Per un’equa riforma del sistema pensionistico

Di Elsa Fornero e Flavia Coda Moscarola Martedì 22 Novembre 2011 18:10 Stampa
Per un’equa riforma del sistema pensionistico Illustrazione di Emanuele Ragnisco

Versione integrale dell'articolo del neoministro del Welfare Elsa Fornero, scritto insieme a Flavia Coda Moscarola alla fine di ottobre per il n. 10/2011 di Italianieuropei. Il nuovo numero della rivista uscirà in edicola e in libreria martedì 29 novembre.


Politica e opinione pubblica si dividono circa le misure da adottare per riformare il sistema pensionistico. In un’ottica strutturale e di lungo periodo occorre sostituire il metodo retributivo, generoso con le generazioni anziane ma penalizzante per le giovani, con quello contributivo; è l’unica via per garantire a tutti gli italiani una redistribuzione delle risorse equa e trasparente.


La recente riapertura del dibattito sulla necessità o meno di un nuovo intervento in materia previdenziale offre al paese l’occasione – che questa volta, data la situazione di grave crisi in cui versa, sarebbe davvero un peccato farsi sfuggire – per lasciarsi alle spalle la logica degli interventi “spezzatino” e adottare finalmente un approccio più ragionato, coerente e rigoroso alla ridefinizione delle regole del principale istituto del welfare State; un approccio che abbia se non le caratteristiche della “definitività”, almeno quelle dell’intervento strutturale e non dell’ennesimo aggiustamento di una transizione troppo lunga.

Soprattutto quando si parla di pensioni è infatti necessario abbracciare un’ottica di lungo periodo. Le regole previdenziali influenzano direttamente o indirettamente molte delle decisioni fondamentali che gli individui prendono durante la loro vita, a partire dalla giovane età: quanto a lungo studiare, quale professione intraprendere, quale profilo di consumo e risparmio adottare, a che età ritirarsi dal mercato del lavoro. Se le regole cambiano continuamente, diventa difficile fare piani ragionati per il futuro con chiare implicazioni sia sulla qualità della vita dei singoli cittadini, sia sulla crescita del sistema economico nel suo complesso.

Inoltre, se si vuole che le regole vengano condivise – e non solo subite – queste devono essere eque: deve essere garantita parità di trattamento agli individui; devono essere aboliti i privilegi. Se si intende effettuare una redistribuzione delle risorse, questa deve essere trasparente e deve avvenire dai più ricchi ai più poveri e non viceversa.

Questi principi, che sembrano banali, sono stati spesso largamente disattesi, nel periodo preriforma, ma anche successivamente, sia con la riforma Amato (1992), sia con la riforma Dini (1995), in modo particolare con la scelta di tutelare i “diritti acquisiti” dei lavoratori meno giovani, scaricando invece sulle nuove generazioni l’onere dell’aggiustamento. E hanno continuato a essere disattesi nel periodo successivo, a ogni nuovo intervento sulla transizione.

Il metodo contributivo di calcolo delle pensioni, introdotto nel 1995 in sostituzione del precedente metodo retributivo, costituisce (a nostro avviso) il punto di partenza imprescindibile su cui basare le modifiche dell’attuale assetto. Considerando la transizione, e semplificando, i lavoratori possono essere suddivisi in tre tipologie: i “salvati” del 1995, esonerati dall’applicazione del contributivo grazie all’artificiosa demarcazione introdotta tra coloro che, al 31 dicembre 1995, avrebbero raggiunto almeno diciotto anni di anzianità e gli altri; i “parzialmente protetti” (anzianità inferiore a diciotto anni nel 1996), la cui pensione sarà calcolata secondo il pro-rata, ossia in base alla regola retributiva per l’anzianità maturata al 1995 e a quella contributiva per l’anzianità accumulata dal 1996; gli “indifesi”, ossia gli assunti dal 1996, la cui pensione sarà interamente contributiva.

Il metodo retributivo, applicato per intero ai “salvati” e in pro-rata ai “parzialmente protetti”, si caratterizza per uno scarso collegamento tra contributi versati e prestazioni ricevute. Ne risulta un “rendimento” (analogo a un tasso di interesse annuo applicato al monte contributivo) troppo generoso, e cioè superiore a quello finanziariamente sostenibile, con conseguente sistematica violazione del criterio della sostenibilità e del principio dell’equità tra generazioni. Un sistema a ripartizione è, infatti, finanziariamente sostenibile quando restituisce al lavoratore, sotto forma di pensione, i contributi versati, capitalizzati a un tasso pari a quello di crescita dell’economia. Se il sistema è troppo generoso verso le generazioni attuali, accumula un debito implicito che ricadrà sulle generazioni giovani e su quelle future.

