I democratici americani e la risposta alla globafobia

Di Will Marshall Domenica 02 Marzo 2008 18:29 Stampa
I repubblicani hanno trovato una comoda spiegazione per la perdita della maggioranza al Congresso alle elezioni di medio termine: è stata tutta colpa del presidente Bush. L’epica confusione con cui Bush ha gestito la guerra in Iraq, dicono, ha riportato al potere i democratici che da dodici anni erano in minoranza.Questa pur rassicurante spiegazione non tiene conto di un altro aspetto quasi altrettanto importante: la diffusa ansia riguardo alla situazione economica. Non c’è dubbio che il pasticcio in Iraq abbia spalancatola porta alle ragioni dei democratici per un cambiamento di rotta. Ma le elezioni sono anche state un referendum sull’imposta sui profitti lordi (GOP) e sulle politiche economiche che ben pochi vantaggi hanno portato alle famiglie della classe media.
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A un primo sguardo, i risultati elettorali sembrano contraddire il solito andamento delle elezioni negli Stati Uniti. Dopo tutto, un’economia in crescita di solito opera decisamente a vantaggio di quello dei due partiti che è in quel momento al potere. Invece di approfittare dell’apparente prosperità, però, i candidati repubblicani sono stati travolti da una potente ondata di «globafobia».

È questa una parola che chi scrive ha coniato una decina d’anni fa, per definire la paura crescente riguardo all’insicurezza dei posti di lavoro e alla mobilità, provocate dal brusco cambiamento tecnologico e dall’intensificazione della concorrenza globale. Verso la fine degli anni Novanta la globafobia si era ridotta, perché sembrava che i cambiamenti economici avessero prodotto più vincitori che vinti. Negli anni di Bush, invece, la sindrome ansiosa ha ripreso a diffondersi, perché un maggior numero di americani restavano esposti ai rischi della globalizzazione e si vedevano negati i vantaggi che essa produceva. È vero che secondo i calcoli convenzionali l’economia degli Stati Uniti oggi sembra in condizioni discrete.

La crescita nel 2006 è stimata a un rispettabile 3,2%. Le cifre sulla disoccupazione e l’inflazione sono basse, i profitti delle imprese e i prezzi delle azioni sono alti. Ma la luce al neon dei successi macroeconomici prospettati da questi indici lascia in ombra la buia realtà di un’ingiustizia e di un’insicurezza diffuse. Dal 2001 la produttività è aumentata di un solido 15%, mentre i salari reali dei lavoratori a medio reddito sono calati del 4% (anche se nell’ultimo anno c’è stato un leggerissimo aumento). Allora, dove sono finiti tutti i guadagni? In gran parte nelle tasche degli americani più ricchi. Nel 2004 l’1% delle famiglie più ricche (reddito annuo superiore a 315 mila dollari) ha raccolto il 53% dei maggiori proventi. La concentrazione crescente della ricchezza verso la punta della piramide ci dice che il lavoratore medio americano non ha sognato niente: la globalizzazione non funziona proprio per lui.

Negli Stati Uniti i lavoratori sono anche schiacciati dal peso che sposta il rischio dalle istituzioni su di loro, perché la rete previdenziale dell’era industriale si sta disfacendo sotto la pressione della concorrenza globale. Cercando disperatamente di contenere il costo del lavoro, relativamente alto, le aziende americane vanno tagliando i generosi contributi sanitari e pensionistici che offrivano fin dai tempi della seconda guerra mondiale per integrare stipendi e salari. Con lo smantellamento di questo «Stato sociale ombra» le imprese scaricano i costi previdenziali sui dipendenti, già in angustie per il taglio dei posti di lavoro e per la mobilità.

Il numero di americani con una copertura sanitaria sul lavoro si è ridotto da tre quarti a circa due terzi, e quelli che la conservano, negli ultimi sei anni, hanno visto aumentare i contributi molto più delle retribuzioni. Le imprese, poi, sono passate dal sistema pensionistico tradizionale, con indennità garantite, a quello di conti di risparmio a «contributi fissi», una scelta che carica sulle spalle dei dipendenti i rischi di un investimento sul mercato azionario.

