Ma è proprio vero che i cittadini non amano la politica?

Di Alfio Mastropaolo Martedì 19 Luglio 2011 17:26 Stampa
Ma è proprio vero che i cittadini non amano la politica? Illustrazione: Serena Viola

I risultati in termini di partecipazione ottenuti dalle recenti consultazioni elettorali contraddicono l’idea che i cittadini “odino” la politica, e sembrano dimostrare che l’astensionismo non è un fenomeno cronico nelle nostre società. Forse l’impegno e l’interesse dei cittadini si sono semplicemente spostati verso altre forme di partecipazione. O forse, più che a un’avversione generalizzata verso la politica, siamo di fronte a molte diverse ragioni di insofferenza, a esigenze e bisogni rispetto ai quali le classi dirigenti si dimostrano insensibili. E se fosse la politica a odiare i cittadini e non i cittadini a odiare la politica?

 

Una leggenda metropolitana

È una tra le leggende metropolitane più fortunate di questi tempi: l’uomo della strada ce l’ha a morte con la politica. Tutti ricorderanno con quanto entusiasmo tripartisan – ci si è messo pure il terzo polo – la si è fatta circolare nelle settimane che precedevano le ultime elezioni amministrative. «Vedrete quale soprassalto, vergognoso per la politica, avrà l’astensione» dicevano finanche i politici! Nulla di tutto questo è successo. Gli elettori sono andati a votare come nella tornata precedente; come nella tornata precedente hanno partecipato ai ballottaggi; la campagna elettorale è stata animata sull’uno e sull’altro fronte (pur se inquinata dalle consuete volgarità del premier e dei suoi sodali) e si è alfine conclusa con vivacissime feste in piazza. Due settimane dopo, gli elettori italiani sono di nuovo accorsi in massa alle urne per una consultazione referendaria che il governo ha provato in ogni modo a far fallire, anzitutto dissociandola dalle amministrative, in secondo luogo censurandola sui media da esso stesso controllati, in terzo luogo distogliendo l’attenzione con un rozzo tentativo di cancellare il quesito di maggior richiamo e, infine, invitando apertamente al non voto.

Suvvia: è questo l’“odio” generalizzato per la politica (per citare il titolo di un libro, peraltro documentato e brillante, di un politologo britannico)? Il racconto – che ha portata planetaria – è suggestivo, ma va rivisto, chiedendosi per cominciare a chi giovi. Di sicuro conviene ai media, sempre attratti da ogni fatto scandaloso e magari confortati nella pretesa di esser loro i più genuini interpreti e portavoce della volontà popolare. Conviene ai partiti d’opposizione, per i quali ciò che fa chi governa è tutto sbagliato: tanto sbagliato che pure i suoi sostenitori si ritraggono. Conviene a chi governa, per sostenere che l’opposizione suscita altrettanto malcontento tra i propri elettori. Conviene soprattutto a chi vuol mettere in discussione l’attuale stato delle istituzioni democratiche, introducendo procedure in apparenza più democratiche – referendarie o deliberative, ad esempio – ovvero in apparenza più efficienti, meno tortuose, meno inclini alla mediazione e al compromesso: la democrazia del Parlamento e dei partiti è, per il bene dei cittadini, un dispositivo da archiviare. Ma se l’accordo è ampio, dati e fatti sono interpretabili anche in modo diverso da come si usa fare. Si prenda anzitutto l’astensione. Il trend astensionista è rimasto in salita per quarant’anni. Ma ultimamente si è verosimilmente interrotto. Paesi pervicacemente astensionisti come la Francia hanno registrato vistosi recuperi di partecipazione elettorale. Così gli Stati Uniti. Perfino nel Regno Unito si sono recuperati cinque punti nelle due ultime elezioni. Vedremo se la tendenza è duratura, ma forse non è neanche il recupero che importa, quanto il significato dell’astensione. L’astensionismo è aumentato negli ultimi quarant’anni soprattutto tra i ceti abbienti e istruiti. Allo stesso modo è cresciuto l’astensionismo intermittente: quello di chi a volte vota e altre volte si astiene. Entrare nelle tantissime teste degli elettori è sempre impresa azzardata. Ma c’è motivo di ritenere che l’astensionismo sovente non sia sintomo di spoliticizzazione, bensì, al contrario, di politicizzazione. Capita di astenersi non perché si rifiuta la politica in blocco, ma perché si vuol sanzionare questa o quella parte politica. Quando non succede che ci si astiene – come nel caso di alcuni referendum italiani – proprio in obbedienza alle direttive di qualche attore politico!

