Gli ostacoli sulla via di Lisbona

Di Marco De Andreis Sabato 01 Marzo 2008 00:42 Stampa
Le riforme strutturali sono la parte più importante – ma anche più difficile e più controversa politicamente – della Strategia di Lisbona. Riforme strutturali vuol dire deregulation, liberalizzazioni, riforme per l’apertura e il migliore funzionamento dei mercati del lavoro e dei prodotti. L’idea che esse siano essenziali per il rilancio dello sviluppo economico europeo precede il varo, nel marzo del 2000, della Strategia di Lisbona: Commissione e Consiglio le chiesero a voce sempre più alta ai paesi membri dell’Unione già durante la marcia d’avvicinamento all’Unione monetaria, ben prima dunque del gennaio 1999.
Le riforme strutturali sono la parte più importante – ma anche più difficile e più controversa politicamente – della Strategia di Lisbona. Riforme strutturali vuol dire deregulation, liberalizzazioni, riforme per l’apertura e il migliore funzionamento dei mercati del lavoro e dei prodotti. L’idea che esse siano essenziali per il rilancio dello sviluppo economico europeo precede il varo, nel marzo del 2000, della Strategia di Lisbona: Commissione e Consiglio le chiesero a voce sempre più alta ai paesi membri dell’Unione già durante la marcia d’avvicinamento all’Unione monetaria, ben prima dunque del gennaio 1999. Era chiaro a tutti, d’altronde, che l’euro e il Patto di stabilità avrebbero sbarrato la strada monetaria e quella fiscale alla crescita. Se non si può più favorire la crescita stimolando la domanda, occorre agire dal lato dell’offerta. E a questo servono le riforme strutturali. È abbastanza ironico che il patto che ha congelato le leve fiscali di tre quarti della zona euro si chiami «Patto di stabilità e crescita» (l’aggiunta del secondo termine fu un’idea dei francesi, imposta ai tedeschi, che in genere amano invece chiamare le cose con il loro nome). Di fatto, nella misura in cui esiste una politica economica dell’eurozona, questa dedica alla stabilità tutte le sue leve macro e affida la crescita solo alle leve micro. Insomma, a dispetto delle rassicuranti dichiarazioni che fanno parte della liturgia dell’Unione – del tipo: un quadro macroeconomico stabile è una condizione indispensabile per la crescita – stabilità e crescita non frequentano gli stessi posti. Ad esempio, la governance della stabilità è, nei suoi aspetti monetari, esclusivamente a livello comunitario. Rimane a livello comunitario anche nei suoi aspetti fiscali – almeno per quanto riguarda il volume della spesa pubblica, mentre la sua composizione è una prerogativa nazionale – con regole chiare e abbastanza semplici da applicare. Le cose sono assai più complicate con la governance delle riforme strutturali, cioè la governance dell’unica via alla crescita attualmente percorribile in Europa. Qui c’è un livello di governo comunitario di importanza capitale e questo è il mercato interno. Si potrebbe anzi sostenere che il mercato interno è stato – ed è tuttora – la madre di tutte le riforme strutturali. Accanto a quello comunitario c’è il livello di governo nazionale: gli Stati membri hanno grande, forse troppa, latitudine nel decidere quali riforme intraprendere, quali mercati aprire e come. E come se non bastasse, possono anche tardare a trasporre il diritto comunitario sul mercato interno, o trasporlo male, o violarlo ripetutamente, una questione annosa in cui l’Italia non ha mai brillato. Inoltre, in questa materia le regole non sono affatto chiare, né semplici da applicare. Qual è una buona riforma e quale una cattiva? Chi stabilisce le priorità? Gli effetti in termini di crescita, quando sono riconoscibili, si vedono dopo considerevoli intervalli di tempo. Con Lisbona è stato messo in piedi tutto un armamentario di indicatori, certamente utile. Ma gli indicatori illustrano, non sempre spiegano o giustificano. Ad esempio, l’Italia potrebbe vantare un buon successo in almeno uno dei due obiettivi di fondo della strategia di Lisbona: l’occupazione (l’altro è, appunto, la crescita). L’andamento del tasso di disoccupazione (-2,4% tra il 2000 e il 2005) e quello del tasso di occupazione (+3,9% tra il 2000 e il 2005) parlano chiaro. Eppure questo non basta ad assicurare un giudizio unanime sulle riforme del mercato del