Quale futuro per il New Labour britannico?

Di Colin Crouch Domenica 02 Marzo 2008 20:03 Stampa
Tre fattori hanno contribuito a sabotare il carroccio del New Labour britannico: la guerra in Iraq, il progetto di occupare tutto il terreno dei conservatori per costringerli a spostarsi sempre più verso destra e la politica della liberalizzazione e privatizzazione del welfare State britannico, un aspetto, quest’ultimo, che deve essere ricollegato a quello precedente.

Tre fattori hanno contribuito a sabotare il carroccio del New Labour britannico: la guerra in Iraq, il progetto di occupare tutto il terreno dei conservatori per costringerli a spostarsi sempre più verso destra e la politica della liberalizzazione e privatizzazione del welfare State britannico, un aspetto, quest’ultimo, che deve essere ricollegato a quello precedente.

Il primo di questi, la guerra in Iraq, è in un certo senso «involontario», non fa parte cioè del progetto del New Labour. Se ne discuterà, dunque, solo brevemente. Inizialmente, il problema della guerra non fu l’opposizione popolare ad essa, né la frattura interna all’opinione pubblica da essa provocata, né l’ostilità al conflitto, emersa solo dopo i fallimenti e i disastri del cosiddetto «dopoguerra». Il problema, piuttosto, riguardava il fatto che il primo ministro Tony Blair avesse mentito sulla questione delle armi di distruzione di massa. Un elemento fondamentale del potere di attrazione esercitato dal New Labour, e particolarmente da Blair, in occasione della vittoria elettorale del 1997 erano stati, infatti, l’onestà e la trasparenza seguiti ai fallimenti dei Tories.

Le menzogne sull’Iraq hanno dirottato l’attenzione dell’opinione pubblica britannica su altri problemi: la mancanza di onestà e il famoso spin, ovvero il modo in cui il governo manipola dati e informazioni per collocarsi sempre in una prospettiva positiva. Al tempo delle elezioni del 2005, la reputazione di «uomo sincero» di cui Blair godeva fu irrimediabilmente danneggiata; ne conseguì una perdita di fiducia dell’elettorato. Toccò a Gordon Brown, il ministro del tesoro, ridare al governo e al partito l’immagine di istituzioni oneste. Sarebbe stato opportuno anche che Blair avesse indicato la sua volontà di dimettersi prima delle prossime elezioni (che avranno luogo verso il 2010).

Dopo le elezioni del 2005 cominciò un grande dibattito all’interno del partito e dell’opinione pubblica sulla questione delle dimissioni di Blair, sull’opportunità di presentarle di lì a poco o qualche mese prima delle elezioni. Alcuni ministri e altri esponenti della cerchia «blairiana» suggerirono persino che non fosse più necessario che Blair si dimettesse. Questi dibattiti hanno provocato una crisi che ha coinvolto il gruppo dei blairiani, quello dei sostenitori di Gordon Brown e, più in generale, l’intero partito, con conseguenze gravi per la stima di cui esso godeva nel paese.

Probabilmente sono questi gli eventi che spiegano il rapido crollo della reputazione del New Labour. Ma prima ancora di questi fattori bisogna prendere in considerazione altri sviluppi che hanno disorientato il partito, fino a farlo arrivare ad una posizione che mette in dubbio il proprio senso di identità. Un aspetto importante della strategia di Blair è stato quello di occupare tutto il terreno dei conservatori, spingendoli sempre più verso destra nella ricerca di posizioni distintive, ma in effetti costringendoli a posizioni estreme e con pochi simpatizzanti, e lasciando al New Labour la supremazia a sinistra, al centro e anche, in parte, sul centrodestra. Il sistema elettorale britannico, che favorisce i grandi partiti e punisce i piccoli, rende possibile questa strategia, poiché i «blairiani » potevano dare assolutamente per scontato il sostegno del tradizionale elettorato laburista, il quale non aveva alternative: doveva sostenere il Labour benché questo seguisse politiche sempre più di destra nel campo del welfare, della regolamentazione del mercato del lavoro, della ridistribuzione dei redditi, e nei suoi legami con le politiche neoconservatrici del governo statunitense di George Bush.

Ciò ha permesso ai conservatori di individuare la strategia che Blair aveva lasciato loro: muoversi verso sinistra!

Il nuovo leader del Partito Conservatore, David Cameron, sta provando a posizionare il suo partito a sinistra del New Labour per quanto riguarda le politiche sociali, la politica fiscale, la definizione del ruolo del settore privato nei servizi pubblici, i rapporti con gli americani. Solo sulle questioni europee i conservatori hanno mantenuto la loro posizione thatcheriana. Blair, come Margaret Thatcher, ha dovuto compiere una scelta per il Regno Unito tra gli Stati Uniti e l’Europa, e come la Thatcher, e nonostante il suo europeismo iniziale, ha infine mostrato la sua chiara preferenza per gli americani. Oggi sembrerebbe che i seguaci di Cameron abbiano intuito che gli inglesi non si sentono né sostenitori dei rapporti con gli Stati Uniti, né europeisti, bensì nazionalisti.

