La crescita come strumento di sviluppo e non fine in sé

Di Jean Dreze e Amartya Sen Lunedì 16 Gennaio 2012 12:31 Stampa

La rapida crescita che caratterizza già da tempo il continente indiano non ha portato a un significativo miglioramento delle condizioni di vita della popolazione; i tassi di mortalità infantile sono ancora molto alti e milioni di persone vivono in condizioni di estrema povertà. Per superare questa contraddizione l’India ha bisogno di un maggiore coinvolgimento democratico, al di là degli interessi di media e imprese.


L’India si trova in condizioni ottime o in uno stato di spaventoso fallimento? A seconda delle persone con cui si parla, le risposte cambiano, spesso considerevolmente. Un’interpretazione molto popolare tra una minoranza abbastanza consistente di indiani molto agiati e tra i media che si rivolgono in gran parte a loro dice più o meno così: «Dopo decenni di mediocrità e di stagnazione sotto il “socialismo alla Nehru”, negli ultimi vent’anni l’economia indiana ha visto uno spettacolare decollo. Tale decollo, che ha prodotto progressi senza precedenti del reddito pro capite, è stato provocato in gran parte da iniziative di mercato e comporta un notevole aumento delle disparità, ma si tratta di un fenomeno normale nei periodi di grande crescita. Con l’andare del tempo i benefici di una rapida crescita economica arriveranno senz’altro ai più poveri e noi ci siamo decisamente avviati in questa direzione». Malgrado la confusione concettuale che emerge dall’attribuire il termine “socialismo” a un insieme di iniziative politiche stataliste (fatto di autorizzazioni burocratiche, che non si assumeva responsabilità pubbliche per la scuola e la sanità), questa interpretazione è piuttosto plausibile, all’interno di un contesto limitato.

Ma se guardiamo all’India contemporanea da una prospettiva differente possiamo raccontare una verità diversa – più critica e negativa: «Il progresso dei livelli di vita della gente comune rispetto a una minoranza privilegiata è stato terribilmente lento, lento al punto che gli indicatori sociali dell’India sono tuttora pessimi». Ad esempio, secondo i dati della Banca mondiale, ad avere un tasso di alfabetizzazione femminile più basso di quello indiano sono solo cinque paesi non africani (Afghanistan, Bhutan, Pakistan, Papua Nuova Guinea e Yemen).1 Per fare qualche altro esempio, solo quattro paesi (Afghanistan, Cambogia, Haiti, Myanmar e Pakistan) hanno un indice di mortalità infantile peggiore di quello indiano; nessuno (in tutto il mondo, nemmeno in Africa) ha una percentuale maggiore di bambini sottoalimentati. Quasi tutti gli indici composti di questi e di altri indicatori relativi a salute, istruzione e alimentazione vedrebbero l’India vicinissima agli ultimi posti nella classifica di tutti i paesi, Africa esclusa.


Crescita e sviluppo

Allora, quale delle due interpretazioni – successo senza precedenti o colossale fallimento – è quella vera? La risposta è tutte e due: sono entrambe valide e del tutto compatibili tra loro. La cosa, all’inizio, può sembrare strana, ma quel dubbio iniziale dimostrerebbe solo l’incapacità di capire le esigenze di sviluppo che vanno ben al di là della crescita economica. In realtà la crescita non è costitutivamente la stessa cosa dello sviluppo, nel senso di un miglioramento complessivo degli standard di vita e di una estensione del benessere e della libertà delle persone. Certo, può essere di grande aiuto per attuare lo sviluppo, ma sono necessarie attive politiche pubbliche per fare sì che i suoi frutti siano distribuiti ampiamente, ed è anche necessario (ed è molto importante) fare un buon uso delle entrate pubbliche generate da una rapida crescita per migliorare i servizi sociali, soprattutto sanità e scuola pubbliche.

Nel nostro libro del 1989, “Hunger and Public Action”,2 avevamo definito questo processo “sviluppo mediato dalla crescita”. Questa può essere davvero una strada efficace per un aspetto importantissimo dello sviluppo, ma dobbiamo chiarire bene che cosa sia possibile ottenere con una rapida crescita economica e che cosa quest’ultima non è in grado di fare senza un’appropriata integrazione sociale. Una crescita economica sostenibile può essere un’enorme forza capace non solo di aumentare i redditi ma anche di elevare il livello e la qualità della vita delle persone; inoltre può operare con efficacia per favorire il raggiungimento di molti altri obiettivi, ad esempio la riduzione di deficit e carico del debito pubblico. Tali sue implicazioni meritano di essere prese in considerazione non solo in Asia, Africa e America Latina, ma sicuramente anche nell’Europa di oggi, in cui vi è scarsa comprensione del ruolo che la crescita potrebbe avere nella risoluzione dei problemi legati all’eccesso di debito e al deficit. Si tende invece a puntare esclusivamente su drastiche politiche restrittive, a ridurre la spesa pubblica senza considerare quanto essa sia essenziale, senza pensare come tali interventi uccidano la gallina dalle uova d’oro della crescita. Nel dibattito europeo c’è una scarsa attenzione per il ruolo della crescita nella stabilità economica e finanziaria, e si punta solo a tagliare la spesa pubblica per soddisfare il mercato e rispondere ai dettami delle agenzie di rating del credito.

