineguale della ricchezza. Semplicemente, come era accaduto dopo il 1929, per vendere automobili in milioni di esemplari è necessario che vi siano milioni di famiglie in grado di comprarle. E così con tutti i prodotti e i servizi più tradizionali e più innovativi.

Per non ritagliarsi uno spazio di risulta nell’economia globale l’Europa deve tornare a esprimere non solo il suo potenziale in quanto grande mercato (anche finanziario) ma anche le sue capacità di produrre ed esportare innovazione in tutti i campi dell’industria e dei servizi, welfare sociale compreso. Non vi è altra strada che riprendere le politiche della crescita delle competenze e delle intelligenze e declinarle come ricetta per uscire dalla crisi. Non vi è altra strada che aumentare la propria capacità competitiva nel realizzare prodotti e servizi di alta qualità, produrre una crescita che si basi sull’alta tecnologia e la conoscenza.

Tutto ciò è ancora più vero per l’Italia. La crisi che stiamo attraversando è soprattutto determinata da insufficienza della domanda aggregata. Da investimenti e consumi che, per diversi motivi, sono fermi da troppo tempo senza che se ne intraveda un possibile rilancio.

In Italia, prima e oltre la crisi di origine finanziaria abbiamo assistito a una crescente perdita di competitività dell’apparato produttivo e di servizio. Ciò è dovuto all’intrecciarsi di diversi fattori, alcuni dipendenti dalla struttura produttiva e da contraddizioni croniche dell’economia del paese, altri dovuti a scelte miopi dei produttori.

Tra i primi dobbiamo richiamare almeno le caratteristiche strutturali del nostro apparato produttivo e di servizio, che ha mantenuto dimensioni medie e prevalenti ben al di sotto della soglia con cui si può sperare di competere nella globalizzazione. Abbiamo supplito nel tempo a questo gap grazie alla capacità di aggregare in distretti e filiere ciò che in sé era sotto la soglia dimensionale necessaria, ma questi spazi si sono progressivamente esauriti.

La presenza di poche grandi industrie e imprese di servizio (si pensi solo al settore della distribuzione) è un secondo limite di competitività evidente rispetto ai nostri partner europei più forti. Ma ancor più limitante è l’assenza dell’industria italiana dai settori più innovativi e di punta come l’informatica e le telecomunicazioni. Il progressivo declino della nostra industria più innovativa è stato descritto da diversi autori, così come le crescenti difficoltà dei settori tradizionalmente forti come quello dell’auto.

Infine, seppur con qualche lodevole eccezione, abbiamo assistito a due fenomeni speculari e complementari. Il primo, la ricerca di profitti finanziari anziché industriali operata da molti imprenditori italiani che si sono sempre più trasformati da produttori in finanzieri. Il secondo, il progressivo posizionarsi verso fasce di prodotti a minor valore aggiunto nella gran parte delle scelte compiute dal sistema produttivo: poca innovazione, poca ricerca, poca conoscenza contenuta nei processi e nei prodotti, poca qualità. Il settore dei servizi e delle infrastrutture non ha bilanciato questo impoverimento industriale. Comparto del credito compreso. L’assenza di qualsiasi politica industriale ha consentito una regressione generale e sistemica.

Il lavoro è stato negli anni la grande vittima di queste dinamiche e di queste scelte. Si è progressivamente indebolito in termini di distribuzione del reddito (e di livello retributivo medio) e si è impoverito in quanto a prestazioni richieste e continuità della partecipazione alla produzione. Le scelte di precarizzazione eccessiva (e persino ossessiva) svolte dai governi e dalle imprese hanno estromesso e tenuto lontana dalle attività produttive un’intera generazione di giovani, producendo due effetti altrettanto deleteri per il paese. Da un lato l’impoverimento delle persone e delle loro prospettive di futuro, con i fenomeni di permanenza nel nucleo familiare, di progressiva crescita a dismisura dell’età adulta, persino della riduzione delle dinamiche demografiche naturali. Dall’altro lato, il fatto che l’apparato industriale e di servizio oggi non contiene al proprio interno le conoscenze, le professionalità, le competenze di cui avrebbe bisogno per produrre quel salto di innovazione e di competitività che gli manca.