Non è segno di disaffezione neppure la cresciuta volubilità elettorale. Gli elettori che cambiano preferenza, quando è loro consentito, sono aumentati. Ma lo fanno in genere entro il proprio schieramento, o a favore del non voto. O ancora (specie a destra) a beneficio dei partiti di protesta, il cui consenso è infatti alquanto instabile. Non è segno di disaffezione neppure la più ridotta propensione ad aderire ai partiti. A parte ogni considerazione che si possa avanzare sulla crescente preferenza per altre opportunità di partecipazione – la cosiddetta società civile –, d’altronde incoraggiata dalla persistente esaltazione delle sue virtù nel discorso pubblico, è innegabile che i partiti siano cambiati: culturalmente, anzitutto, e organizzativamente. Da partiti membership intensive si sono trasformati in partiti leadership (e media) intensive. Infine, ai cittadini delle democrazie avanzate si offrono anche strumenti alternativi all’azione collettiva per far valere le loro pretese. I diritti li si difende più agevolmente in tribunale che non scendendo in piazza. E pure i modelli associativi si sono considerevolmente evoluti. Le mailing list – e i contributi erogati, da chi può, via carta di credito – costituiscono una forma di solidarietà e partecipazione più agevole che non quella tradizionale. Che dire poi delle folle festanti di Milano e di Napoli la notte del 30 maggio scorso e quella del 14 giugno in tutta Italia? E che dire del successo delle ormai numerosissime primarie tenutesi sempre in Italia negli ultimi anni? Aggiungiamoci le manifestazioni di piazza svoltesi in tutta Europa su iniziativa di partiti e sindacati nell’ultimo decennio, nonché gli affollatissimi meeting elettorali indetti da Ségolène Royal nel 2005 e da Barack Obama nel 2007. C’è poi la grande mobilitazione di attivismo spontaneo a suo tempo suscitata dal medesimo Obama, simile a quella che ha preceduto il già citato referendum del 12-13 giugno: la rete è stata largamente utilizzata, si è fatta propaganda porta a porta, qualcuno ha finanche inventato il “Taxi Quorum”. E non è neanche il caso di ravvisare in tanta spontaneità un segno di avversione verso i partiti. E come giudicare le migliaia di “indignati” (pour cause) di Madrid e di Atene? Si tratta ovviamente di forme ben diverse di spontaneità, nessuna delle quali va comunque intesa quale segno di ostilità irriducibile contro i partiti. Non contentiamoci delle parole d’ordine a volte adoperate; forse le cose sono più semplici: i partiti non dispongono più di capillari apparati di mobilitazione e allora interviene il fai da te. Lungi dall’essere universalmente odiata, la politica seguita ad appassionare parti – minoritarie, ma non irrilevanti – della cittadinanza e non è necessariamente invisa alle altre. O se è invisa a parole, c’è da capire cosa le parole significhino. Nulla autorizza troppo perentorie conclusioni.