Eppure è anche importante ammettere che l’incidenza della crescita economica sugli standard di vita dipende in modo cruciale dal carattere del processo di crescita (ad esempio dalla sua composizione settoriale e dall’intensità dell’occupazione) come da quello delle politiche pubbliche – soprattutto riguardo all’istruzione primaria e alla sanità – che consentono alla gente comune di condividerlo. In India poi c’è un urgente bisogno di prestare maggiore attenzione agli aspetti distruttivi della crescita (come la deforestazione, l’estrazione mineraria indiscriminata, lo svuotamento delle falde acquifere, il prosciugamento dei fiumi, il massacro di animali) e all’espulsione involontaria di intere comunità – in particolare degli adivasi –, profondamente radicate in un ecosistema particolare.

I risultati di crescita dell’India sono davvero molto notevoli. Secondo i dati ufficiali, il reddito pro capite è aumentato a un tasso composto prossimo al 5% annuo in termini reali tra il 1990-91 e il 2009-10. I tassi di espansione più recenti sono ancora più rapidi: secondo le stime della Planning Commission del governo federale indiano, il tasso di crescita del PIL è stato del 7,8% nel periodo del Decimo Piano (2002-03/2006- 07) e probabilmente sarà intorno all’8% nell’Undicesimo Piano (2007- 08/2011-12). La “stima di previsione” per il 2010-11 è dell’8,6%. Si tratta indubbiamente di percentuali di crescita eccezionali, le seconde al mondo, dopo quelle della Cina. È comprensibile che cifre del genere provochino una certa emozione, e sono state addirittura definite “numeri magici” da una personalità come Lord Meghnad Desai, che ha sostenuto, non senza una certa ironia, che qualsiasi cosa accada «il governo può ancora mettersi comodo e dichiarare: 8,6%».

Per l’India è necessaria una rapida crescita economica, se non altro per il fatto che i redditi medi sono talmente bassi da non poter garantire qualcosa che assomigli a livelli di vita ragionevoli, nemmeno con un’estesa ridistribuzione dei redditi stessi. Ancora oggi, in realtà, dopo vent’anni di rapida crescita, l’India rimane uno dei paesi più poveri al mondo, un fatto che spesso viene perso di vista, soprattutto da parte di chi può godere di livelli di vita di prima classe grazie alle disparità nella distribuzione dei redditi. Secondo il “World Development Indicators 2011”, solo sedici paesi non africani avevano un reddito interno lordo pro capite più basso di quello indiano: Afghanistan, Bangladesh, Cambogia, Haiti, Iraq, Kirghizistan, Laos, Moldavia, Nepal, Nicaragua, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Tajikistan, Uzbekistan, Vietnam e Yemen. Non si tratta esattamente di un club di superpotenze.

Ciò detto, sarebbe un errore “mettersi comodi” e affidarsi alla sola crescita economica se si vogliono trasformare le condizioni di vita dei meno privilegiati. Accanto alla nostra discussione sullo “sviluppo mediato dalla crescita”, in un libro precedente richiamavamo l’attenzione sulle insidie di una “opulenza priva di scopo”: il perseguimento indiscriminato di un’espansione economica senza badare alla sua distribuzione e agli effetti sull’esistenza delle persone. Un buon esempio all’epoca (verso la fine degli anni Ottanta) era dato dal Brasile, dove una crescita rapida procedeva di pari passo con il permanere di un massiccio immiserimento. Contrapponendo questo modello di crescita a quello più equilibrato della Corea del Sud, scrivevamo: «L’India si trova in una situazione di un certo rischio, seguendo la via del Brasile e non quella della Corea del Sud».

L’esperienza recente convalida questa preoccupazione. È interessante osservare come ultimamente il Brasile abbia cambiato rotta e adottato politiche sociali di gran lunga più attive, quali la garanzia costituzionale di un’assistenza sanitaria gratuita per tutti e programmi coraggiosi di sicurezza sociale e di ridistribuzione economica (ad esempio con la Bolsa Familia). È questa una delle ragioni per cui il Brasile oggi è in un’eccellente situazione, con una mortalità infantile del 9 per mille (rispetto al 48 dell’India), il 99% di alfabetizzazione tra le donne nella fascia quindici-ventiquattro anni (74% in India) e solo il 2,2% dei bambini sotto i cinque anni sottoalimentati (a fronte di un impressionante 44% in India). Se da un lato l’India ha molto da imparare dalle esperienze di “sviluppo mediato dalla crescita” di altri paesi del mondo, dall’altro deve evitare di favorire un’opulenza priva di obiettivi, soluzione inaffidabile e dispendiosa per migliorare il livello di vita dei poveri.


