Cina: crescita, squilibri, opportunità

Di Ferdinando Targetti Venerdì 29 Febbraio 2008 23:36 Stampa
In Cina la rapidità del cambiamento del paese è evidente ad occhio nudo, basti pensare al fiume di biciclette a Pechino, che nel giro di un paio d’anni è stato sostituito da un impetuoso fiume di automobili. Di tale rapidità di cambiamento non c’è da stupirsi se si guardano i dati dell’economia cinese. Dal 1990 ad oggi la produzione industriale è cresciuta del 10% annuo medio (in certi anni fino al 14%), in questo lasso di tempo il PIL si è triplicato e il suo valore ha superato quello dell’Italia, quello del Regno Unito e quello della Francia. In termini pro capite la crescita è quasi altrettanto consistente, considerando i tassi di incremento demografico che la politica del figlio unico rende contenuti. In genere dopo un boom così prolungato e a tassi di crescita così elevati (superiori a quelli di qualsiasi paese prima di ora, anche del Giappone nel secondo dopoguerra) si presentano netti segni di rallentamento.
LA FORTE CRESCITA CINESE E I SUOI SQUILIBRI In Cina la rapidità del cambiamento del paese è evidente ad occhio nudo, basti pensare al fiume di biciclette a Pechino, che nel giro di un paio d’anni è stato sostituito da un impetuoso fiume di automobili. Di tale rapidità di cambiamento non c’è da stupirsi se si guardano i dati dell’economia cinese. Dal 1990 ad oggi la produzione industriale è cresciuta del 10% annuo medio (in certi anni fino al 14%), in questo lasso di tempo il PIL si è triplicato e il suo valore ha superato quello dell’Italia, quello del Regno Unito e quello della Francia. In termini pro capite la crescita è quasi altrettanto consistente, considerando i tassi di incremento demografico che la politica del figlio unico rende contenuti. In genere dopo un boom così prolungato e a tassi di crescita così elevati (superiori a quelli di qualsiasi paese prima di ora, anche del Giappone nel secondo dopoguerra) si presentano netti segni di rallentamento. Non è così per la Cina: le stime per il primo semestre di quest’anno mostrano una crescita del PIL che supera l’11%, delle esportazioni che supera il 25% e degli investimenti fissi che supera il 31%. Questa crescita forsennata però produce non pochi problemi. Le stesse autorità cinesi quest’estate denunciavano problemi legati ad eccesso di investimenti, eccesso di liquidità ed eccesso di riserve valutarie. Per capire in che cosa consistono i problemi dobbiamo ricordare su che cosa si basa il modello di crescita cinese. Le riforme economiche degli anni Ottanta si sono basate su ristrutturazione e autonomizzazione delle imprese pubbliche, basso costo del lavoro mantenuto tale dalla immigrazione di lavoratori dalle campagne alle città, alto tasso di risparmio e apertura al mercato internazionale e all’importazione di capitale estero. Si potrebbe dire che è un modello di crescita alla Lewis inserito nel mercato aperto dell’attuale fase di globalizzazione. Gli effetti di questa politica sono stati da un lato un elevatissimo tasso di investimento, che ha determinato uno straordinario tasso di crescita, e dall’altro un elevato tasso di risparmio e un’elevata competitività dei prezzi, che hanno determinato un forte attivo commerciale e crescenti riserve valutarie, che hanno raggiunto i mille miliardi di dollari. Questo modello di crescita ha due grandi meriti. Uno è quello di aver fatto uscire dalla povertà centinaia di milioni di cinesi (dal 1978 al 1999 il numero di cinesi che si collocano sotto la soglia della povertà, calcolata come un dollaro al giorno a parità di potere d’acquisto, è passato da seicento a trentaquattro milioni), l’altro è quello di aver fatto assumere alla Cina un posto tra le grandi potenze economiche del mondo, un posto che per duemila anni aveva mantenuto e che aveva cominciato a perdere nel XIX secolo con l’avvio della rivoluzione industriale in Europa. Tuttavia questo modello è anche responsabile di gravi squilibri esterni e interni al paese. Verso l’esterno si registrano, oltre a quello ecologico, due