La democrazia non è un mercato

A questo punto, gli ostinati sostenitori della teoria del malcontento generalizzato sciorineranno i sondaggi e le loro inoppugnabili evidenze. A chi li interroga i cittadini si dichiarano scontenti delle classi dirigenti democratiche. Per nostra fortuna, sono soddisfatti della democrazia in quanto forma di governo e la preferiscono a ogni altro regime. Anche questa evidenza è però dubbia quanto mai. In primo luogo in ragione dello strumento utilizzato. Anche a considerare unicamente quelli condotti in maniera altamente professionale, i sondaggi hanno l’inconveniente di comprimere e omologare le variegate opinioni degli intervistati – che sovente, peraltro, non hanno alcuna opinione, o ne hanno di molto approssimative – in un numero ristretto di items, predisposti da sondaggisti e studiosi. Figli del marketing, nati per condurre indagini di mercato, i sondaggi hanno però soprattutto un’intrinseca tendenza anche a distorcere l’opinione degli intervistati. Dai cittadini essi pretendono giudizi, e giudizi, tendenzialmente critici, essi producono: giudizi di customer satisfaction. Confermano codesta distorsione le lenti teoriche con cui correntemente s’interpretano le risultanze dei sondaggi – applicate pure alle consultazioni elettorali – e dunque la teoria democratica in auge. Secondo tale teoria, la democrazia è un mercato concorrenziale, ove gli elettori si aggirano per scegliere liberamente il prodotto che più corrisponda ai loro gusti e convenienze. Benché questa sia la teoria prevalente, non è però detto che gli elettori vi si adeguino. Non vi si adeguano nemmeno le forze politiche, che paiono condividerla. Le quali non puntano solo sull’offerta di leadership e di programmi, ma si adoperano per mobilitare gli elettori anche in maniera capillare, utilizzando tecniche di comunicazione e convincimento quanto mai convenzionali (militanza, clientelismo ecc.). Insomma se c’è una cosa che gli elettori non sono è consumatori politici. Oltre a votare quasi sempre allo stesso modo, o con variazioni contenute (tra cui è compreso il momentaneo tradimento per dispetto!), gli elettori votano di regola alla luce di orientamenti politici che durano nel tempo, maturati dall’adolescenza, in genere in famiglia, o nell’ambiente scolastico, oppure ancora sul luogo di lavoro. I casi in cui tali orientamenti si modificano stabilmente sono pochi e tali modificazioni richiedono svolte biografiche di rilievo: un’improvvisa salita o caduta, ad esempio, sulla scala sociale, un drastico cambiamento di condizione occupazionale, una rottura familiare ecc. Altro che consumatore politico accorto! Il modo in cui l’elettore ragiona somiglia ben di più a quello del fedele o del tifoso. Quello tra governati e governanti non è un rapporto contrattuale, dove i primi concedono consenso e obbedienza in cambio di servizi. I governati di regola obbediscono o si conformano, anche se questo non è prova di consenso. Nemmeno il voto è un rapporto contrattuale. L’eventualità del voto di scambio non è esclusa, ma il voto di scambio è un fatto collettivo: ovvero si verifica entro un contesto sociale nel quale l’elettore è inserito, è coltivato e se ne sollecitano le aspettative. Gli uomini politici devono considerare esigenze e attese dei cittadini, avanzano promesse per essere eletti, ma solo una minoranza di elettori è in grado di ragionare puntualmente in termini di performance e di benefici ottenuti o ottenibili, di elaborare autonomamente i propri motivi di disagio, d’imputarli alla politica – e alle scelte politiche – e di trarne conclusioni politicamente ed elettoralmente rilevanti. In quanti, ad esempio, tra coloro che per mille ragioni gli osservatori ritengono oggi vittime del governo Berlusconi e delle sue politiche, seguitano senza esitazioni a votarlo? In quanti sono consci della portata e degli effetti delle suddette politiche – che li penalizzano non poco – e quanti invece aderiscono a una figura che ha saputo porsi come portavoce dei loro bisogni e valori, e magari anche si adorna di virtù che si sono fatte diventare di gran pregio? Peraltro, se la disuguaglianza è stata cancellata dal novero dei temi politici, se la si è emarginata dal dibattito pubblico e naturalizzata perfino agli occhi dei ceti deboli, perché mai l’uomo della strada dovrebbe attribuirne la responsabilità a chi governa? Gli esseri umani non vivono di politica, in prevalenza la loro comprensione dei suoi problemi e linguaggi è limitata e nulla hanno in contrario a che qualcuno se ne occupi per loro conto. Di solito, pensano di più a sbarcare il lunario, alla famiglia, o, quando possono, alle vacanze o alla pizza del sabato sera. La politica sarà pure onnipresente, la TV la somministrerà in dosi da cavallo, ma l’uomo della strada si sente per prima cosa impotente e lontano: il che non significa ostile. La sua soglia d’attenzione si alza in occasione delle elezioni, ma non più di tanto e pur sempre per un momento. Non manca chi sia mediamente politicizzato e chi lo sia anche parecchio. A momenti pure i meno politicizzati scendono in piazza, per protestare per un’infrastruttura invasiva, per le quote latte, per la mensa scolastica. Ma ciò accade appunto a momenti. Perché qualcuno s’interessi in permanenza, si ravvicini alla politica, vi si identifichi e la rispetti, serve che qualcun altro gli dedichi puntuali e costanti attenzioni. Succede pure nella sfera religiosa. Se il parroco, o chi per lui, o gli altri parrocchiani, non inciteranno i fedeli, nei modi più diversi, la loro partecipazione si ridurrà all’obbligo della messa domenicale inculcato al catechismo e alla lunga si esaurirà. Il sentimento religioso è un privilegio di pochi. Per contro, dir male della politica è un rito, anche per l’uomo della strada. Non è un rito recente: dir male della politica è usanza tanto antica quanto tenace. Così com’è un’abitudine per i contadini dolersi dei cattivi raccolti. A ravvivare il rito provvede ultimamente il proliferare incontrollato dei discorsi antipolitici. Tutti parlano male della politica – è inefficiente, è corrotta, è ingiustamente privilegiata – e lo fanno da qualsiasi tribuna: giornalisti e anchormen, imprenditori, politici non convenzionali, lo stesso establishment politico. Cosa si pretende allora dai cittadini? Che manifestino affetto per qualcosa che gli stessi addetti ai lavori mostrano di spregiare? La novità sta semmai nel gran numero di attori e di agenzie che si adoperano per misurare, amplificare e denunciare – per propri fini politici – il preteso malessere dei cittadini, elevandolo allo stato di fastidioso rumore di fondo, che però non serve tanto a stimolare i politici quanto unicamente a delegittimarli e a delegittimare le istituzioni democratiche.  