Il declino dell’India nell’Asia meridionale

Un’indicazione non del tutto esatta (rispetto alla strategia per lo sviluppo dell’India) è quella per cui l’India ha cominciato ad arretrare rispetto a tutti gli altri paesi dell’Asia meridionale (con la parziale eccezione del Pakistan) in termini di indicatori sociali, pur avanzando bene in quanto a reddito pro capite (si veda la Tabella 1).

Il confronto con il Bangladesh è un buon punto di partenza. Negli ultimi due decenni l’India è cresciuta molto di più del Bangladesh in termini di ricchezza complessiva: si stima che il reddito pro capite fosse del 60% più alto nel 1990 e del 98% nel 2010. Ma nello stesso periodo il Bangladesh ha superato l’India in un’ampia gamma di indicatori sociali essenziali: aspettativa di vita, sopravvivenza alla nascita, tassi di fertilità, tassi di vaccinazione e perfino alcuni (non tutti) indicatori di scolarizzazione, come quello della media di anni di frequenza scolastica. Si è stimato, ad esempio, che l’aspettativa di vita fosse di quattro anni più lunga in India nel 1990, mentre si è ridotta di tre anni rispetto al Bangladesh nel 2008. Analogamente, la mortalità infantile era, secondo le stime, di circa il 24% superiore in Bangladesh nel 1990, ma nel 2009 era del 24% più bassa rispetto all’India. Gran parte degli indicatori sociali ora si presentano molto migliori in Bangladesh, sebbene esso abbia appena la metà del reddito pro capite indiano.

Non meno interessante è osservare come anche il Nepal sembri raggiungere rapidamente l’India e addirittura superarla per certi aspetti. Intorno al 1990 il Nepal era molto indietro rispetto all’India in quasi tutti gli indicatori di sviluppo. Oggi gli indicatori sociali più o meno coincidono (in certi casi sono ancora migliori per l’India, in altri è vero il contrario) nonostante il fatto che il reddito pro capite indiano sia circa tre volte più alto di quello nepalese.

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Per osservare la stessa questione da un’altra angolazione, la Tabella 2 indica la posizione in classifica dell’India tra i sei principali paesi dell’Asia meridionale (escluse le piccole Maldive) verso il 1990 e oggi (più esattamente nell’ultimo anno per il quale esistono dati internazionali comparabili). Come c’era da aspettarsi, in termini di reddito pro capite, la posizione dell’India è salita dal quarto posto (dopo Bhutan, Pakistan e Sri Lanka) al terzo (dopo Bhutan e Sri Lanka), ma per molti altri aspetti è in realtà peggiorata, spesso nettamente. Nel complesso, nel 1990 l’India aveva i migliori indicatori sociali dell’Asia meridionale, accanto allo Sri Lanka, ma ora si colloca al penultimo posto, davanti solo al Pakistan. Guardando ai propri vicini, i poveri dell’India hanno motivo di chiedersi che cosa abbiano guadagnato (almeno finora) dall’accelerazione della crescita economica.


