La mistica dei gazebo

Di Michele Prospero Mercoledì 26 Ottobre 2011 12:22 Stampa
La mistica dei gazebo Illustrazione: Alessandro Sanna

Le primarie, e in particolare le primarie di coalizione, non sempre sono simbolo di una politica aperta e partecipata; esse sembrano rispondere a una declinazione leaderistica della politica, che può creare disordine nel rendimento delle istituzioni di rappresentanza. Ecco perché può essere utile, come invocato da più parti, apportare validi correttivi per arginare rischi e inconvenienti di questo strumento, valutandone l’utilità e mantenendo distinte le figure degli iscritti e degli elettori.


Ora che anche in Iraq si sono affacciate le primarie, come negare la impetuosa forza propulsiva di riti che escono dal recinto americano e mettono radici in ogni angolo del pianeta? Il problema è che a sperimentare l’ebbrezza delle code per designare le candidature al Parlamento non è stato un partito lieve ed estroverso, ma un ruvido partito fondamentalista con sogni teocratici. Ciò significa che le primarie in quanto tali non possono divenire un mito e costituire sempre un elemento identificante della bella politica aperta e partecipata. Sono uno strumento, il cui impiego o rigetto è sempre da valutare con le ragioni fredde della politica.

In Italia il ricorso alle primarie è andato troppo avanti per sperare di poter impunemente sopprimere i gazebo per la loro talvolta manifesta irrazionalità, ma non si è ancora spinto così innanzi al punto da scartare ogni ponderata e giustificata, a mio avviso, ipotesi di apportare validi correttivi per ridimensionarne almeno gli aspetti latenti più controproducenti.

Le riflessioni sulle primarie oscillano tra le fughe ideologiche in mondi fantastici abitati da leggeri partiti estroversi e le mire prosaiche di chi le fiuta come stuzzicanti armi da brandire in vista di angusti calcoli politici. La metafisica delle primarie le esalta come un bene indisponibile e resiste alla dura smentita dei fatti, che per gli ideologi, si sa, sono sempre irrilevanti. Le primarie di coalizione, che hanno attecchito in Italia, sono un unicum che è difficile riscontrare altrove; l’esperienza reale non ne attesta peraltro l’efficacia politica. Prodi, che per primo le celebrò per ricavarne una investitura diretta che lo ponesse al riparo rispetto ai partiti da lui temuti (i quali lo avrebbero condannato al non gradito ruolo di garante e mediatore di equilibri plurali) non ne trasse alcun beneficio. Anzi egli fu defenestrato solo dopo alcuni mesi dal loro trionfale svolgimento, esaltato con enfasi da “la Repubblica” come la liberatoria nascita del partito del “popolo delle primarie”.

L’esperienza rivela anche che esse non servono al rafforzamento della coesione tra i partecipanti alla “plural tenzone”. A dare i maggiori grattacapi a Prodi furono proprio altri due contendenti in gara: Bertinotti, che se ne uscì adattando una fulminante metafora di Cardarelli (sul premier morente), lavorò ai fianchi della fragile coalizione; Mastella, che gli negò la fiducia al Senato, lo mandò via in maniera irriguardosa. Prodi fu poi vittima delle cosiddette primarie di partito che, con lui in carica, elessero il segretario del PD il quale (per statuto) era da considerarsi al contempo anche come il naturale candidato a Palazzo Chigi. Così le primarie (in realtà si trattava della elezione diretta del leader) contribuirono a delegittimare Prodi per la inopinata comparizione di una diarchia che in politica è sempre esplosiva. Quando in America un partito occupa la Casa Bianca, non svolge le primarie: al presidente in carica tocca infatti affrontare la battaglia contro lo sfidante.