Insomma, a venti anni di “svalutazione competitiva della moneta” (non più possibile con l’entrata dell’Italia nell’euro) non ha fatto seguito un salto di competitività del sistema ma un tentativo (ancor più miope se visto con gli occhi della crisi di oggi) di “svalutazione competitiva del lavoro”, una specie di “saldi di fine stagione” delle risorse strategiche di un paese: le conoscenze, le competenze, i talenti, le esperienze. Altro che dualismo del mercato del lavoro, altro che rigidità in entrata e in uscita. Persino l’analisi e il dibattito attorno a questi temi si sono accontentati di prodotti a basso valore aggiunto.

Su questa situazione difficile e scoraggiante sono precipitate dal 2008 la crisi finanziaria e la crisi economica più generale dei mercati mondiali ed europei. Inutile qui ricordare come le politiche del governo e di Confindustria degli ultimi anni abbiano cercato di rispondere alla crisi accentuando ancora la svalutazione competitiva del lavoro con ulteriori ricorsi alla precarizzazione dei giovani e con il tentativo esplicito di destrutturare il sistema contrattuale e sindacale italiano indebolendo il contratto nazionale (invece di rafforzarlo per colpire il lavoro nero e irregolare) e cercando di mettere ai margini la CGIL che tentava di opporsi e resistere a questo processo di ulteriore impoverimento anche culturale delle relazioni sindacali. Consideriamo (almeno scaramanticamente) chiusa quella stagione di teorie discutibili sul sistema contrattuale e di pesanti ingerenze e discriminazioni della politica in campo sindacale. Ora il problema è soprattutto quello di invertire la tendenza all’autoimpoverimento del sistema Italia e tornare a rafforzare la competitività del paese all’interno del nuovo modello sociale europeo. Per avviare questo processo (che non sarà né breve né lineare dato il contesto politico nazionale e internazionale) si deve ripartire dal lavoro. Non solo perché un grande sindacato rappresenta prima e sopra di tutto quegli interessi primari. Ma perché il lavoro, come abbiamo visto, è stato negli anni il fattore impoverito e marginalizzato.

Ecco perché la CGIL torna a parlare di Piano del lavoro. Della necessità di rivisitare tutti gli aspetti dell’attività lavorativa per farne il propulsore di una nuova crescita più equa e più competitiva. Rivisitare tutti gli aspetti significa partire dall’istruzione e dalla formazione. Su questo punto uno dei deficit storici italiani è l’incapacità di “produrre” non solo i profili necessari ma persino le quantità medie europee di diplomati e laureati. Il Piano del lavoro non può che poggiare su un nuovo piano di riorganizzazione del sistema della pubblica istruzione e della formazione che estenda e diffonda geograficamente la scuola per l’infanzia e aumenti fino a diciotto anni l’obbligo scolastico. In secondo luogo sembra indispensabile che si riorganizzino gli indirizzi tecnico-scientifici del nostro sistema scolastico superiore e universitario, non per fare concorrenza alla formazione tecnica professionale ma per introdurre le conoscenze necessarie alla creazione di un sapere moderno e flessibile. Nel nostro sistema scolastico si rileva la mancanza di scienza e tecnologia intese come sapere di base. Questo limite non si supera anticipando le scelte dei giovani tra istruzione e formazione per il lavoro, anzi lo si peggiora. La scienza e la tecnologia nella conoscenza e nel sapere non sono ascrivibili immediatamente alla conoscenza delle macchine e delle tecniche di produzione. Su questo punto si è registrato uno degli errori storici effettuati dalle componenti della domanda di lavoro: parlano di flessibilità ma richiedono skills precise a seconda delle esigenze di breve periodo dell’impresa, non rendendosi conto in questo modo che non avranno flessibilità di sapere e conoscenze ma solo impiego flessibile delle quantità di lavoro.

Il secondo pilastro su cui poggia l’idea di un nuovo Piano del lavoro è quello della stabilità dei rapporti, della progressività delle carriere, della valorizzazione della risorsa lavoro contro la sua marginalizzazione. Il lavoro deve tornare a essere regolare e stabile (non necessariamente nello stesso posto per tutta la vita) e non un fattore usa e getta. Il lavoro usa e getta umilia chi lo svolge e impoverisce chi lo impiega: impedisce l’uso adeguato delle risorse professionali. Abbassa la produttività del sistema. La vera sfida sarà permettere e favorire diverse esperienze di lavoro nell’arco di una vita, rendendo esigibili professionalità e retribuzione. Il consolidamento del mercato del lavoro, la sua progressiva desegmentazione, è l’altra condizione su cui può crescere un Piano nazionale di valorizzazione del lavoro. Tuttavia non è solo dal versante dell’offerta che si deve agire. Piuttosto il contrario, se è vero, come si diceva, che la crisi oggi è soprattutto crisi da scarsità della domanda ed è da questa che bisogna partire creando occasioni di impiego e di valorizzazione di un’offerta di lavoro che c’è ed è, come abbiamo visto, largamente inutilizzata sia nella sua dimensione quantitativa che nelle sue caratteristiche professionali.