Nello stesso tempo due elementi hanno ridotto il potere di contrattazione dei lavoratori americani: da un lato internet e il basso costo delle telecomunicazioni, che hanno esposto una vasta fascia delle attività del terziario alla concorrenza estera; dall’altro l’ingresso di un miliardo di nuovi lavoratori nell’economia globale nell’ultimo decennio. Anche se questi fenomeni non hanno ancora provocato una delocalizzazione su vasta scala, è probabile che abbiano compresso i salari per le attività che potrebbero essere trasferite in India.

Non è che i lavoratori americani si aspettino molto da Washington. La capacità del governo americano di offrire alle famiglie dei lavoratori gli ammortizzatori necessari a fronteggiare le difficoltà economiche è ostacolata dalla politica fiscale che gli anni di Bush lasciano in eredità: una rapida crescita della spesa, grossi deficit di bilancio, contrazione delle entrate e soprattutto i costi insostenibili per la sanità e per le pensioni della generazione dei baby boomer, che comincerà a lasciare il lavoro l’anno prossimo.

La globafobia, in sintesi, rispecchia sempre di più non solo la vaga paura di possibili perdite, ma le esperienze realmente vissute o avvertite dai lavoratori americani della classe media. Lo scorso novembre i democratici hanno sfruttato questa corrente sotterranea di insicurezza promettendo una più equa politica economica e una riduzione della forbice dei redditi che si stava aprendo sempre di più. Molti candidati democratici, per esempio, nella campagna elettorale hanno puntato a fare leva più sui timori degli elettori per la situazione economica che per l’Iraq. Ora che sono nuovamente in maggioranza al Congresso, per la prima volta dal 1994 i democratici devono affrontare questa sfida: andare oltre gli atteggiamenti retorici ed evitare rimedi fasulli come il protezionismo.

Va bene parlare di «commercio equo», ma i democratici devono fare fronte alle insicurezze della classe media senza scalzare il sostegno pubblico alle politiche che sostengono l’imprenditorialità, l’innovazione e la flessibilità indispensabili se gli Stati Uniti vogliono vincere la sfida della concorrenza globale.

E se i democratici guidati da Nancy Pelosi, la prima donna presidente del Congresso nella storia degli Stati Uniti, sono intervenuti in fretta per aumentare il salario minimo, va però detto che una semplice riproposta di antiquate politiche del New Deal non servirà a curare la globafobia. I progressisti dovrebbero invece pensare in grande e incominciare a negoziare un nuovo patto sociale per l’era della globalizzazione.

Tale patto punterebbe a correggere le disuguaglianze e la volatilità dei mercati globali. Oggi i lavoratori hanno bisogno, per esempio, di un’assicurazione sul reddito, per evitare di finire rovinati economicamente se perdono il posto. Le famiglie della classe media dovrebbero godere di un maggiore accesso agli studi superiori, perché una solida formazione resta essenziale affinché i loro figli possano ottenere un buon lavoro. Anche un’assistenza sanitaria e una pensione sostenibili e per tutti sono essenziali per ridare fiducia e flessibilità ai lavoratori. E gli Stati Uniti dovrebbero adeguarsi ad altri paesi avanzati offrendo permessi retribuiti e orari flessibili e aiutando così i genitori a conciliare il lavoro e la famiglia. Un nuovo patto sociale ripristinerebbe la tassazione progressiva, perché questo è forse il modo più semplice che ha un governo per ridurre le disparità senza interferire nelle scelte del mercato. Chiederebbe a tutti di risparmiare per la pensione, democratizzando in tal modo la titolarità dei valori mobiliari e facilitando il compito di modernizzare il sistema previdenziale. E dovrebbe fare in modo di fermare la crescita incontrollata dei costi per la sanità pubblica, perché Medicare e Medicaid non assorbano tutti i soldi che dovranno servire a finanziare il nuovo patto. La questione di fondo è di dotare gli americani degli strumenti necessari per competere e vincere, senza isolarli dai mercati globali. Un nuovo blocco sociale può favorire sia il successo nella competizione sia la giustizia sociale, elevando il livello della più elementare sicurezza economica di tutte le famiglie di lavoratori.