C’è stata, nella sperimentazione delle primarie, una grande confusione che andrebbe emendata, e invece prosegue negli osservatori una deviante mistica dei gazebo. L’invocazione delle primarie di coalizione ha di mira importanti obiettivi contingenti ma si traveste con giustificazioni ultrademocratiche che hanno un che di metafisico. In realtà esse rispondono a una declinazione leaderistica e in fondo presidenzialista della politica che, accantonando alcuni dei capisaldi classici della rappresentanza, ritiene che il traino della persona prevalga sulla consistenza effettiva del partito. È però del tutto fallace la credenza secondo cui il candidato premier, come viene chiamato solitamente, è una carica che compete a una persona e non a un partito ovvero a una sua funzione. Il candidato premier diviene cioè, del tutto ambiguamente, un potere personale per conquistare il quale concorrono diversi aspiranti e non è connesso a una puntuale funzione politica, quella del leader del maggior partito. In ciò si racchiude una scivolosa declinazione carismatica della politica che pare pericolosa in quanto potrebbe alterare i rapporti di forza tra i partiti e alla fine creare un disordine estremo nel rendimento delle istituzioni della rappresentanza. Le primarie di coalizione implicano l’idea per cui una volta deciso il candidato premier, con la contendibilità della leadership assicurata dalle primarie, sia del tutto indifferente l’ampiezza dei consensi del suo partito. Ciò comporta dei rischi di natura sistemica che paiono ineludibili. Che tipo di funzionalità può davvero raggiungere un sistema politico in cui il premier “eletto” conta sul sostegno di un partito attestato attorno al 5-6%? È arduo conciliare la premiership di un partito minoritario con la persistenza di una democrazia parlamentare che vede di norma la presenza in scena di partiti con un potere di coalizione collegato al diverso insediamento numerico coperto da ciascuno.

Il metodo delle primarie di coalizione obbedisce alla logica del sindaco d’Italia che può prescindere dalla costruzione della maggioranza parlamentare sulla base della finzione della elezione diretta del capo indicato sulla scheda. Ma questo impiccio metafisico in un sistema parlamentare e non presidenziale è un problema, non certo la soluzione. Nessun grande partito in Europa rinuncia alla propria supremazia concedendo generosamente spazi di visibilità, condizionamento e competizione ad altri soggetti minori non disposti a riconoscere la reale distribuzione delle forze. Le primarie di coalizione piegano il sistema politico verso le forme di un bileaderismo polarizzato e fortemente condizionato dagli appetiti congiunturali delle ali più radicali (non è certo un caso che la impossibile reviviscenza del Mattarellum sia oggi invocata dai cespugli minuscoli che così sperano di rientrare in Parlamento in quanto paracadutati in qualche collegio blindato). La finzione delle primarie di coalizione stravolge la funzionalità della contesa politica perché la individuazione di un nome comune da indicare sulla scheda sostituisce l’evanescente soggetto plurale (coalizione) al soggetto politico individuale (partito). Questo è in ultima istanza anche un fattore di estrema debolezza del quadro politico che risulta esposto, oltre che alla indiscriminata prevalenza della coalizione sul partito, anche alla prevalenza dell’elettore sull’iscritto. Una graduazione delle competenze riservate agli iscritti e agli elettori è stata soffocata in nome del primato della estroversione sconfinata. La stessa istanza minimale di ricorrere almeno a una anagrafe degli elettori che dichiarano di riconoscersi in un preciso schieramento politico è rimasta solo sulla carta. Un partito in quanto tale non può annullare del tutto la distinzione tra iscritto e elettore senza con ciò recidere la sua stessa ragion d’essere come segmento parziale.

Oltre che alle ragioni connesse al modello di partito, le primarie di coalizione sono un assoluto non senso visti anche i rapporti di forza presenti oggi a sinistra. Perché mai un partito come il PD, che è accreditato di una forza vicina al 30% dei consensi, dovrebbe giocarsi la leadership, che gli compete in maniera del tutto fisiologica considerati i dati numerici, in una gara insensata con formazioni così minoritarie come l’IDV e SEL? In ogni democrazia parlamentare, che faccia ricorso a governi di coalizione, di norma la carica di capo dell’esecutivo spetta al partito maggioritario. Lo esige una elementare clausola di funzionalità della politica rappresentativa per cui i voti si contano e non si pesano.