lavoro fatte nell’arco di tempo considerato. Ho chiamato il mercato interno europeo la madre di tutte le riforme strutturali perché la sua creazione ha comportato, e comporta, liberalizzazioni, aperture di mercati prima chiusi entro confini nazionali. Nei venti anni trascorsi dall’Atto unico, il mercato interno è stato un successo per quanto riguarda la libera circolazione dei beni e dei (grandi) capitali, un mezzo successo per la liberalizzazione dei servizi a rete, un insuccesso per quanto riguarda il resto dei servizi e il mercato del lavoro. L’integrazione del mercato del lavoro su scala europea dipende da alcuni aspetti apparentemente secondari – come la portabilità delle pensioni o il riconoscimento delle qualifiche professionali – sulle quali la Comunità ha tentato di intervenire per via legislativa, anche in tempi recenti. Ma è in ultima analisi una di quelle cose per le quali si vota con i piedi e gli europei non sono molto propensi a muoversi, nemmeno dentro i confini nazionali. È anche per questo motivo che le politiche del lavoro e della sicurezza sociale sono destinate a rimanere per lungo tempo ancora un prerogativa nazionale. Chi scrive è tra quelli che ritengono che il tentativo della Commissione di creare il mercato interno dei servizi attraverso un unico strumento legislativo, una direttiva quadro, sia fallito. Il compromesso che sta per superare l’ultimo scoglio con il voto del Parlamento europeo in seduta plenaria, ha una portata molto ridotta rispetto alla proposta originaria e farà ben poco per facilitare la libera prestazione dei servizi e la libertà di stabilimento dei prestatori. La vicenda è comunque molto istruttiva per inquadrare il problema delle riforme strutturali in Europa e in Italia. Intanto, lo svuotamento della direttiva non significa che il mercato interno dei servizi non si farà. Si farà, ma per (una assai più lunga e tortuosa) via giudiziaria, a suon di messe in mora della Commissione e ricorsi alla Corte di giustizia. Il dibattito sulla direttiva nel corso della prima lettura al Parlamento europeo era diventato, alla fine, una sorta di tiro al piattello per escludere à la carte questo o quel settore dal campo di applicazione. Ma, a meno di modifiche del trattato, gli articoli che garantiscono la libera prestazione dei servizi e la libertà di stabilimento dei prestatori sono sempre lì e hanno precedenza su qualunque direttiva. Tanto per fare un esempio, la Commissione solo qualche settimana fa ha minacciato un’azione legale contro Francia, Italia e Austria, accusate di ostacolare gli operatori stranieri di scommesse sportive e giochi d’azzardo. I relativi procedimenti andranno avanti a dispetto del fatto che i giochi d’azzardo siano stati esclusi – tra i primi, e quasi a furor di popolo – dal campo di applicazione della direttiva che sta per essere approvata. Che i deputati – sostenuti da alcuni governi, tra cui quelli di Francia e Germania – abbiano comunque fatto di tutto per allungare la lista delle esclusioni si spiega allora, o con l’ignoranza del primato del trattato, oppure con l’intenzione di ritardarne l’attuazione nel settore dei servizi. In entrambi i casi, questo atteggiamento non lascia presagire nulla di buono, né per il futuro del mercato interno, né per le riforme strutturali all’interno dei singoli paesi membri. In particolare, i deputati italiani al Parlamento europeo di qualunque parte politica hanno mostrato solo e soltanto una decisa opposizione alla proposta originaria della Commissione sui servizi. Con la sola eccezione di Marco Pannella e di Emma Bonino. Diventata ministro per le politiche europee – e dunque responsabile nel governo per il mercato interno – quest’ultima si è poi trovata, paradossalmente, a dover sottoscrivere in Consiglio il testo di compromesso che ha accolto tutti, o quasi, gli emendamenti del Parlamento europeo. Giorgio La Malfa, che occupava il posto della Bonino nel precedente governo, è stato un altro convinto sostenitore della direttiva servizi nella sua forma più liberalizzatrice. Sicché, se c’è una lezione da trarre è che i ministri sembrano essere più inclini dei deputati – e quindi, presumibilmente, dei loro elettori – a misure per l’apertura dei mercati. La direttiva sui servizi, fin dalla sua