squilibri importanti. Innanzitutto la forte crescita industriale cinese determina una pressione sulla domanda mondiale e quindi sui prezzi delle materie prime, tra cui il petrolio (che quest’anno ha raggiunto i 75 dollari al barile), che può determinare pressioni inflazionistiche a livello mondiale; in secondo luogo il forte avanzo commerciale si riflette in un altrettanto rilevante disavanzo commerciale degli Stati Uniti (indotto anche dal basso tasso di risparmio americano). Lo squilibrio non ha finora determinato gravi pressioni sul dollaro perché le autorità cinesi investono le riserve monetarie in titoli di Stato americani, ma l’equilibrio è precario e se non è ben gestito potrebbe dare origine ad una grave crisi valutaria internazionale. Ma gli squilibri della crescita cinese sono non meno gravi all’interno del paese. Il principale squilibrio è quello che si è venuto a creare tra zone rurali povere e zone ricche di moderna industrializzazione, soprattutto sulla costa (ma ci sono anche regioni di industrializzazione obsoleta, come la Manciuria, che sono povere): sette anni fa il reddito pro capite delle otto province più ricche era due volte maggiore delle venti più povere e oggi è diventato tre volte tanto. Nelle aree rurali, che sono quelle che hanno sofferto di più per lo smantellamento del sistema sanitario pubblico avviato negli anni Ottanta, secondo il rapporto dell’ONU sulle risorse umane (dati 2001), il tasso di mortalità infantile supera di tre volte quello delle città (il tasso di mortalità di Shanghai, 8 per mille, è vicino a quello degli Stati Uniti; nella provincia di Guizhou è invece di 60 per mille come nei paesi più poveri dell’Africa). Altri gravi squilibri riguardano la rapida accelerazione del divario tra individui ricchi e poveri, che ha raggiunto livelli da America Latina (il 10% più povero della popolazione ha una quota dell’1,8% del reddito nazionale, mentre il 10% più ricco ha una quota del 33%), e tra lavoratori qualificati e non qualificati, oltre ad un marcato degrado ambientale dovuto alla rapida e incontrollata industrializzazione. Desta preoccupazione anche un sistema finanziario sovraesposto, poco trasparente e non dotato di adeguati strumenti di controllo di stabilità. Finora l’economia cinese non ha conosciuto inversioni di rotta, ma il ciclo economico è un prodotto dell’economia di mercato, che non credo sia stato cancellato nemmeno dall’ibrida economia cinese. In realtà nella forte crescita cinese si ritrovano gli ingredienti tipici dei cicli di natura keynesiana e kaleckiana, laddove l’iperinvestimento porta ad alta capacità produttiva inutilizzata e a conseguente riduzione degli investimenti e inversione del ciclo. La corsa cinese, essendo molto rapida, rischia che la sua frenata sia altrettanto brusca e questo può portare con sé una crisi finanziaria la cui estensione non si fermerebbe ai confini dell’Impero di mezzo, se si tiene conto del legame che si realizza, soprattutto ad Hong Kong, tra grandi banche cinesi e investitori internazionali. È di questi giorni la notizia che alla borsa di Pechino la Industrial and Commecial Bank of China ha raccolto, nel più grande collocamento azionario della storia, 19,1 miliardi di dollari con grande facilità dato che gli investitori (nazionali e internazionali) hanno inserito ordini per 500 miliardi di dollari, una cifra quasi doppia della capitalizzazione della Citigroup, la più grande banca del mondo. Per comprendere il meccanismo dell’iperinvestimento cinese, un’importante considerazione ci viene dalla Banca mondiale, ripresa dall’Economist del 29 luglio. In Cina la quota di reddito nazionale risparmiata, come noto, è altissima: più del 40%. Meno noto è il fatto che la fonte principale di tale risparmio siano le imprese, con più del 20%, seguono le famiglie con più del 15% e infine il governo (surplus di bilancio) che contribuisce con il 5%. La ragione di ciò risiede nel retaggio storico della riforma degli anni Ottanta: a quell’epoca le imprese statali dovevano usare i profitti per ristrutturarsi e i