India e Cina

Uno degli elementi che assicura il successo di uno “sviluppo mediato dalla crescita” è l’abile sfruttamento delle opportunità offerte da maggiori entrate pubbliche. In questo senso ci sono differenze interessanti e importanti tra le politiche scelte da vari paesi. Dato che i fautori di una politica che punta univocamente sulla crescita economica citano spesso la Cina, è interessante mettere a confronto l’operato di Pechino con ciò che ha fatto finora l’India. La Cina sfrutta molto meglio le opportunità offerte da un’elevata crescita per espandere le risorse pubbliche ai fini dello sviluppo. Ad esempio, la spesa pubblica per l’assistenza sanitaria in Cina è quasi quattro volte più alta che in India (dopo l’adeguamento a “parità del potere di acquisto” – altrimenti lo scarto sarebbe anche maggiore). Certo, la Cina ha una popolazione più numerosa e un reddito pro capite maggiore, ma anche come percentuale del PIL la spesa pubblica per la sanità (circa il 2,3%) supera quella dell’India (circa 1,4%). Come evidenzia la Tabella 1, la Cina presenta valori molto più alti in gran parte degli indicatori dei livelli di vita, come per l’aspettativa di vita (settantatré anni in Cina, sessantaquattro in India), la mortalità infantile (16 per mille in Cina, 48 per mille in India), la media degli anni di frequenza scolastica (stimata di 7,6 anni in Cina, a fronte di soli 4,4 anni in India), o la copertura delle vaccinazioni (molto vicina al 100% in Cina e solo di circa due terzi in India per il vaccino difterite-pertosse-tetano e per quello antimorbillo). Mentre l’India ha quasi raggiunto il livello cinese nel tasso di crescita economica, appare molto indietro nell’utilizzo delle risorse pubbliche per il sostegno sociale e, analogamente, non ha operato altrettanto bene nel tradurre la crescita in un rapido progresso degli indicatori sociali. Anche se ci sono indubbiamente altri fattori alla base del contrasto tra Cina e India, il diverso impiego dei frutti della crescita a sostegno del sociale sembra avere una notevole influenza in questo quadro contraddittorio. Non abbiamo affatto l’intenzione di sostenere che l’India debba prendere esempio dalla Cina sotto ogni punto di vista. L’India ha varie ragioni per apprezzare le proprie istituzioni democratiche che, pur con tutti i loro limiti, permettono di dare ascolto a varie voci e facilitano la partecipazione (in varie forme) al governo della cosa pubblica. Certo, ci sono numerose carenze nella democrazia indiana (e le abbiamo discusse nei nostri scritti), ma ci sono anche grandi conquiste e i limiti ancora presenti possono essere rimossi grazie alle battaglie democratiche. In Cina ci sono più esecuzioni ufficiali in una settimana di quante ce ne sono state in India dall’Indipendenza ad oggi (e ciò è vero per un numero impressionante di settimane ogni anno); dunque questo confronto, come molti altri che riguardano i diritti civili e umani, non è a svantaggio dell’India. Se c’è qualcosa da imparare dalla Cina, soprattutto circa l’ampia ripartizione dei frutti della crescita, la questione è apprendere ciò che merita di essere appreso evitando di scimmiottare ciecamente.

Il contrasto tra Cina e India, tuttavia, richiama un’altra questione: è possibile che il sistema democratico indiano sia un ostacolo all’impiego dei frutti della crescita per migliorare la sanità, l’istruzione e altri aspetti dello “sviluppo sociale”? Quando si solleva questo interrogativo è possibile che prevalga un senso di nostalgia. Quando l’India aveva un tasso bassissimo di crescita, un argomento comune avanzato dai critici della democrazia era che questa fosse un ostacolo allo sviluppo economico. All’epoca era difficile convincere costoro che la crescita dipende da un clima economico favorevole e non dalla durezza del sistema politico. Quel dibattito su un’ipotetica contraddizione tra crescita e democrazia si è ormai concluso (anche grazie ai tassi di crescita elevati dell’India democratica), ma ora sembra riproporsi un analogo scetticismo, suggerito da una presunta incapacità dei sistemi democratici di favorire sanità e istruzione pubbliche e altri interventi a sostegno del sociale.

In questo contesto è importante comprendere come emergano le scelte democratiche e come vengano adottate certe politiche. I risultati di un sistema democratico dipendono in gran parte dalle tematiche che sono prese in carico dalle forze politiche, il che contribuisce al loro avanzamento. Alcuni temi sono affrontati agevolmente dalla politica, come nel caso della calamità di una carestia, e ne consegue che le carestie cessano di colpo con l’affermarsi di un sistema democratico. Ma altri temi, meno spettacolari e meno immediati, presentano difficoltà molto più serie. Il ricorso a metodi democratici per rimediare a un’assistenza sanitaria non all’altezza, a problemi non esasperati di sottoalimentazione, a opportunità inadeguate per l’istruzione esige maggiore energia e impegno.

I sistemi autoritari possono cambiare linea politica molto rapidamente, quando lo vogliono i capi, e va dato atto ai leader politici cinesi di aver puntato molto sugli interventi sociali nella scuola, nella sanità e in altri meccanismi di supporto, per migliorare la qualità della vita del loro popolo. Ma l’autoritarismo, ovviamente, non garantisce l’emergere di impegni sociali (come è evidente nella Corea del Nord e in Birmania) o che tali impegni siano stabili e non labili (anche in Cina ci sono state in passato variazioni nette, come la peggiore carestia del mondo in seguito al fallimento del Grande balzo in avanti).

Anche nell’impegno per un’assistenza sanitaria pubblica su grande scala la Cina ha visto alti e bassi ed è stata vicina a farla sparire: la copertura fornita dal sistema sanitario alle cooperative rurali è crollata dal 90 al 10% tra il 1976 e il 1983 (quando si avviarono le riforme orientate al mercato) ed è rimasta al 10% per ben vent’anni. Durante questo periodo di abdicazione delle responsabilità dello Stato nell’assistenza sanitaria, c’è stato un deciso rallentamento degli indicatori sanitari (ad esempio dell’aspettativa di vita e della sopravvivenza infantile). Questo alla fine ha portato a una decisa svolta verso il 2004-05, quando si è ricostruito il sistema sanitario delle cooperative rurali con una copertura che nel giro di tre anni è risalita a circa il 90%. 3