partenza, non riguardava le utilities, i trasporti, i servizi finanziari, le poste, tutti settori in cui c’è stata grande attività legislativa specifica. Il risultato è un mezzo successo, nel senso che non è uniforme e non è completo. Una forte concorrenza ha portato a sostanziali riduzioni dei prezzi al consumo nei settori del trasporto aereo e della telefonia mobile. In altri settori esistono strozzature fisiche – l’ultimo miglio nella telefonia fissa, l’interconnessione transfrontaliera nelle reti energetiche – che complicano e ritardano lo smantellamento dei relativi monopoli e l’abbattimento dei prezzi per famiglie e imprese. La mobilità dei capitali testimonia di un sistema dei pagamenti abbastanza integrato a livello europeo, ma nel settore retail siamo ancora molto indietro: di fatto un prestatore di servizi che decide di operare in uno Stato membro diverso da quello dove è stabilito ha costi proibitivi se prova a portarsi dietro il proprio conto corrente bancario o la propria assicurazione. Deve quindi duplicare tutto appoggiandosi ai servizi finanziari dello Stato di destinazione. La Commissione ha appena presentato una proposta per completare la liberalizzazione del mercato postale nel 2009. È la prima direttiva di peso nel settore dei servizi dopo quella quadro e sarà interessante seguire l’andamento del dibattito negli Stati membri e «tra» Stati membri, tenendo presente che stavolta certi interessi nazionali – per esempio di Francia e Germania – potrebbero divergere. Inutile aggiungere che la proposta è anche un’ottima occasione per discutere del futuro di Poste Italiane. È spesso al livello di governo comunitario, insomma, che si mettono in moto processi di apertura del mercato, altrimenti molto difficili da avviare in Italia. La Gran Bretagna o i paesi nordici hanno varie volte anticipato – ad esempio nelle TLC, nell’energia, nelle stesse poste – aperture di mercato contemplate nella legislazione comunitaria. L’Italia mai, o quasi mai. Ad un vincolo esterno a livello macro pare insomma corrispondere a livello micro uno «stimolo» esterno. Ma il mercato interno, pur contribuendo in modo importante alla crescita europea, non basta. La Strategia di Lisbona è il tentativo di mobilitare in parallelo riforme strutturali, risorse e politiche – nell’innovazione, nell’università e ricerca, nell’occupazione, nella coesione sociale – su scala nazionale, coordinandole attraverso la Commissione e il Consiglio con un metodo «aperto». Passati cinque anni dal suo lancio, nel 2005 i governi dell’Unione hanno dovuto apertamente prendere atto che i risultati sono stati scarsi, soprattutto rispetto agli eccessi retorici – «faremo dell’Europa entro il 2010 l’economia basata sulla conoscenza più dinamica del mondo» – con cui l’esercizio è stato inaugurato. Il Consiglio europeo di primavera ha deciso per un cambio di marcia: ciascuno Stato membro deve nominare un responsabile della Strategia di Lisbona e presentare entro il 15 ottobre un programma nazionale di riforma che copra il triennio 2006-2008. Il governo Berlusconi ha dato l’incarico al ministro per le politiche comunitarie, Giorgio La Malfa, che a sua volta ha nominato Paolo Savona a capo dell’omonimo dipartimento della presidenza del consiglio dei ministri, affidandogli la redazione del programma. I tempi erano strettissimi: meno di cinque mesi, con l’estate di mezzo, per parlare con quasi tutti i pezzi dell’amministrazione pubblica italiana, enti locali compresi, capire cosa stavano facendo in termini di innovazione, crescita e occupazione e se e cosa potevano fare di più, consultare a più riprese le parti sociali (quelle accreditate presso il Consiglio nazionale economia e lavoro sono 37!), scrivere materialmente un rapporto di 50 pagine più allegati, farlo approvare dal Consiglio dei ministri e mandarlo, con tanto di traduzione inglese, a Bruxelles. Un compito riuscito. Entro il 15 ottobre. Il merito maggiore del Piano per l’innovazione, la crescita e l’occupazione (PICO) – così si è chiamato, alla fine, il programma di riforma dell’Italia – è quello di aver fatto, nello strettissimo tempo disponibile, un censimento molto accurato di tutto quello che lo Stato e gli enti locali stavano «già» facendo per finalità coerenti con la strategia