Non si può dire con certezza se Cameron sarà in grado di rendere convincente la sua manovra verso sinistra, una strategia tanto coraggiosa quanto strana. Dopo anni di spostamenti sempre più a destra, i membri del suo partito riusciranno ad accettare un movimento di questo tipo? È certamente una strategia elaborata alla luce della teoria della scelta razionale: «Il New Labour ha lasciato grandi spazi vuoti alla sua sinistra, che devono essere occupati. Bisogna conquistarne il voto!» Ma i partiti non sono soggetti totalmente razionali, nel senso che il loro obiettivo è vincere «a tutti costi», cioè anche a costo di rinunciare ai loro tratti fondamentali. Stanno emergendo tensioni tra Cameron e il suo entourage, che cerca di conquistare il governo e gli iscritti al partito che non mirano alla conquista del potere ma alla difesa di certi interessi e valori. Gli spostamenti verso destra, che Blair presentò ai laburisti, furono introdotti gradualmente, nel corso di un decennio, e in un contesto di vittorie elettorali senza precedenti. Anche questo processo ha contribuito alla perdita di identità dei laburisti. A questo proposito è necessario che Cameron faccia la stessa cosa in due, tre anni e al di fuori del governo. Quanto alla crisi di identità tra gli iscritti del New Labour – il cui numero sta rapidamente diminuendo – questa può essere capita meglio considerando le politiche introdotte per riformare il welfare che, come precedentemente accennato, costituisce il settore di intervento più problematico e che sta disorientando il partito. In particolare vanno considerati due aspetti.

In primo luogo, sono state formulate politiche che introducono la concorrenza nel campo dei servizi pubblici, garantendo agli utenti la possibilità di scegliere fra più alternative – per esempio, la possibilità per chi ha bisogno di un intervento di optare fra più ospedali. Questo fatto può essere scontato in Italia o nei paesi nordici. In linea di principio è difficile capire per quale ragione elementi dei sindacati e gruppi di sinistra si oppongano a queste politiche, salvo che questa opposizione non venga proprio da chi offre questi servizi, ma non sia interessato a soddisfare i bisogni dei clienti. Ma ci sono anche altri aspetti da considerare.

Il governo ha scelto spesso modi strani per realizzare un concorso. Per indirizzare gli utenti, il governo produce «elenchi delle performance», per esempio dei chirurghi, per aiutare nella scelta di un ospedale, o elenchi dei risultati degli studenti negli esami per aiutare nella scelta di una scuola. L’uso di indicatori di questo tipo può avere un effetto distorto in un duplice senso. Non è possibile realizzare degli indicatori che prendano in considerazione tutti gli aspetti dell’attività di un servizio pubblico. Ne consegue che chi gestisce un servizio è incentivato a concentrare i suoi sforzi su quegli elementi che vengono misurati, e a ignorare tutti altri. Anche i lavoratori sono in questo modo incoraggiati a trascurare casi difficili (pazienti in condizioni disperate, o ragazzi che difficilmente riuscirebbero a completare con profitto la carriera scolastica). Il governo sta cercando di impedire che si giunga a queste conseguenze, formulando regole e obiettivi sempre più elaborati, che però rischiano di complicare troppo il sistema. Quest’ultimo però è un problema esclusivamente tecnico; politicamente prevale invece il cinismo che induce a ridurre il concetto di servizio pubblico a un «gioco degli indicatori». Condividono questo cinismo sia i lavoratori che gli utenti, che alimentando il clima di sospetti sul governo originariamente provocato, soprattutto, dalle bugie sull’Iraq.

Un aspetto di questo approccio del New Labour verso il settore dei servizi pubblici è rappresentato dal sospetto che tutti coloro i quali non lavorano nel mercato privato, non siano incentivati a lavorare con impegno e dedizione. Anche l’idea stessa di professionalità è messa in discussione. Benché l’opinione pubblica abbia meno stima della classe politica che dei lavoratori del servizio pubblico, il governo promette di cambiare il modo di lavorare nel pubblico sostituendo l’etica professionale con la liberalizzazione. Ma per realizzare questo progetto il governo deve continuare a criticare e svilire i servizi pubblici, anche se da un decennio questi stessi servizi sono gestiti proprio dal New Labour. Tutto questo rafforza il clima di cinismo che circonda la politica.

In secondo luogo, il governo laburista ha sviluppato una certa forma di privatizzazione del welfare che assicura che i servizi siano finanziati e distribuiti secondo i principi socialdemocratici, ma usando il settore privato. Giungere a questo compromesso ha avuto dei costi. Non si tratta di un semplice caso di liberalizzazione: le ditte private che offrono prestazioni nel campo della formazione, della salute, o in qualche altro settore, non forniscono servizi diretti al pubblico secondo le normali regole del mercato. Questo rovinerebbe infatti totalmente l’idea centrale del welfare State socialdemocratico: la prestazione di servizi a tutti sulla base della cittadinanza, a prescindere dalla disponibilità economica degli utenti. Il governo compra i servizi dalle imprese che li forniscono e li assicura alla popolazione o gratuitamente, o in cambio di un contributo che non rappresenta, tuttavia, il prezzo di mercato.