profitti erano magri. Oggi quelle imprese si sono ristrutturate, i profitti sono molto alti (nel 2005 le 169 imprese maggiori hanno ottenuto 75 miliardi di dollari di utili), ma continuano ad essere trattenuti dalle imprese. Con la riforma del 1994 le imprese cinesi sono tenute a pagare il 33% dell’utile (le imprese straniere in partnership circa la metà) sotto forma di imposta. Tutto il resto non è distribuito come dividendo, ma trattenuto e reinvestito. Non stupisce quindi che la quota di investimenti fissi sia molto elevata (si aggira sul 40% del PIL). La disponibilità amplissima di risparmio, attraverso il reinvestimento degli utili e il credito facile, ha portato ad un incremento degli investimenti anche quando la redditività degli investimenti stessi non giustificava la loro attuazione. Il risultato è stato una caduta della produttività totale dei fattori. La soluzione al problema va cercata nella riduzione del livello dell’investimento, nella riallocazione dell’investimento stesso e nella ricomposizione della domanda aggregata. Nel 1956 proprio a Pechino lord Kaldor tenne una lezione dal titolo «L’evoluzione capitalista alla luce dell’economia keynesiana» in cui distingueva la crescita accelerata «classicomarxiana », nella quale i salari reali rimanevano costanti e il profitto, che cresceva come quota, veniva tutto reinvestito e la crescita stabile keynesiana in cui rimaneva costante sia la quota salario, sia la quota profitto. Ebbene non è infondato sostenere che ci siano molte ragioni che dovrebbero spingere la Cina a passare dal primo al secondo modello di crescita. Per contenere l’espansione dell’investimento gli strumenti macroeconomici tradizionali sono l’innalzamento dei saggi di interesse e la rivalutazione della moneta. Tuttavia in Cina entrambi gli strumenti sono poco efficaci. I tassi di interesse sono stati recentemente aumentati di un quarto di punto e sono state aumentate le riserve obbligatorie delle banche, ma il credito è erogato con criteri non di mercato e le banche periferiche sono poco propense ad ascoltare le direttive della banca centrale, volte a contenere l’espansione del credito, e più propense ad ascoltare le autorità politiche locali, preoccupate di non trovarsi di fronte ai gravi problemi sociali che deriverebbero da masse di immigrati dalle campagne che perdono il lavoro. Il risultato dell’elevato risparmio interno e la segmentazione del mercato finanziario domestico rispetto a quello mondiale fanno sì che il saggio di interesse interno sia circa un punto e mezzo inferiore a quello guadagnato dai cinesi sulle loro riserve (per lo più investite in titoli di Stato americani). I saggi di interesse, quindi, sono e continuano a restare bassi e a non rappresentare un freno agli investimenti. Circa il cambio bisogna ricordare che, malgrado il livello costante del cambio nominale dal 1994 e la leggera svalutazione dell’ultimo anno, il tasso di cambio reale si è stabilmente deprezzato (secondo la J P. Morgan del 7% negli ultimi otto anni) perché il tasso di inflazione cinese è stato inferiore a quello americano. Alcuni centri studi (ad esempio quello della banca svizzera UBS) stimano che il renminbi sia sottovalutato di circa il 20%. La rivalutazione della moneta è la politica suggerita da Washington, ma le autorità cinesi sono restie ad adottare questa misura in dosi massicce per almeno due ragioni. Innanzitutto perché ridurrebbe il valore delle riserve in dollari. In secondo luogo perchè impoverirebbe i contadini cinesi. Infatti il prezzo delle derrate alimentari è definito in dollari dalle borse mondiali; se il dollaro si svalutasse il contadino cinese, a parità di produzione, avrebbe un minore potere d’acquisto di merci cinesi. Le autorità cinesi, se lo vogliono, possono tenere la moneta sottovalutata e i saggi di interesse bassi per un lungo periodo e di conseguenza l’economia ad un elevato numero di giri, ma questo non esclude i rischi di un crack. La strada che le autorità cinesi dovrebbero battere non è tanto quella monetaria (aumento dei saggi di