In realtà in India non esistono veri e propri impedimenti al coniugare una pratica di governo democratica e pluripartitica con un attivo intervento sociale. Quello che però servirebbe è un impegno molto maggiore rispetto alle esigenze centrali di giustizia e di sviluppo attraverso una pratica democratica più vigorosa. Lo sviluppo dello Stato sociale in Europa ha molti esempi da offrire in questo senso. Come spesso accade, il dibattito democratico è assai vivace in India, ma la portata del coinvolgimento è stata frequentemente alquanto limitata. Il confronto India-Cina tende a concentrarsi perlopiù sui rispettivi tassi di crescita complessivi e non sulle iniziative atte a mediare lo sviluppo. Sotteso a tale limitatezza del dialogo c’è un dato contesto sociale. Una parte della popolazione indiana (una minoranza alquanto ridotta, certo, ma piuttosto ampia in cifre assolute) si trova davvero in ottime condizioni, grazie al solo processo di forte crescita: si tratta di persone che non dipendono da una mediazione sociale. Di converso una mediazione più energica sarebbe molto importante per altri cittadini indiani – molti di più, in effetti – sulla cui esistenza incidono cattive condizioni di salute, sottoalimentazione, mancanza di assistenza sanitaria e altre carenze.


Squilibri di potere, vecchi e nuovi

La scarsa attenzione all’istruzione elementare, alla sanità, all’assistenza sociale e alle questioni a queste connesse nella pianificazione in India, si inserisce in un quadro generale di diffusi squilibri di potere in campo politico ed economico, che porta a trascurare decisamente gli interessi dei meno privilegiati. Ecco allora spiegati la mancanza di politiche per lo sviluppo agricolo e rurale, lo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente a fini privati, con enormi perdite sociali, lo spostamento su larga scala di comunità rurali senza un adeguato compenso e la strana tolleranza verso le violazioni dei diritti umani, quando le vittime sono tra i diseredati della società.

Non si tratta di fatti del tutto nuovi: in molti casi rispecchiano le antiche disuguaglianze di classe, di casta e di sesso presenti da tempo immemorabile. Ad esempio, il fatto che nemmeno uno dei trecentoquindici editori e degli altri esponenti di punta dei media (carta stampata ed elettronici) rilevati di recente a Delhi dal Centre for the Study of Developing Societies appartenga a una casta o una tribù registrata e che, d’altro canto, il 90% di questi faccia parte di una ristretta consorteria di caste superiori che rappresenta solo il 16% della popolazione, non aiuta a garantire che gli interessi dei dalit e degli adivasi siano rappresentati adeguatamente nei dibattiti pubblici.4 E la Lok Sabha, la camera bassa del Parlamento indiano, dove dominano i maschi e il numero delle donne presenti non ha mai superato il 10%, non è certo molto qualificata per dare voce agli interessi delle donne e nemmeno per affrontare le questioni sociali che più le riguardano. Analoghe le considerazioni riguardo alle disparità tra città e campagna: uno studio recente ha riscontrato come i problemi delle campagne trovano solo il 2% di spazio sui quotidiani nazionali.

Alcune di queste disparità si vanno riducendo ed è più facile per i gruppi svantaggiati esprimere la propria voce nel sistema (anche la presenza delle donne nella camera bassa, pur essendo enormemente limitata, è tre volte maggiore rispetto a cinquant’anni fa). Tuttavia altre disparità, nuove o emergenti, alimentano il circolo vizioso della miseria e della mancanza di potere. Negli ultimi vent’anni, ad esempio, si è assistito a un colossale aumento del potere delle imprese private, una forza che è in gran parte generata (con poche lodevoli eccezioni) da un’illimitata sete di profitto. L’influenza crescente degli interessi delle imprese private sulla politica pubblica e sulle istituzioni democratiche non facilita un riorientamento delle priorità politiche verso i bisogni dei meno privilegiati. È importante riconoscere l’influenza di elementi del settore privato nell’equilibrio delle politiche pubbliche, ma sarebbe sbagliato considerare questo fenomeno come una sorta di irresistibile forza naturale. Il sistema democratico dell’India offre mezzi e strumenti per resistere a nuove distorsioni che possono derivare dalla pressione delle aziende. Un esempio istruttivo (tanto di un tentativo scoperto di spogliare un servizio pubblico ben consolidato quanto della possibilità di sconfiggere un tentativo del genere) è offerto dalla lunga saga delle manovre per mettere le mani sul programma per le mense scolastiche da parte di aziende produttrici di biscotti. Il programma Pasti di mezzogiorno, che fornisce piatti caldi cucinati da donne del posto a circa centoventi milioni di bambini e ha effetti sostanziali sia sull’alimentazione sia sulla frequenza scolastica, è da molti anni oggetto del desiderio di numerose aziende alimentari, soprattutto produttrici di biscotti.