Partire dalla domanda significa prima di tutto rilanciare gli investimenti privati attraverso l’uso di una serie di fattori di stimolo. In questo ambito non si può immaginare di rilanciare gli investimenti privati senza un intervento (seppur mirato e selettivo) di spesa pubblica. Questa la principale contraddizione della fase che attraversiamo: la necessità di usare la leva della spesa pubblica in un momento di scarsità di risorse pubbliche e di politiche di contenimento. È possibile uscire da questa contraddizione? Può essere possibile operando in tre direzioni: attivando tutti gli strumenti non onerosi di stimolo delle attività e dell’innovazione, usando in maniera finalizzata ed efficace i fondi pubblici non ancora impiegati, coinvolgendo nelle decisioni di investimento tutti i soggetti pubblici nazionali e territoriali attraverso progetti concordati.

Molti atti amministrativi ordinari del governo centrale e di quelli territoriali possono muovere risorse e indirizzare i mercati senza spendere direttamente. Basti pensare agli strumenti di pianificazione urbana (che possono essere più o meno selettivi rispetto alla crescita di qualità e all’innovazione), o agli strumenti di regolazione dell’ambiente, o alla gestione economicamente appropriata delle società di servizio locali. Molti atti amministrativi ordinari possono sollecitare e attrarre investimenti se sanno realizzare le necessarie aspettative e affidabilità sugli orientamenti di governo e gestione del territorio.

Vi sono ancora fondi pubblici non impiegati sia a livello centrale che periferico. A livello di governo sarebbe utile censirli e indirizzarli per realizzare obiettivi espliciti. Non tanto in relazione a macro lavori pubblici quanto a macro progetti pubblici di modernizzazione del paese in partecipazione con gli enti territoriali e con le imprese. A livello territoriale sarebbe sufficiente allentare il Patto di stabilità interno per lasciar spendere agli enti le risorse che possiedono e per avviare migliaia di attività e dare ossigeno a migliaia di piccole imprese.

Ma questo potrebbe non bastare. Sembra necessario e possibile organizzare queste attività di spesa in veri progetti nazionali di ammodernamento e innovazione. Questi progetti consentirebbero di avviare e dare concretezza al Piano del lavoro, non solo perché creerebbero nuovi posti di lavoro ma perché potrebbero coinvolgere fin dalla fase di progettazione talenti oggi inutilizzati: indurre ricerca e progettazione, far cooperare fra loro università, territori e istituzioni.

Si dovrebbe partire dalle emergenze del paese. Dai ritardi accumulati negli anni che ormai intaccano il patrimonio collettivo, la produttività del sistema e la capacità di attrarre investimenti esteri. E poi passare a progetti per valorizzare il grande patrimonio e le eccellenze che l’Italia fortunatamente ha ancora e che senza investimenti si impoveriscono. Nel primo caso certamente quello del riassetto idrogeologico è una grande priorità non rinviabile. Quella della produzione, del risparmio, della distribuzione energetica e dello sfruttamento di fonti rinnovabili un’altra urgenza del paese. Poi i trasporti nazionali, i trasporti pubblici locali, le infrastrutture per la banda larga. Campi e settori in cui gli investimenti sono necessari e urgenti e non possono essere ulteriormente rinviati se non aumentando il divario e il ritardo italiano nei confronti dei partner europei. Nel secondo caso è sufficiente pensare all’immenso patrimonio architettonico e culturale che attende una messa in sicurezza e una valorizzazione all’altezza dei grandi circuiti di turismo culturale internazionale dal quale il nostro paese rischia di uscire.

Si tratta solo di esempi. Di priorità che dovrebbero essere discusse in sedi adeguate e competenti e trasformate in decisioni operative in grado di coinvolgere più soggetti pubblici e privati. Non è l’epoca dei piani quinquennali. Ma la crescita e la sua qualità vanno considerate obiettivi imprescindibili e pianificate nell’agenda politica se si vuole rafforzare il sistema-paese, ancora oggi terza economia dell’area euro e ottava nel mondo.

 

 


Foto: Fiorella Sanna