interesse e del cambio), ma quella reale della modifica della composizione degli investimenti e in generale della domanda aggregata. Gli investimenti oggi si indirizzano verso il settore industriale e le province ricche costiere, si indirizzano poco verso l’interno del paese e poco verso i servizi di welfare. Una strada per ridurre il tasso di investimento e di crescita e nel contempo per ridurre i tassi di disuguaglianza (tra province e tra cittadini) potrebbe consistere in una maggiore distribuzione di dividendi allo Stato e una maggior spesa sociale da parte dello Stato. I profitti delle imprese pubbliche cinesi sono il 170% della spesa in educazione e sanità: basterebbe che un terzo dei profitti fosse ridistribuito e fosse destinato a queste voci che queste aumenterebbero del 50%. Nella Cina precedente alla riforma i servizi di welfare erano offerti dalla imprese pubbliche. Oggi poche imprese offrono ancora questi servizi e lo Stato non ha rimpiazzato quelle che hanno smesso di farlo. L’educazione non ha seguito il passo della crescita economica (negli anni Novanta la spesa pubblica in educazione rispetto al PIL non è cresciuta e resta sotto all’obiettivo del 4% che nel 1993 le autorità cinesi si prefiggevano per il 2000). Nelle province povere non è infrequente che non si riescano a pagare gli insegnanti. La spesa pubblica per l’educazione in Cina è minore che in India. L’offerta di servizi sanitari segue le regole del mercato: se un cittadino non può permettersi le cure nessuno se ne fa carico. Nella Cina «comunista» il sistema sanitario e dell’educazione è molto più brutalmente di mercato che negli Stati Uniti. L’80% della popolazione rurale non ha un’assicurazione sanitaria e spesso rinuncia a curarsi perché costa troppo. Anche i sussidi di disoccupazione non coprono le esigenze. Per questa ragione il risparmio delle famiglie, che assume natura precauzionale, è molto alto e si avvicina al 50% del reddito delle famiglie. Le autorità cinesi sono consapevoli dei termini della questione e il Partito comunista cinese si è posto come obiettivo la riduzione degli squilibri sociali. Gli ostacoli principali potrebbero derivare dalla struttura amministrativa decentrata, ma alcune misure sono già state adottate, come per esempio il dirottamento degli investimenti esteri verso le zone meno sviluppate e l’aumento dei salari a Guandong e a Shangai. La recente rimozione del vertice politico di Shangai può forse essere letta anche alla luce di una minore attribuzione di poteri alle regioni più ricche. Non è perciò infondato l’ottimismo di coloro che pensano che le capacità di governo della classe politica cinese e dei suoi vertici saranno in grado di affrontare questi problemi. L’anno scorso il Comitato centrale del Partito comunista cinese ha varato il piano quinquennale 2006-2010 in cui i vertici affermano che «dobbiamo concentrare i nostri sforzi sull’equità sociale, dobbiamo correggere la distribuzione del reddito e impegnarci a fondo per alleviare la tendenza al crescente divario di reddito tra le regioni e tra alcuni ceti sociali». La storia cinese del XX secolo ci ha insegnato che, nel bene e nel male, il paese è capace di cambiamenti rivoluzionari, rilevanti e profondi: dal feudalesimo alla modernità, dalla stagnazione egualitaristica alla crescita rapidissima di reddito e disuguaglianze. Non difettano di coraggio nell’affrontare il nuovo, anzi spesso nella distruzione del vecchio gettano il bambino insieme all’acqua sporca. Oggi il paese deve affrontare questa nuova rivoluzione: dall’accumulazione forsennata e sperequata ad una società con maggiore equità nella distribuzione personale e geografica di consumo pro capite. Questa prospettiva porterebbe con sé una società più aperta e democratica e una presenza della Cina sullo scacchiere economico internazionale meno preoccupante. L’APERTURA DELL’ECONOMIA CINESE, IL «PERICOLO CINA» E L’ITALIA Una politica di maggiore consumo interno, come quella appena prospettata, comporta una riduzione di quell’avanzo commerciale cinese che tanto preoccupa