Il vero nodo controverso, una volta archiviata l’idea di una competitiva contesa per la leadership della coalizione aperta a più soggetti, resta quello collegato al modo di convivere con le primarie che comunque sono entrate a far parte del paesaggio della politica. A livello locale le primarie possono essere utili per selezionare le cariche monocratiche in presenza di nodi e controversie; anche se, una volta passati alla conta dei gazebo, andrebbero attenuati gli eccessi che lasciano ovunque strascichi e risentimenti sui quali si insinuano gli avversari. Per quanto riguarda le funzioni politiche di direzione interna, le aperture alla partecipazione non dovrebbero scavalcare il coinvolgimento degli iscritti. Se la restrizione oligarchica della politica consiglia di sperimentare più ampie aperture in vista di una maggiore partecipazione democratica, e quindi il ricorso alle primarie o per meglio dire all’elezione diretta del leader, andrebbe per lo meno stabilito con criteri politici e statutari rigorosi il ventaglio delle competenze degli iscritti e degli elettori.

Il problema delle primarie si risolve dunque nella individuazione dei modi più efficaci per la designazione del leader di partito. In un regime parlamentare, in cui il partito è l’anello di congiunzione tra la leadership e il corpo elettorale, le primarie sono più complesse e rare, anche se non mancano esempi di primarie per le cariche assembleari. Leader e partito devono intrecciarsi, non sono faccende diverse. La cosiddetta vocazione maggioritaria si risolve coerentemente solo nella rivendicazione del timbro di partito alla maggiore carica di governo.

Il punto di partenza della proliferazione delle primarie sregolate è un partito debole che insegue una ricarica etico-politica e la rinviene nei gazebo come mito giustificante. Quando i partiti versano in accettabili condizioni di salute non hanno bisogno di un elemento percepito come esogeno, quello delle primarie, per mostrare la loro apertura a forme di partecipazione e di controllo ravvicinato dell’agire della classe politica. È quando invece la funzione partitica è contestata alla radice da campagne anticasta che i soggetti collettivi si affidano alle primarie come alla più efficace terapia per la legittimazione di un ruolo altrimenti sfumato e non riconosciuto dagli elettori. Il problema è allora di appurare se, come terapia, le primarie risultino un valido antidoto alla degenerazione in senso oligarchico delle organizzazioni oppure accentuino il malessere di un organismo politico già fiaccato da vicende ambientali difficili. L’idea di un partito lieve, scarsamente coeso, confuso con l’ambiente esterno e privo di ancoraggi organizzativi visibili coltiva la credenza per cui la rigenerazione del soggetto collettivo consista in una pratica endogena che comporti una maggiore personalizzazione e una declinante forma di strutturazione della macchina. Sono palesi i segni plebiscitari impressi in questa mera parvenza di una democrazia contendibile per cui esistono solo elettori e inutili diventano gli iscritti, i gruppi dirigenti, la cultura politica come apprendimento collettivo.

Negli stessi Stati Uniti il ricorso alle primarie aperte ha un rilievo ben diverso che in Europa; non esistono, non sono mai apparsi, grandi partiti di iscritti e quindi iscriversi come elettore di un partito è in buona sostanza l’equivalente di una palese scelta di parte. In America la dicotomia iscritto/elettore non si pone neppure per ragioni storiche irripetibili. In Europa le condizioni politiche sono ben diverse e l’iscritto e l’elettore descrivono figure eterogenee.

Quando il funzionamento della sfera pubblica si avvale degli istituti della rappresentanza politica, il partito tende a distinguere i campi specifici degli elettori e degli iscritti e quindi traccia confini entro cui riportare delle differenze stabili. Nel moderno il partito è un tassello della mediazione tra una società civile differenziata negli interessi, nelle credenze, e lo Stato politico come luogo del generale. Il partito è la delimitazione di una cesura sorta nel tessuto connettivo della vita sociale. Le primarie aperte tendono a far evaporare l’esser parte di un soggetto politico e a riassorbire tutte le fratture societarie nell’indistinta opinione pubblica in cui si presentano solo elettori. Il profilo identitario e il radicamento sociale diventano corollari inessenziali perché senza più giustificazione appare la figura dell’iscritto, e in opera resta solo il partito elettorale privo di una specifica cultura e coalizione sociale.