Qualche anno fa un’associazione di fabbricanti di biscotti (Biscuit Manufacturers’ Association, BMA) aveva lanciato una campagna in grande stile per sostituire i pasti caldi a scuola con pacchetti di biscotti di marca. La BMA scrisse a tutti i membri del Parlamento chiedendo loro di perorare la causa dei biscotti presso il ministro interessato, assistendoli in questo compito con un compendio pseudoscientifico che magnificava i pregi dei biscotti confezionati. Decine di parlamentari di quasi tutti i partiti si misero subito a disposizione, scrivendo al ministro e rimasticando le affermazioni fasulle della BMA. Secondo quanto riferì un importante funzionario, il ministro fu “sommerso” dalle lettere, ventinove delle quali furono rese poi pubbliche in base al Right to Information Act. Per fortuna, la proposta fu fermamente cassata dal ministero, dopo essere stata sottoposta ai governi dei singoli Stati e a esperti dell’alimentazione, e la vigilanza pubblica portò alla luce tutta la vicenda. Il ministro, infatti, scrisse al collega che simpatizzava con la lobby dei biscotti: «Siamo sbigottiti davanti alle crescenti richieste di introduzione di alimenti precotti che provengono in gran parte da produttori di alimenti confezionati e che mirano in sostanza a penetrare nel mercato con tali prodotti per poi espandersi».5 Lo scontro più forte è ancora in corso. La BMA non ha rinunciato nemmeno dopo avere ricevuto una censura da parte del ministero per lo Sviluppo delle risorse umane dell’Unione, e si è rivolta a un altro ministero, quello per lo Sviluppo delle donne e dell’infanzia, con una proposta analoga, per fornire biscotti ai piccoli con meno di sei anni tramite gli Integrated Child Development Services (ICDS). Al tentativo hanno partecipato anche altre industrie alimentari e, malgrado la tanta vigilanza e la strenua resistenza da parte degli attivisti (e della Corte Suprema), sembra che siano riuscite a inserirsi nei programmi di alimentazione per i più piccoli in diversi Stati.

Analoghe preoccupazioni si presentano in altri campi della politica sociale. Ad esempio, è poco probabile che le prospettive di costruzione di un sistema sanitario pubblico siano favorite dalla crescente influenza delle compagnie di assicurazione private, molto attive nel campo della sanità. Il sistema sanitario indiano è già uno dei più privatizzati al mondo, con conseguenze prevedibili: costi elevati, scarsi risultati e profonde disparità. Eppure c’è una forte pressione per far proprio il “modello americano” di erogazione di assistenza sanitaria, nonostante nella comunità sanitaria a livello internazionale se ne riconoscano l’efficienza relativamente scarsa e i costi notevolmente elevati. Fatti recenti, comunque, hanno mostrato la possibilità di contrastare, non solo in termini di vittorie isolate, un’inappropriata ingerenza delle imprese private (come è successo con la lobby dei biscotti) anche con la realizzazione di salvaguardie istituzionali contro gli abusi del potere privato. Il Right to Information Act, ad esempio, se pur non direttamente applicabile alle informazioni detenute dalle imprese private, è un potente mezzo di vigilanza e di limitazione del legame pubblico-privato, come testimonia la vicenda dei biscotti. Norme e leggi che riguardano il finanziamento privato ai partiti politici, la responsabilità sociale delle imprese, gli standard ambientali, i diritti dei lavoratori hanno anch’esse una funzione importante da svolgere per disciplinare il settore delle imprese private.


A favore di un approccio generalizzato

L’esigenza di uno “sviluppo mediato dalla crescita” non è stata del tutto assente nei dibattiti politici in India. Si potrebbe perfino affermare che l’obiettivo ufficiale di una “crescita inclusiva” abbia molti di questi connotati. La retorica della crescita inclusiva, però, è andata a braccetto con politiche elitarie che spesso finiscono per promuovere una società a due corsie, nella quale si creano le strutture migliori (“world-class”) per i privilegiati, mentre chi non lo è riceve un trattamento di livello inferiore, viene lasciato a cavarsela da sé o addirittura è fatto oggetto di una repressione attiva, come succede nei casi di trasferimenti forzati senza compensazione, con un certo aiuto da parte della polizia. Le politiche sociali, per parte loro, restano alquanto restrittive (nonostante qualche iniziativa significativa, conquistata a fatica, come il National Rural Employment Guarantee Act, NREGA), e sono sempre più pilotate verso soluzioni di emergenza, come nel caso delle sovvenzioni in denaro sotto condizione. Spesso la copertura resta limitata alle famiglie “sotto la soglia di povertà”, una categoria strettamente definita che tende a ridursi con l’andare del tempo e con l’aumento del reddito pro capite, il che può anche apparire come un comodo stratagemma per fare in modo che i programmi di assistenza sociale si liquidino da soli.