Questo processo risolve il problema centrale della liberalizzazione dei servizi nel contesto di un welfare State redistributivo e socialdemocratico. Ma crea allo stesso tempo un altro genere di problemi. Chi usa i servizi forniti dalle imprese private non diviene loro cliente; le imprese hanno un solo cliente: il governo, o tutt’al più un’amministrazione locale. E sono poche le ditte che sottoscrivono questo genere di contratti con il governo. Normalmente sono ditte specializzate in contratti pubblici di vario tipo. Questo spiega, per esempio, perché tra le imprese che offrono servizi nel campo della formazione per l’infanzia si trovano anche aziende che operano soprattutto nel settore edilizio. Benché i due settori, formazione ed edilizia, siano fra loro molto diversi, entrambi possono trarre vantaggio dai contratti pubblici se capiscono come lavorare con il governo. Questo sistema determina la formazione di legami molto particolari tra clienti pubblici monopsonistici e ditte private oligopolistiche. Queste ultime si inseriscono come insider nei processi di governo. Divengono attive in molti aspetti della vita politica, fornendo consulenti, assecondando impiegati ai ministeri, e donando fondi ai partiti. Capita, per esempio, che impiegati di certe imprese del settore privato della salute lavorino come funzionari presso il ministero della sanità. E le imprese consulenti, che forniscono anche servizi diretti, possono raccomandare ai ministeri l’acquisto di quegli stessi servizi alla fine del processo di consultazione.

La ragione che induce il governo ad agire in questo modo deriva dalla convinzione che il settore privato sappia come operare in maniera molto più efficiente di quello pubblico, perché le imprese private agiscono in un mondo sempre più competitivo. Il governo crede anche che le barriere, che storicamente separavano funzionari pubblici e imprese private, impedissero al settore pubblico di apprendere dal privato. Benché questa opinione sia fondata, il modo con il quale il governo ha risposto al problema ne ha creato di nuovi. Sembra che esista un circolo privilegiato di imprese, consulenti, membri del governo e impiegati, che sta trasformandosi in una nuova classe politica. Inoltre, eliminando certe chiare distinzioni tra pubblico e privato, si rischia di infrangere anche quelle barriere che sono essenziali per far funzionare un mercato veramente libero. Questa situazione, benché avvertita solo indirettamente dall’opinione pubblica, ha rafforzato ancora più i dubbi che circondano il New Labour. Visto che il partito è stato eletto inizialmente soprattutto perché sembrava avere le «mani pulite», dubbi di questo tipo sono particolarmente pericolosi.

Il periodo di formazione della generazione fondatrice del New Labour fu l’inizio degli Ottanta, quando sembrò che l’opinione pubblica britannica avesse respinto un idealismo di sinistra (ormai esaurito) a favore del cinico egoismo della destra thatcheriana. Questa generazione finì bruciata da questa esperienza. E alla fine fu il suo stesso cinismo a far affondare il governo conservatore in un torrente di scandali. Il New Labour arrivò al governo come una forza fresca, persino «innocente». Ma le «ceneri» degli anni Ottanta sono rimaste, così come l’immagine cinica della società lasciata dai conservatori. Con gli anni, naturalmente, «l’innocenza» dei giorni iniziali del governo New Labour è stata persa; il cinismo, invece, è rimasto ed è sempre più evidente.

Il governo vede chiaramente certi aspetti di questo problema. Si parla del bisogno di «rinnovamento»; si capisce che, dopo un decennio al potere, è inevitabile che il governo perda «freschezza». C’è una nuova generazione di giovani uomini e donne del New Labour che è pronta a realizzare questo rinnovamento. Ma il problema si snoda su due livelli. Da una parte c’è la necessità di rinnovarsi a causa del passare del tempo e delle cicatrici delle vecchie battaglie. Dall’altra parte, però, serve anche un rinnovamento «morale», una revisione dell’eredità thatcheriana degli anni Ottanta. Questo vuol dire che il New Labour deve ripensare certi elementi fondamentali: il fascino del potere, che l’ha condotto verso l’attaccamento alla nuova politica della destra statunitense; le manovre verso destra, che hanno aperto spazi tanto grandi a sinistra, da indurre persino i conservatori a rispondere con maggiore sensibilità alle nuove preoccupazioni dell’opinione pubblica; il modo in cui, cercando di apprendere dal settore privato, il New Labour ha minacciato l’esistenza di quelle importanti barriere che devono separare il settore pubblico dalle imprese private. Sono i nuovi laburisti pronti per un rinnovamento tanto profondo?