Il ruolo del partito politico non risiede però, almeno in Europa, nella semplice vicenda elettorale (cittadino), ma evoca ancora l’espressione di interessi collettivi in competizione (società). Nella forbice tra cittadino e socius il metodo delle primarie accentua il ruolo del singulus e cancella la visibilità del socius. Si potrebbe asserire che, mentre la Costituzione, con l’articolo 3, immette la condizione sociale nella ossatura della stessa cittadinanza, le primarie aperte sono un momento in cui si impone la restaurazione del primato (liberale) del cittadino (quello più istruito, con più reddito e con più tempo) rispetto alla figura del socius.

Sul piano del funzionamento effettivo del sistema politico, le primarie contengono l’inconveniente, se generalizzate in ogni livello, della induzione allo star per sé di ogni eletto, con un decremento della efficacia degli organi. Se la fonte della legittimazione del ruolo politico dell’eletto risiede nelle primarie che lo hanno designato è evidente che si indeboliscono di conseguenza i contenitori di partito, ridotti a mere etichette senza vincoli di programma. Con un ceto politico espresso per intero con il metodo delle primarie decentrate, ogni eletto assolutizza la propria solitudine ed è difficile garantire coesione e disciplina, che sono pur sempre requisiti indispensabili in ogni governo parlamentare che reclami una qualche macchina di partito, per quanto lieve la si voglia progettare. Il ricambio di personale politico è poi tutt’altro che agevolato dalle primarie generalizzate. Negli Stati Uniti circa il 98% dei vecchi deputati è confermato nella carica e le carriere politiche sono molto lunghe, interrotte di solito solo da qualche grana giudiziaria.

La generalizzazione del metodo delle primarie per designare in ogni collegio i candidati (secondo quanto avviene in Israele) comporta dei rischi di inefficacia sul piano del rendimento istituzionale. L’ancoraggio al territorio lascia tendenzialmente evaporare i nessi politici centrali e asseconda così le inclinazioni al nomadismo, alla creazione di reti private anomale di sostegno con il conseguente allentamento del nesso programmatico. Il recupero di efficienza del sistema politico è connesso al ripensamento di una moderna forma partito in assenza della quale le primarie accentuano i nessi obliqui tra singole personalità politiche e arcani mondi dell’economia, dei media. L’allargamento delle strutture partecipative a ogni livello e la discussione programmatica intensa possono richiedere, oltre al coinvolgimento regolare degli iscritti, anche la chiamata di elettori più fedeli (e quindi registrati) per dipanare contese sulle cariche monocratiche, ma comunque la gara per la leadership non dovrebbe svolgersi oltre il perimetro del partito. Senza queste precauzioni le primarie tendono nel tempo a destrutturare in maniera irreparabile la forma partito.

Non solo chi vota (il grado di inclusione del cosiddetto “selettorato”) è rilevante, ma anche stabilire entro quale partito si vota è piuttosto cruciale se proprio si vogliono mettere in sicurezza le primarie non già come fasullo mito fondativo, ma come strumento politico prescelto con cognizione di causa per obiettivi politici contingenti. Lo scopo principale di un partito con identità e meccanismi di lealtà e fiducia è creare quadri, classi dirigenti, cultura e non giocare quella carta della competizione tra aspiranti candidati che da mezzo diventa il fine esaustivo. Oltre a impegnare candidati in gare conflittuali, i partiti costruiscono percorsi organizzativi, identità e culture in base alle quali definire classi politiche omogenee.

Una competizione intrapartitica, se regolata nelle attribuzioni degli iscritti e accompagnata da un senso del limite, può svolgere una funzione simbolica, mentre non pare sorretta da alcuna stringente logica politica una confusa contesa tra partiti aperta all’elettore indiscriminato o ancor più di coalizione, con l’obiettivo di lasciare in piedi solo un evanescente partito-cartello elettorale. Ora che cala il sipario sul bipolarismo rusticano della Seconda Repubblica dovrebbe scendere il velo anche sulle assurde primarie di coalizione.