di Lisbona, spesso impegnandovi risorse ingenti, ma altrettanto spesso senza che un’amministrazione sapesse cosa faceva un’altra e senza una visione, un quadro d’insieme. Si è scoperto così, con una certa sorpresa, che il governo aveva stanziato quasi 30 miliardi di euro per l’innovazione, la crescita e l’occupazione tra il 2001 e il 2005, e ne aveva già previsti, in finanziaria, altri 3,8 per il periodo 2006-2008. Il PICO prevedeva di aggiungervi ulteriori 12,7 miliardi di euro, di cui 3 per il 2006, da reperire attraverso dismissioni di immobili di proprietà pubblica. Queste risorse aggiuntive, tuttavia, non si sono materializzate. Per la scarsa convinzione del resto del governo Berlusconi e in particolare del ministro dell’economia, Giulio Tremonti. Al quale ha fatto subito eco la Commissione europea, che è arrivata a scrivere nelle «Previsioni economiche di autunno 2005» che le cifre del deficit per il 2006 potevano migliorare attraverso «il possibile rinvio al 2007 delle spese legate all’agenda di Lisbona». Anche se La Malfa ha fatto di tutto per spiegare che, quando si tratta di spesa pubblica, «il treno di Maastricht ha la precedenza su quello di Lisbona» – eventuali nuovi risorse da destinare all’innovazione e allo sviluppo non dovrebbero pesare sul bilancio ma sul patrimonio – la Commissione ha dimostrato nei confronti dell’Italia un fortissimo bias pro-stabilità, a scapito di qualunque prospettiva di crescita. A capo della missione «tecnica» che la Commissione ha mandato nei paesi membri in estate, durante le consultazioni per la redazione del programma di riforma, c’era, per l’Italia, il funzionario tedesco Klaus Regling, direttore generale per gli affari economici e monetari, il guardiano in seconda della stabilità dopo il commissario Joaquín Almunia. È un caso? Può darsi. Fatto sta che chi scrive era presente all’incontro, nel luglio 2005, tra Regling e La Malfa e l’impressione che ne ricava è che, per il funzionario della Commissione quasi l’unica preoccupazione è l’andamento dei conti pubblici italiani, prima, e di gran lunga, di qualunque altra considerazione su un esercizio così difficile e complesso come il programma nazionale di riforma. E le riforme strutturali? Su queste il governo Berlusconi, approvando il PICO, ha preso un grosso impegno. Difatti, una sezione del documento è riservata a come «ampliare l’area di libera scelta di cittadini e imprese » e, tra le misure là indicate, si parla di «completare la liberalizzazione dei mercati recependo le indicazioni dell’Autorità garante per la concorrenza e delle autorità di settore». È un impegno che per qualche mese è rimasto lettera morta: di fatto la campagna elettorale è iniziata subito dopo la presentazione del programma di riforma, agli inizi del 2006, e il governo uscente non aveva alcuna intenzione di inimicarsi settori interi dell’elettorato mettendone in discussione le relative rendite e aprendoli d’improvviso alla concorrenza. Lo ha fatto, invece, il nuovo governo con il decreto «cittadino-consumatore» (decreto n. 223 del 4 luglio 2006, poi legge 248 del 4 agosto 2006). Il metodo adottato dal ministro dello sviluppo economico, Pierluigi Bersani, è stato esattamente quello delineato nel PICO: riprendere le indagini del garante della concorrenza, traducendo in legge le relative conclusioni e raccomandazioni. Al punto che nella presentazione del provvedimento è stata acclusa una tabella di corrispondenza tra le singole misure (riguardanti nove diversi settori, dai taxi alle banche, dalle farmacie alle professioni liberali) e le indagini conoscitive, o i pareri indirizzati al parlamento e al governo, da parte dell’Antitrust. C’è insomma tutto. Tutto, salvo un riferimento esplicito al programma di riforma e alla Strategia di Lisbona. Ecco allora un altro paradosso: la prima volta che l’Italia vara non una, ma un intero pacchetto di riforme strutturali – quelle che l’Unione ci chiede con insistenza da anni per rimettere in moto un’economia appesantita dal nostro imponente debito pubblico – manca di vendersele proprio laddove sono più richieste, cioè a Bruxelles. Poco dopo il decreto Bersani, comunque, il governo Prodi ha fatto suo il programma di riforma La Malfa-Savona. A metà del mese di ottobre il Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE) ha poi approvato e trasmesso alla Commissione europea il primo rapporto di attuazione del programma italiano, che, ricordo, copre il periodo 2006-2008. Questa volta, le misure del decreto «cittadino-consumatore» hanno avuto il rilievo che meritavano. Il che non ha impedito ad Almunia, uscendo da un incontro a Roma con il presidente del consiglio, Romano Prodi, il 24 ottobre scorso, di dichiarare seccamente: «La crescita italiana è bassa, servono riforme strutturali». Arriveranno altre liberalizzazioni? Di ulteriori segnalazioni dell’Antitrust non c’è alcuna scarsità. Semmai il problema – si legge in un capitolo del World Economic Outlook del 1994 dedicato alle riforme strutturali – è che «i guadagni derivanti dalle riforme prendono tempo a manifestarsi (...) inoltre, la loro grandezza è spesso incerta, dipende in modo complesso da altre caratteristiche strutturali di un'economia (...) c'è il rischio che gli uomini di governo si concentrino soprattutto sui costi a breve delle riforme e scontino pesantemente i benefici di lungo termine, nel timore che questi ultimi vadano a chi li succederà». Perciò «la vicinanza di elezioni può ostacolare le riforme, mentre il primo anno di un governo può facilitarle ». Proprio questo sembra essere accaduto in Italia nel passaggio tra il vecchio e il nuovo governo. Ed è anche facile pronosticare che la finestra di opportunità per un'ulteriore dose di deregulation rimanga aperta ancora pochi mesi. Se è così, il primo consiglio da dare al governo è proprio quello di essere quanto più possibile collegiale nel «lisbonizzare» le misure che intenderà prendere – cioè nel presentare le riforme, insistentemente richieste dalla Commissione europea, come necessarie all'interno di una strategia concordata a livello comunitario. Invece di incassare solo lezioni e rimproveri da Bruxelles, conviene al governo italiano imitare qualche altra capitale e usare, almeno di tanto in tanto, l'esecutivo comunitario come una sponda per far passare misure potenzialmente impopolari, almeno nel breve periodo. Conviene far leva, insomma, non solo sul vincolo, ma anche sullo stimolo esterno. Un secondo consiglio è quello di accompagnare le riforme con una stima dei loro effetti cumulativi, che si suppongono positivi, sulla crescita e l'occupazione – tanto più che se non lo fa il governo finiranno per farlo comunque, ma con un certo ritardo, la Commissione e il Comitato di politica economica dell’ECOFIN. In terzo luogo, converrebbe all'Italia battersi per la creazione di un Consiglio della crescita (o dello sviluppo), ben distinto dall'ECOFIN, che è in sostanza il Consiglio della stabilità, sia dal Consiglio competitività, che ha troppe formazioni e competenze. Questo sarebbe il modo migliore di dare forza in Europa a quanti vogliono promuovere le riforme strutturali. Un quarto e ultimo punto riguarda l'intero processo decisionale italiano concernente la Strategia di Lisbona e il programma di riforme. Le elezioni e il cambio di governo hanno fortemente condizionato sia la redazione che il primo anno di attuazione del nostro programma. D'ora in avanti, per la prima volta dal marzo del 2005, ci sarà finalmente tempo per andare al di là del repertorio di singole iniziative, prese autonomamente e in tempi diversi da differenti pezzi della pubblica amministrazione. In altre parole, il governo ha – per la prima volta, ripeto – il tempo di fare del programma di riforma uno sforzo collegiale in cui, in particolare nella parte microeconomica, vengono individuate priorità chiare cui assegnare risorse materiali e politiche. Nel farlo, se così deciderà, potrà comunque avvalersi di un anno e più di esperienza di consultazione a livello tecnico tra settori diversi della macchina statale in un organismo specifico (il CIACE). Esperienza niente affatto banale perché senza precedenti nello Stato italiano. Se si tiene presente, infine, che la Commissione e il Consiglio affineranno le proprie procedure di valutazione dei programmi nazionali e che quindi diventerà via via più complesso giustificare e sostenere le scelte fatte nel nostro, allora si capisce quanto sia opportuno dare avvio subito a un ulteriore cambio di marcia nella strada che porta a Lisbona.