le autorità monetarie americane e una parte del mondo dell’industria dei paesi occidentali, tra cui molte piccole e medie imprese italiane. Ma andiamo con ordine. Gli effetti della crescita cinese sul resto del mondo sono molteplici e articolati. Sul fronte dei prezzi gli effetti sono duplici. Da un lato la forte crescita della produzione manifatturiera determina una pressione inflazionistica sui mercati mondiali delle materie prime; dall’altro il boom dell’economia cinese si basa, per ora, sull’esportazione a buon mercato di manufatti di settori tradi zionali; questo comporta una crescita dell’offerta mondiale di questi prodotti e una drastica riduzione dei loro prezzi. Una caduta dei prezzi di beni di largo consumo significa un aumento del reddito disponibile dei consumatori. L’aumento di reddito significa maggiore domanda di beni di altri settori (manifatturiero e soprattutto dei servizi), che in parte compensano la perdita di reddito dovuta ad una minore produzione nazionale dei beni importati. Questo vale anche per l’Italia. Le famiglie italiane spendono circa il 10% del loro reddito in tessili, abbigliamento e calzature: una caduta del 20% del prezzo di questi beni significa un aumento del 2% del reddito disponibile che può essere speso in altri comparti produttivi. Sul fronte della produzione gli effetti della crescita cinese hanno avuto un impatto geograficamente distribuito in modo non uniforme. Va innanzitutto ricordato che la Cina è un’economia aperta, molto più aperta di quanto non lo fosse il Giappone quando cresceva a tassi elevati, e ha dato negli anni recenti un contributo alla crescita dell’import mondiale perfino maggiore di quello degli Stati Uniti. Questo è il risultato non solo di una straordinaria crescita del reddito, ma anche di una drastica riduzione dei dazi cinesi sull’import, che sono scesi dal 43% del 1991 al 12% del 2003 e si prevede che scendano al 5,7% nel 2011, in seguito agli accordi con il WTO. Di questa situazione non tutti i paesi si sono avvantaggiati allo stesso modo. Tra il 1994 e il 2003 le esportazioni del resto del mondo verso la Cina sono aumentate del 257%, quelle dell’Europa del 187%, quelle dell’Italia del 58% solamente. Nei primi sei mesi di quest’anno i cinesi hanno esportato verso il resto del mondo circa 400 miliardi di dollari, ma ne hanno importato più di 300, con un avanzo di 100 miliardi che è meno del 25% delle esportazioni. Verso l’Italia invece l’anno scorso la Cina ha esportato per 17,4 miliardi di dollari e importato per 5,7 con un avanzo di 11,7 miliardi, che è il 67% delle esportazioni cinesi in Italia. Il nostro sistema produttivo non ha sfruttato finora le opportunità offerte dal mercato cinese, come altri paesi sono stati in grado di fare, malgrado sia il terzo paese fornitore e il quarto paese cliente della Cina in ambito europeo. Gli altri paesi hanno attuato da tempo una politica di penetrazione in Cina che abbina la penetrazione commerciale con quella degli investimenti diretti. Le strade di Pechino sono invase da automobili tedesche, la distribuzione dell’acqua e gli impianti di depurazione nelle quattro principali città sono ad appannaggio dei francesi, la tecnologia dei velocissimi treni elettromagnetici è tedesca, la presenza più massiccia nel settore finanziario è degli inglesi. Gli altri paesi hanno le grandi imprese che entrano e fanno da traino per le piccole e medie, e governi che sono attivi nel promuovere l’industria nazionale. In Italia finora sono mancati entrambi questi attori. L’Italia ha per molto tempo privilegiato operazioni di import-export, prestando minore attenzione all’insediamento produttivo e commerciale e ai problemi connessi al finanziamento di queste attività. La penetrazione italiana nel mercato cinese è anche resa difficile dalle minori dimensioni delle imprese italiane (il 75% degli investimenti italiani in Cina è riconducibile alle imprese maggiori). In Cina è più facile produrre ed esportare (i due terzi delle esportazioni cinesi sono compiute da imprese estere in Cina) che non produrre