Sempre di più le sovvenzioni in denaro sono viste come la potenziale pietra angolare della politica sociale, in questo senso spesso basandosi su una lettura distorta dell’esperienza sudamericana. Ci sono certo solidi argomenti a favore delle sovvenzioni in denaro (condizionate o no) in certe circostanze, come ce ne sono di altrettanto buoni per le sovvenzioni materiali (come i pasti nelle mense scolastiche). Il grosso pericolo, però, è l’illusione che le sovvenzioni in denaro (più precisamente quelle condizionate) possano sostituire i servizi pubblici inducendo i beneficiati a comprare servizi sanitari e scolastici da fornitori privati. Il che non è solo difficile da dimostrare sulla scorta di realistiche letture empiriche: è nei fatti del tutto contrario all’esperienza storica di Europa, America, Giappone e Asia orientale nella loro rispettiva trasformazione dei livelli di vita. Inoltre, non è così che funzionano oggi le sovvenzioni in denaro in Brasile, in Messico e in altri casi positivi.

In America Latina fungono di solito da integrazione e non da sostituti dell’erogazione pubblica di servizi sanitari, scolastici e di altra fondamentale natura. Gli incentivi operano per il loro scopo integrativo, perché al primo posto ci sono i servizi pubblici essenziali. In Brasile, ad esempio, i servizi sanitari di base, quali sono le vaccinazioni, l’assistenza prenatale e quella specialistica al parto sono in pratica offerti a tutti. Lo Stato ha svolto il proprio compito: quasi metà della spesa sanitaria in Brasile, a fronte di un quarto scarso (con un totale molto più basso) in India. In questa situazione creare incentivi per assicurare a tutti l’assistenza può essere del tutto sensato. In India, però, mancano in gran parte i servizi essenziali e le sovvenzioni in denaro sotto condizione non colmano il vuoto.

I tranelli di un’assistenza ai soggetti sotto la soglia di povertà sono diventati sempre più evidenti negli ultimi anni. Prima di tutto, non c’è un modo sicuro per individuare le famiglie povere e gli errori per esclusione sono enormi: almeno tre rilevazioni nazionali indicano che, verso il 2004-05, circa la metà delle famiglie povere indiane non disponeva della tessera che le sarebbe spettata. In secondo luogo, la soglia di povertà in India è bassissima, così, anche se la tessera fosse assegnata in modo corretto e infallibile a tutte le famiglie che ne hanno diritto, un gran numero di persone che avrebbero un profondo bisogno di assistenza ne resterebbe escluso. Nel 2009-10, ad esempio, la soglia ufficiale di povertà a Delhi era di circa trenta rupie a persona al giorno, appena sufficienti per comprare un chilo di riso e un biglietto di corsa singola per tre fermate di autobus. In terzo luogo, l’assistenza a chi è sotto la soglia di povertà finisce per dividere e va contro l’unità e la forza delle rivendicazioni che puntano ad avere servizi sociali che funzionino, perché trasforma un diritto alla solidarietà in un privilegio che divide.

La forza di un sistema di politica sociale esteso a tutti è evidente non solo se si osserva l’esperienza internazionale e storica, ma anche quella contemporanea della stessa India. In almeno tre Stati indiani, l’erogazione a tutti di servizi essenziali è ormai una regola accettata. Il Kerala ha una lunga storia di politiche sociali generalizzate, in particolare nel campo dell’istruzione elementare: il principio dell’istruzione universale a carico dello Stato era già un obiettivo esplicito della politica statale a Travancore fin dal 1817. Questa universalizzazione precoce dell’istruzione elementare è una pietra angolare delle ampie conquiste sociali del Kerala.

Meno noti, ma non meno significativi, sono il graduale emergere e il consolidamento di politiche sociali nel Tamil Nadu.6 Il Tamil Nadu fu il primo Stato a introdurre le mense scolastiche per tutti gli scolari delle elementari. Questa iniziativa, molto derisa al tempo in quanto “populista”, è poi diventata un modello per il programma nazionale dei pasti scolastici, oggi ampiamente riconosciuto come “uno dei migliori progetti promossi a livello centrale”. Gli sforzi pionieristici dello Stato nel campo dell’assistenza alla prima infanzia in base all’ICDS hanno portato alla realizzazione di anganwadis (centri per l’infanzia), accessibili a tutti, in ogni dimora. Il Tamil Nadu, a differenza della maggioranza degli altri Stati, ha anche una vasta rete di centri sanitari attivi ed efficienti, dove i pazienti di ogni ceto sociale possono ricevere cure ragionevolmente buone e gratuite. Nel Tamil Nadu funziona bene anche il NREGA, un altro esempio di programma sociale rivolto a tutti: i livelli di occupazione sono elevati (con circa l’80% del lavoro che va alle donne), i salari sono in genere pagati puntualmente e le dispersioni sono relativamente scarse. Infine, fatto non meno importante, il Tamil Nadu ha un sistema pubblico di distribuzione per tutti, nelle aree rurali come in quelle urbane: fornisce non solo cereali per uso alimentare, ma anche olio, legumi e altri alimenti, con sorprendente regolarità e con minimi sprechi.