Tanti motivi di dissenso, non un malessere generalizzato

Non è nostro intendimento sfatare la leggenda metropolitana evocata in partenza per sostenere che i cittadini siano soddisfatti e che i politici siano tutti dei galantuomini incompresi. Sarebbe sciocco anche questo. Ma sotto le cortine fumogene dell’avversione generalizzata per la politica si nascondono molte cose. Ovvero: i cittadini non sono insoddisfatti in blocco e di tutta la politica, e c’è malcontento e malcontento; c’è molta indifferenza e non mancano la soddisfazione o la speranza di una soddisfazione futura. Gli elettori di chi al momento governa sono più soddisfatti di quelli di chi sta all’opposizione, anche se qualche mal di pancia non è escluso. C’è chi si rallegra per le riduzioni fiscali e contestualmente si duole delle decurtazioni al welfare. C’è chi apprezza appassionatamente il leader e dubita dei suoi ministri, o viceversa. Gli elettori dei partiti d’opposizione sono rassicurati dalla loro presenza, ma qualcuno è pure inquieto per il loro operato e la loro efficacia. Ci sono gli indignati, i conformisti, i pazienti, i nostalgici, i fiduciosi, i rassegnati, i distratti e i protestatari ringhiosi. Se la politica è interesse quotidiano per pochi, e ancor meno numerosi sono coloro che ne intendono appieno i linguaggi, i casi immaginabili sono innumerevoli: prendere troppo sul serio le sintesi suggerite da una tabella o da un diagramma e trarne generalizzazioni improprie serve a fare i titoli sui giornali e a imbastire qualche polemica politica, ma non a capire cosa accade. Chi si ricorda della favola della protesta (e del sacco) del Nord con cui da due decenni si legittima una selvaggia decurtazione dei trasferimenti (anche dovuti) al Mezzogiorno? E questo solo perché una parte, consistente quanto si voglia, ma pur sempre minoritaria, dei votanti per il centrodestra nel Nord, che sono a loro volta metà all’incirca dei votanti (e una frazione ancor più ristretta della popolazione), ha deciso di votare la Lega? Siamo seri. Non sarebbe meglio dire che la protesta del Nord è quella di un pezzo tutt’altro che ampio di società italiana, piuttosto ricco e preoccupato di perdere il suo benessere, cui la Lega offre il modo di consolarsi prendendosela con il Mezzogiorno, gli immigrati e la sinistra? Peccato che il malessere del Sud, che è un malessere ben più ampio, dovuto a povertà, non abbia trovato come manifestarsi: è malessere da poveri e a distoglierlo basta la promessa di un po’ di assistenza. Ciò non vuol dire che siano sciocchi; è sciocco piuttosto chi accusa i meridionali di non saper scegliere i propri rappresentanti, quasi che gli elettori scelgano i loro rappresentanti come scelgono il gusto del gelato. La vita associata, com’è sempre accaduto, è disseminata di mille ragioni di sofferenza. Per un osservatore un po’ attento, non è un giudizio temerario imputarle almeno in parte alle misure politiche adottate (o non adottate) attualmente e alle disuguaglianze che, dopo un breve declino, sono tornate ad aggravarsi. Le policies sembrano rassegnate alle disuguali condizioni di vita, e alle non meno disuguali opportunità di ascesa sociale assai più di quanto non accadesse nella stagione del welfare, e per soprammercato la politica ci aggiunge una robusta dose di privilegi, distribuiti (ma non solo) secondo criteri di convenienza elettorale. È verosimile anche che grave imbarazzo suscitino i processi di globalizzazione, da quello occupazionale ai problemi d’integrazione sollevati dai flussi migratori: integrare gli “altri” è sempre stato un problema, figurarsi quando gli “altri” sono, a prima vista, lontanissimi. Non c’è dunque da stupirsi se tante forme di sofferenza, giustificate o ingiustificate che siano, provocano reazioni scomode per l’establishment politico. Ma non è malcontento generalizzato. Per contro critica, dissenso, resistenza passiva e attiva si manifestano in tanti luoghi e modi, anche spontaneamente e disordinatamente. Non mancano nemmeno le forme distruttive, che si preferisce (o conviene) derubricare da protesta a devianza. A furia di ripetergli che è sovrano, il popolo si prende talora sul serio e chiede rispetto. Vi