Introduzione

Di Redazione Domenica 02 Marzo 2008 19:11 Stampa

In Europa come negli Stati Uniti, dove la campagna per le prossime elezioni presidenziali è in pratica già iniziata, il tema dell’energia e quello, strettamente connesso, del cambiamento climatico sono al centro del dibattito politico.

Sono temi scomodi per la politica, perché tanto il sistema energetico che quello climatico sono caratterizzati da una notevolissima inerzia: qualsiasi nuova politica introdotta oggi avrà i suoi effetti solo tra molti anni, quando i politici che hanno preso la decisione avranno da tempo abbandonato la scena. In questo, energia e ambiente sono temi simili all’educazione e al governo della popolazione, che pure offrono un rapporto costi/benefici politici decisamente poco incoraggiante per i governanti.

In Europa come negli Stati Uniti, dove la campagna per le prossime elezioni presidenziali è in pratica già iniziata, il tema dell’energia e quello, strettamente connesso, del cambiamento climatico sono al centro del dibattito politico.

Sono temi scomodi per la politica, perché tanto il sistema energetico che quello climatico sono caratterizzati da una notevolissima inerzia: qualsiasi nuova politica introdotta oggi avrà i suoi effetti solo tra molti anni, quando i politici che hanno preso la decisione avranno da tempo abbandonato la scena. In questo, energia e ambiente sono temi simili all’educazione e al governo della popolazione, che pure offrono un rapporto costi/benefici politici decisamente poco incoraggiante per i governanti.

Dopo le «crisi» del 1973 e del 1979-80, l’attenzione politica sul tema dell’energia è evaporata come nebbia al sole. I prezzi del petrolio si sono mantenuti bassi, a tratti molto bassi, per il quindicennio 1985-2000, e le compagnie petrolifere hanno incessantemente ripetuto il mantra dell’abbondanza delle risorse e dell’impossibilità di forzare i prezzi a livelli più alti. L’opposizione americana ha fortemente indebolito l’impegno a rispettare quanto previsto dal Protocollo di Kyoto.

Oggi è chiaro che le compagnie hanno bluffato, e alcune continuano a farlo. Non è questione di sposare necessariamente le previsioni dei profeti di sventura – gli aderenti alla «setta» del cosiddetto picco del petrolio (peak oil) – che prevedono un rapido declino della produzione mondiale una volta raggiunto il tetto massimo. Possiamo anche accettare che la produzione continuerà ad aumentare per un po’, o che, come afferma il CERA – principale think tank che si oppone alla visione maltusiana – la produzione mondiale si assesterà con delle oscillazioni su di un plateau per due o tre decenni, prima di iniziare un lento declino. Ugualmente, poiché la domanda globale è in continua ascesa, abbiamo di fronte a noi un’era di progressivamente crescente scarsità energetica, della quale è difficile intravedere la fine.

È questo il messaggio fondamentale dell’ultimo World Energy Outlook pubblicato dall’Agenzia internazionale dell’energia di Parigi, e sintetizzato in questo dossier da Giuseppe Surdi. La proiezione nel futuro delle politiche attualmente in vigore genera uno scenario del mondo nel 2030 che è chiaramente insostenibile: forte aumento delle emissioni di gas serra, forte aumento dell’utilizzo di carbone, forte aumento della dipendenza dalle importazioni di petrolio e di gas da una specifica regione: il Golfo.

Lo scenario alternativo appare, in superficie, poco ambizioso, nel senso che prevede semplicemente l’effettiva adozione di tutte le iniziative politiche attualmente in discussione in vari paesi, ma sappiamo bene che una tale ipotesi è in realtà estremamente ambiziosa. Comunque, lo scenario alternativo dimostra che, nel caso queste misure vengano adottate presto, è possibile ottenere un risultato sostanzialmente diverso al 2030, anche se ancora non del tutto soddisfacente.