e vendere sul mercato interno, ma solo così la presenza in Cina diventa significativa. Ma per produrre sul mercato interno ci vogliono anche forti investimenti commerciali, che le piccole imprese hanno difficoltà a compiere. Dal 2004 si è registrata, stando all’ICE, una maggiore attenzione per l’insediamento produttivo e distributivo in Cina delle imprese italiane (nel 2005 gli investimenti diretti sono stati di 322 milioni di dollari su un totale cumulato nel tempo di 2.547 milioni, il 13% in un anno). Le imprese italiane stanno mostrando consapevolezza del fatto che la Cina è un mercato interessante non solo per il «made in Italy», ma anche per il «made by Italy» e il «designed by Italy». Si aprono buone prospettive per settori quali tecnologie meccaniche e beni strumentali (che costituiscono ancora la porzione maggiore dell’export italiano in Cina), moda, casa-abitazione, agroalimentare, energia-ambiente e grandi lavori infrastrutturali. In molti settori la penetrazione di lungo termine deve includere la produzione e distribuzione in loco dei beni. I settori degli investimenti italiani in Cina che hanno un futuro sono: nuove tecnologie, ambiente, lavorazione ed estrazione del petrolio e del metano, agroalimentare, chimica, biofarmaceutica e mezzi di trasporto. In Cina il settore dei servizi è ancora poco sviluppato e chiuso agli investimenti esteri. I servizi postali, i trasporti, le telecomunicazioni, l’energia sono sotto il controllo statale e in parte lo è la stessa distribuzione commerciale sebbene liberalizzata e sebbene nella grande distribuzione sia possibile creare società a capitale totalmente straniero. Nel settore bancario sono presenti numerose limitazioni, mentre nel settore assicurativo c’è maggiore libertà di entrata (sebbene in joint venture con capitale cinese) ed è presente un notevole dinamismo del quale ha approfittato Assicurazioni Generali, che è diventata leader tra le società straniere. Non va infine dimenticato che una delle caratteristica della recente globalizzazione consiste nell’assistere a flussi di capitale finanziario e industriale sia verso, sia dai paesi emergenti e la Cina è un esempio rilevante in questo senso. Gli investimenti in uscita dalla Cina sono in forte crescita e sarebbe proficuo per l’economia italiana che si indirizzassero maggiormente verso il nostro paese. Finora sono solo 55 milioni di dollari, ma 21 di questi si riferiscono al solo 2005. L’esempio che il presidente del consiglio Prodi è solito fare è quello dei porti italiani: la Cina potrebbe essere interessata all’investimento in questo settore, qualora si ponesse l’obiettivo di ridurre i costi di trasporto delle merci dirette in Europa, che approderebbero così in porti più vicini alla Cina di quelli del Nord Europa. Su questo terreno si può consolidare il rapporto Italia-Cina. Puntare i riflettori solamente sul problema dei «falsi», si può dire che sia, con facile bisticcio di parole, un falso problema. Ciò non significa che l’industria del falso non vada contrastata; è ovvio che lo debba essere, tuttavia a mio parere è un problema minore, non ultima ragione la considerazione che l’oggetto «falso» è stato una divertente novità, ma che diventerà, probabilmente, obsoleto (non la singola merce copiata, ma l’oggetto falso in sé) e riguarderà un mercato che non è destinato ad espandersi. Bisognerebbe preoccuparsi molto di più della penetrazione nei nostri mercati delle merci cinesi tecnologicamente più avanzate, a meno che sia accompagnata da investimenti di capitali in quei settori. Le recenti missioni italiane, soprattutto quella di Prodi del settembre scorso, hanno cercato di colmare il ritardo del sistema Italia nei confronti della Cina, presentando un sistema paese in grado di mostrare punti di eccellenza nel sistema industriale, impegno crescente nel settore finanziario e volontà di collaborazione nel settore scientifico. È importante fugare la paura della Cina e affermare invece il principio che vede nell’integrazione internazionale un’occasione di crescita per entrambi i paesi.