L’Himachal Pradesh ha cominciato il suo viaggio molto dopo rispetto a Kerala e Tamil Nadu, ma sta guadagnando terreno rapidamente. Lo si vede soprattutto nel campo dell’istruzione elementare: partendo da livelli di alfabetizzazione non lontani dalle cifre deludenti del Bihar o dell’Uttar Pradesh, all’epoca dell’Indipendenza, in pochi decenni ha raggiunto il livello del Kerala, lo Stato più efficiente in questo campo. Tale “rivoluzione scolastica” si è basata quasi interamente su una politica che offriva a tutti la frequenza nelle scuole pubbliche e ancora oggi l’istruzione elementare nell’Himachal Pradesh è assicurata in modo predominante dal settore pubblico. Come il Tamil Nadu, l’Himachal Pradesh ha un sistema di distribuzione che funziona bene e che fornisce non solo cereali, ma anche legumi e olio a famiglie sia BPL (Below Poverty Line – sotto la soglia di povertà) sia APL (Above Poverty Line – sopra la soglia di povertà). L’Himachal Pradesh ha inoltre seguito principi generali non solo nell’erogazione di servizi sociali essenziali (strutture scolastiche, sanità e assistenza all’infanzia), ma anche nella realizzazione di strutture di base: scuole, centrali elettriche, acquedotti e trasporti pubblici. Ad esempio, nonostante una topografia sfavorevole e il carattere sparso degli insediamenti, il 98% delle famiglie aveva l’elettricità nel 2005-06.

Forse non è un caso che il Kerala, il Tamil Nadu e l’Himachal Pradesh tendano anche ad avere i migliori indicatori sociali tra gli Stati dell’India. Un semplice indice che tiene conto della salute, dell’istruzione e dell’alimentazione dei bambini colloca questi tre Stati in cima alla classifica.7 Nonostante profonde differenze storiche, culturali e politiche, tutti e tre convergono verso un approccio analogo alle politiche sociali e i risultati sono anch’essi simili. C’è una lezione fondamentale qui per gli altri Stati indiani, anzi, per il paese nel suo insieme.


Un’osservazione per concludere

Speriamo che l’interrogativo con il quale abbiamo cominciato sia ora un po’ più chiaro. La recente esperienza di sviluppo dell’India ha visto sia un successo spettacolare sia un grosso fallimento. Il record della crescita è impressionante e offre una base importante per uno sviluppo a tutto tondo, non ultimo generando maggiori entrate pubbliche (oggi quattro volte più consistenti, in termini reali, rispetto al 1990). Ma non si è riusciti ancora a tradurre quella rapida crescita in migliori condizioni di vita per il popolo indiano. Ci sono stati miglioramenti, ma a un ritmo molto lento, ancor più lento che nel Bangladesh o in Nepal. Probabilmente non c’è nessun altro esempio nella storia dello sviluppo di un’economia che cresce così in fretta e a lungo con risultati tanto limitati in termini di progresso sociale per un’ampia base di popolazione.

In questa contraddizione, o negli scarsi risultati dello sforzo per svilupparsi dell’India, non c’è niente di misterioso. Entrambi sono riflessi delle priorità politiche di questo periodo. Come abbiamo sostenuto, però, tali priorità possono cambiare grazie al coinvolgimento democratico, come è già accaduto in una certa misura in qualche Stato. Per questo, però, è necessario allargare in modo radicale il dibattito politico sulle questioni dello sviluppo, senza tenerlo confinato al semplice confronto dei dati di crescita del PIL e senza limitarsi all’ingenua ammirazione (implicita o esplicita) degli standard di vita elevati di una parte relativamente piccola della popolazione. Concentrarsi esclusivamente sulla minoranza dei più benestanti, come spingono a fare gli interessi dei media, finisce per offrire un quadro irreale e roseo di quanto vivono gli indiani in generale, e rende asfittico il dibattito pubblico su altre questioni. Una pratica democratica innovativa, come abbiamo affermato, è essenziale per estendere e rafforzare le conquiste dello sviluppo in India.

 

 

© 2011 Outlook
Per la versione italiana © Italianieuropei

 

 


 

[1] Banca mondiale, World Development Indicators 2011, disponibile qui.
[2] J. Dreze, A. Sen, Hunger and Public Action, Clarendon Press, Oxford 1989.
[3] S. Wang, Double Movement in China, in “Economic and Political Weekly”, 27 dicembre 2008.