sono reazioni individuali e reazioni collettive, reazioni silenziose e reazioni che si fanno vedere e anche fragorosamente sentire. Le piazze spagnole e greche affollatesi in questi giorni ne sono una variante. Il maggior torto che si possa comunque fare alle mille ragioni di sofferenza, e alle differenziate reazioni che suscitano, è dissolverle nel magma di un indifferenziato malumore antipolitico. Più che di un torto, però, si tratta di una mediocre strategia di autodifesa e di un errore politico. A prima vista serve a spoliticizzare e sminuire i motivi di sofferenza, ma serve soprattutto a portare acqua ai mulini dei demagoghi. Schumpeter sosteneva che le questioni politiche non si pongono autonomamente; qualcuno deve porle. Sussistono allo stato latente, alimentano a volte forme spontanee di dissenso, ma aspettano che qualche imprenditore politico abbia il know how e la capacità di elaborarle, la convenienza a farlo, e riesca soprattutto a persuadere individui e gruppi sociali che tali questioni li riguardano e che lui è il loro portavoce più credibile. Ora, d’imprenditori politici – grandi e piccoli, vecchi e nuovi – che svolgano questa attività in circolazione ve ne sono fin troppi. È tuttavia da vedere, con gli attuali dispositivi democratici, in quale modo la svolgano, o riescano a svolgerla: come prescelgano e trattino le domande latenti e in che modo cerchino di rimuovere i motivi di malcontento. Alcuni si propongono di alleviare il disagio sociale, effettivo o temuto che sia. C’è chi vorrebbe dargli ascolto e rimuoverlo. E vi sono anche coloro che si adoperano per occultarlo e deviarlo. Ma viene anche il sospetto che la democrazia attuale, per com’è fatta, e le classi dirigenti democratiche siano desensibilizzate rispetto alle esigenze dei cittadini e scoraggino in special modo gli imprenditori politici disposti a sollevare le esigenze dei ceti popolari. Che è un bel problema. Per ridurre, in conclusione, una questione complicata a una formula semplice: che non sia la politica democratica, per com’è fatta, che odia i cittadini – la loro parte più numerosa –, anziché i cittadini che odiano la politica? Difficile è dire se la politica in altre stagioni ascoltasse i cittadini più e meglio di quanto non faccia attualmente. Sappiamo però che il discorso pubblico, come attribuiva valore assai elevato al lavoro, così lo attribuiva alla partecipazione democratica – l’esercizio del diritto di voto, ad esempio, era un obbligo – e che i partiti erano macchine appositamente predisposte all’ascolto e al coinvolgimento degli elettori (magari nelle dubbie forme del clientelismo), innanzitutto convincendoli che tramite la politica si potevano affrontare i loro problemi. Di contro, quel che sembra accadere di questi tempi è che, tranne coinvolgimenti episodici (le primarie), la politica invita i cittadini a cavarsela da sé e incoraggia semmai quella forma di sotto-politica che sono la società civile e le associazioni, di quando in quando magari pescando un assessore da quelle parti. Siccome ciò che conta è quel che appare, quel che appare è che gran parte dell’establishment politico tratta i cittadini con fastidio (come tratta con fastidio il mondo del lavoro). Il fastidio è tanto palese che, mentre da un lato conferma il racconto del malessere generalizzato – e il serpente allora si morde la coda –, dall’altro offre ampi argomenti a quanti predicano l’antipolitica e alimentano sofferenze e paure. Pertanto, quella parte della politica che rifugge la demagogia – e per fortuna esiste – meglio farebbe ad aguzzare l’ingegno per curare le ragioni di sofferenza. Non è impresa facile: sono ragioni molteplici, eterogenee e ardue da coordinare tra loro. A rendere ancora più difficile il mestiere della politica sono i severi vincoli che gravano su di essa, posti dalle autorità e dai mercati sovranazionali, dalla concorrenza globale e via di seguito. Ma forse da qualche parte la terapia esiste e comunque va cercata. Qualcuno ha notato che l’ascesa del cosiddetto “populismo” è coincisa con il declino del “modello sociale europeo”? In fondo, se la politica ambisce a una miglior reputazione, di questo dovrebbe preoccuparsi.