È lo stesso messaggio lanciato in Gran Bretagna da Sir Nicholas Stern, autore del rapporto finale della Review sul cambiamento climatico ordinata dal governo inglese: bisogna affrettarsi a prendere le misure necessarie, se non si vogliono pagare costi molto maggiori in futuro.

È in questo contesto che Fabio Gobbo, nel suo articolo, insiste sulla necessità di una pianificazione a lungo termine del settore dell’energia, e denuncia la straordinaria miopia delle decisioni prese dall’Italia negli anni Ottanta e Novanta. In particolare, lo smantellamento del nostro programma nucleare – non richiesto dalla lettera dell’infausto referendum tenutosi a ridosso dell’incidente di Chernobyl – non solo è costato al paese una cifra spaventosa, ma ci lascia oggi incredibilmente dipendenti da petrolio e gas.

Il problema è: la necessaria pianificazione energetica deve avvenire a livello nazionale o europeo? L’articolo di Giacomo Luciani parte dalla constatazione che l’energia è ancora un settore nel quale la Commissione gode di un mandato molto limitato, e principalmente derivato dal suo ruolo in materia di difesa della concorrenza, realizzazione del mercato unico europeo, e difesa dell’ambiente. La Commissione punta decisamente ad una europeizzazione della politica energetica, e lo fa in nome della necessità di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra (e fin qui può contare sul forte appoggio dell’opinione pubblica e dei governi dei paesi membri) e in nome della unificazione del mercato europeo dell’energia, il che significa creare mercati aperti e competitivi e combattere le posizioni dominanti. Ma su questo secondo punto non c’è consenso all’interno dell’Unione: alcuni paesi membri ritengono che l’unico modo di preservare la possibilità di investire a lungo termine e garantire il futuro energetico sia appunto quella di preservare il controllo di mercato degli operatori dominanti, difendendoli dalla concorrenza di operatori opportunisti e solo interessati al profitto di breve periodo. In altre parole, il dilemma che l’Europa si trova ad affrontare nei prossimi mesi è fra fede nell’efficienza del mercato a livello europeo e fiducia nella «pianificazione» a livello nazionale. Esiste in teoria una terza possibilità, quella di aumentare i poteri della Commissione conferendole un più chiaro mandato in materia di energia, il che consentirebbe di lanciare una politica europea che vada al di là della semplice promozione del mercato. Tale mandato è incluso nel progetto di Costituzione europea, ed è uno di tanti buoni motivi per cui è necessario riprendere quel progetto e adottarlo al più presto.

Il punto diventa molto chiaro quando si guarda al ruolo dell’energia nucleare. La Commissione, nonostante l’importanza storica del trattato EURATOM all’origine del processo di integrazione europea, non osa andare, nella sua proposta di nuova strategia europea dell’energia pubblicata il 10 gennaio di quest’anno, oltre l’affermazione che spetta a ciascuno Stato membro decidere se e in quale misura desidera sviluppare l’energia nucleare, ma complessivamente sarebbe opportuno che la sua incidenza in Europa almeno non diminuisca.

Ci vorrebbe maggiore coraggio. Lo spiega bene Pierre-René Bauquis nella sua intervista alla rivista svizzera L’AGEFI, tradotta per questo dossier. Bauquis – ingegnere minerario e uomo di petrolio per tutta la sua vita professionale, fino al pensionamento da Total – argomenta con chiarezza la necessità di fare maggiore ricorso all’energia elettrica, e di generare una quota molto maggiore di elettricità dal nucleare e dalle energie rinnovabili, riservando l’uso dei combustibili liquidi – siano essi derivati dalla raffinazione del petrolio o sinteticamente dal gas, dal carbone o dalle biomasse – al settore dei trasporti, dove essi appaiono molto difficili da sostituire almeno per i prossimi cinquant’anni, se non fino alla fine del secolo. Ci aspettano scelte difficili e controverse, ma bisogna resistere alla tentazione dello struzzo.