L’ammontare del “regalo” elargito dal retributivo non è uguale per tutti, ma differisce grandemente in base alla gestione previdenziale di appartenenza, all’età di pensionamento e ad altri parametri, come l’anzianità per l’accesso alle prestazioni, le aliquote contributive e il periodo retributivo di riferimento per il computo della pensione. Poiché la pensione retributiva è calcolata tenendo conto soltanto dell’ultima parte della carriera del lavoratore, le carriere più dinamiche – con maggiore progressione salariale, che coincidono di solito con quelle più ricche – ne risultano favorite.

Una stima del regalo può essere ottenuta per mezzo di un indicatore della generosità dei sistemi pensionistici, denominato in gergo tecnico Present Value Ratio (PVR). Questo indicatore misura, al momento del pensionamento, il “valore attuale atteso” dei benefici pensionistici ai quali l’individuo ha diritto – la somma oggi equivalente al valore complessivo dei trasferimenti previdenziali di cui l’individuo godrebbe data l’attuale aspettativa media di vita – a fronte del “montante contributivo” versato – ossia il saldo attuale disponibile di un ipotetico conto corrente in cui l’individuo abbia depositato, senza mai ritirarli, i contributi previdenziali versati lungo la vita lavorativa. Fatto pari a 100 euro il montante, nelle nostre simulazioni, un valore del PVR superiore a 100 indica che il sistema remunera i contributi corrisposti nella vita attiva a un tasso di rendimento superiore a quello che il sistema “può permettersi”. Ciò comporta una redistribuzione di risorse (ossia “un regalo”) alle generazioni anziane da parte delle generazioni giovani presenti e future.

La Tabella 1 mostra per l’appunto la generosità del metodo retributivo. Il trattamento più prodigo spetta ai lavoratori autonomi: a fronte di un montante di 100 euro di contributi versati, sono corrisposti benefici previdenziali per 346 euro, se uomini, e per 368 euro, se donne. I dipendenti pubblici (INPDAP) percepiscono in media due volte e mezzo quanto sarebbe giustificato sulla base dei criteri di equità attuariale (il PVR è pari a 268 per gli uomini e 249 per le donne). Per i dipendenti privati (INPS-FPLD) il regalo è meno consistente, ma ammonta comunque al 60-90% di quanto versato (il PVR è pari a 162 per gli uomini, 188 per le donne).

 

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I valori riportati nella Tabella 1 sono valori medi. L’entità del “regalo” dipende poi dall’età di pensionamento e dal profilo di carriera. A parità di assegno mensile e di contributi versati lungo la vita lavorativa, chi va in pensione prima gode di un regalo più alto perché beneficia di una pensione (in media) per più anni. Il sistema incentiva così il pensionamento anticipato e l’incentivo è tanto più alto quanto più elevate sono le pensioni. Non a caso, i dati INPS mostrano che al crescere della pensione media diminuisce l’età al pensionamento. Inoltre, a parità di età al pensionamento, le carriere più dinamiche godono di benefici più alti perché la pensione viene calcolata su una media delle ultime retribuzioni e prescinde dal montante dei contributi versati.

Il metodo contributivo che verrà applicato alle generazioni di “indifesi” garantirà all’opposto un PVR pari a 100. Ad essi non verrà elargito alcun “regalo” e scompariranno – fortunatamente – anche i trattamenti differenziali tra categorie. I “parzialmente protetti”, di conseguenza, trovandosi in una condizione intermedia tra le altre due categorie, beneficeranno pur sempre di un qualche regalo, ma di importo progressivamente meno cospicuo.

Sulle basi “oggettive” appena illustrate, riteniamo che una proposta di riforma coerente possa pertanto essere la seguente. Si tratterebbe di applicare, a partire dal 2012, il metodo contributivo prorata per tutti i lavoratori, rendendo subito effettive un’età minima di pensionamento pari a sessantatré anni (con il requisito dei vent’anni di anzianità oggi richiesto per le pensioni di vecchiaia) e una “fascia di flessibilità” che incoraggi il lavoratore a ritardare l’uscita fino ai sessantotto (settanta) anni, con un incremento di pensione che – secondo calcoli matematici, e non in base ad arbitrari criteri politici – tenga conto dei maggiori contributi versati e della maggiore età. I requisiti minimi e massimi sarebbero successivamente indicizzati alla longevità, così come già previsto dalla normativa vigente. Dovrebbero inoltre scomparire le “finestre”, cioè quei periodi (un anno per i lavoratori dipendenti e un anno e mezzo per i lavoratori autonomi) che si sommano oggi ai requisiti minimi di età/anzianità, senza peraltro aggiungere incrementi di pensione.

Mentre l’estensione dell’età minima di accesso al pensionamento e l’abolizione della pensione di anzianità, riguardando tutti i lavoratori, avrebbero come effetto principale quello di determinare risparmi di spesa consistenti nel breve e medio periodo, permettendo, come auspicato, di allentare gli stringenti vincoli di bilancio; l’estensione pro-rata del contributivo avrebbe come effetto principale quello di avvicinare i trattamenti tra le categorie (cosa che fa anche l’innalzamento del requisito di età, ma in maniera meno rilevante), promuovendo una maggiore equità del sistema.

I lavoratori coinvolti nell’estensione del prorata non sarebbero molti. Infatti il provvedimento riguarderebbe unicamente i “salvati” oggi ancora attivi nel mercato del lavoro, ossia i lavoratori nati tra il 1950 e il 1962. A titolo esemplificativo, la Tabella 2 illustra il caso di un dipendente privato della categoria dei “salvati” nato nel 1958. Per ipotesi, egli aveva vent’anni di anzianità nel 1996, una dinamica retributiva del 2,5% l’anno e nel 2010 è arrivato a percepire una retribuzione di 30.000 euro. Supponendo che maturi quarant’anni di anzianità nel 2018, con le regole attuali potrebbe andare in pensione a sessantuno anni (inclusa la finestra). La sua pensione ammonterebbe a 26.776 euro, con un “regalo” atteso nell’arco dell’intera vita pari al 43% dei contributi versati (162.000 euro). Applicando la nostra proposta, il pensionamento sarebbe posticipato al 2021, con una pensione superiore, pari a 28.999 euro, ma un “regalo” inferiore (il 33% dei contributi versati, ossia 146.000 euro), per effetto della più elevata età di pensionamento e del calcolo contributivo sugli ultimi anni.

Rispetto al mero innalzamento del requisito di età con regola retributiva invariata, la pensione erogata è solo lievemente più bassa: 28.999 euro verso i 29.523 euro. Gli anni in cui si applica il prorata, nell’esempio, sono infatti solo due. Si noti che, se venisse applicato il metodo contributivo all’intera vita lavorativa del soggetto – una misura davvero drastica, che peraltro nessuno propone – la sua pensione ammonterebbe a 21.869 euro e il “regalo” si annullerebbe.

 

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La fissazione dell’età minima a sessantatré anni comporterebbe, tuttavia, la possibilità per gli uomini di anticipare di due anni il pensionamento rispetto all’età oggi prevista (sessantacinque anni) per la pensione di vecchiaia. Alcuni in effetti uscirebbero prima (con una pensione ridotta, ma con un regalo proporzionalmente maggiore); altri sfrutterebbero la fascia di flessibilità e continuerebbero oltre i sessantacinque anni. La flessibilità nell’età di pensionamento è di fatto un’occasione per concedere, a quei lavoratori che si sentono ancora “produttivi”, di scegliere liberamente se e di quanto posticipare il momento del pensionamento.

Dal punto di vista aggregato, il nostro modello non consente una stima accurata dei risparmi. Ciononostante, i risparmi di spesa sarebbero tutt’altro che irrisori, potendo arrivare a qualche decina (3-4) di miliardi di euro nei primi cinque-sei anni di effettiva applicazione del provvedimento. La caratteristica del contributivo di garantire un trattamento equo sia all’interno delle generazioni, sia tra generazioni diverse presenti e future ne costituisce un indubbio punto di forza aggiuntivo rispetto al fatto che si tratta di un metodo di calcolo che migliora la sostenibilità finanziaria del sistema. Ovviamente, questo vale a condizione che la riforma in questione riguardi tutte le categorie di lavoratori alla stessa maniera, nessuna esclusa. In un momento in cui si è costretti a richiedere duri sacrifici alle famiglie con provvedimenti draconiani che colpiscono anche le fasce più deboli, non si può prescindere dall’abolizione delle ingiustificate posizioni di privilegio che perdurano per molte categorie difficilmente annoverabili tra i bisognosi, come i liberi professionisti con le loro casse e i politici con i loro vitalizi. È anche ovvio che una volta varato il provvedimento si potrebbero discutere, in modo trasparente e mirato, le uniche eccezioni ammissibili, ossia quelle nei confronti dei lavoratori sfortunati e non già di quelli privilegiati.