L’inverno dello scontento arabo: perché proprio ora cadono i regimi autocratici?

Di Renzo Guolo Lunedì 28 Marzo 2011 16:04 Stampa

Non è possibile individuare un singolo elemento che da solo possa spiegare le ragioni dell’ondata rivoluzionaria che sta investendo il Nord Africa. | di Renzo Guolo

 

Perché proprio ora, quando pochi lo ritenevano possibile, cadono regimi come quelli di Ben Ali e Mubarak, e quello di Gheddafi è alle strette? Com’è possibile che leader ritenuti inamovibili siano stati messi alle corde da una piazza araba sempre derisa, considerata per varie ragioni incapace di ribellarsi? E, soprattutto, com’è possibile che il crollo non sia stato previsto e non si sia compreso il ruolo dei nuovi attori sociali che hanno animato le rivolte, non ancora divenute vere rivoluzioni, in questo tumultuoso inverno dello scontento arabo? Protagonisti non sono stati, infatti, gli attori tradizionali della scena politica, come i vecchi partiti di sinistra, socialisti o della sinistra nasseriana, né i movimenti islamisti o quelli neotradizionalisti di filiera come i Fratelli musulmani, né tantomeno quelli radicali legati ad al Qaida, sconfitti da rivolte che non utilizzano le loro parole d’ordine, ma che hanno abbattuto quelli che gli jihadisti chiamano “regimi empi”. L’anima delle rivolte sono soggetti apparentemente “impolitici” come i giovani, occupati più a fare i blogger che i militanti classici, a frequentare i social network e ad ascoltare musica etnica contaminata dal rock, piuttosto che riunioni clandestine di partiti disciolti o le moschee. Giovani che, a lungo e inutilmente, hanno bussato alle porte di una modernità sempre immaginata e costantemente negata; che chiedono lavoro, libertà e dignità, più che lo Stato islamico o il ritorno a vecchie ideologie come quelle nazionaliste declinate con l’arabismo, che hanno perso legittimità dopo la guerra dei sei giorni.

Un mutamento, quello della Rivoluzione dei gelsomini tunisina e di quella egiziana di piazza Tahrir, indotto innanzitutto dalla rivoluzione demografica (i giovani sotto i trent’anni sono la maggioranza in molti paesi islamici); dalla diffusione dell’istruzione e dalle aspettative tradite (il ragazzo che immolandosi nelle fiamme ha fatto scoppiare la scintilla tunisina era un laureato che per campare faceva l’ambulante); dalla potenza comunicativa della rete, che consente di far circolare materiale o lanciare appelli non solo ai fondamentalisti ma anche a quanti hanno la fortuna di non subire quel digital divide che allarga il fossato tra locali e globalizzati; da TV come Al Jazeera, in particolare, e Al Arabiya, che hanno permesso, sia pure in maniera non disinteressata, la formazione di un’opinione pubblica non eterodiretta dai governi, informata su quanto avveniva non solo nel proprio paese, ma anche in quelli vicini. Uno sguardo che, mettendo fuori gioco il megafono delle televisioni di Stato, punite dalla diserzione di massa di telespettatori ormai disincantati, ha messo fine alle pompose e retoriche rappresentazioni ufficiali di regime e minato la solidità del consenso manipolato.

Attori, dunque, non tradizionali, invisibili sino a poco tempo fa persino agli occhiuti apparati da “Stato di polizia” di quei regimi, oltre che a un Occidente pigro e cinico, che ha continuato a utilizzare strumenti e categorie concettuali che non permettono più di comprendere quanto avviene in paesi comunque investiti dall’impatto della globalizzazione. L’abitudinario sguardo occidentale sulle dinamiche di potere dei regimi e sulla loro politica estera, che rimuoveva dal proprio campo visivo le trasformazioni sociali in corso, ha così impedito di scorgere quanto stava maturando.

Ma quali sono i fattori che hanno scatenato le rivolte? La massa critica necessaria non si sarebbe formata se alle aspirazioni a una maggiore libertà non si fossero sommate l’aspettativa di elevare il proprio status dei giovani istruiti e l’insofferenza verso le politiche neopatrimonialistiche e clientelari dei leader al potere. Oltre agli effetti economici della recessione globale, che ha impedito, nel caso egiziano in particolare, che aumentassero gli introiti derivanti dal “costo della pace” con Israele e dalle azioni di “contenimento dell’Islam politico”, prima e dopo l’11 settembre: missione, quest’ultima, comune anche alla Tunisia e che ha consentito al Cairo di incassare ingenti aiuti finanziari. Nell’arco di oltre trent’anni gli Stati Uniti hanno concesso all’Egitto “aiuti allo sviluppo” per ventotto milioni di miliardi di dollari, e quasi cinquanta milioni di miliardi sotto forma di aiuti militari. Quando la recessione ha impedito che quegli aiuti crescessero e il prezzo mondiale delle derrate alimentari è salito alle stelle, mettendo in crisi i meccanismi delle sovvenzioni pubbliche che consentivano di calmierare i prezzi dei beni di prima necessità, l’insoddisfazione per una distribuzione della ricchezza incapace di generare crescita e minata dalla corruzione è esplosa. Le richieste di libertà e dignità si sono così saldate a quelle per il pane, alimentando la protesta.

In Libia, si sono sommate invece tradizionali rotture locali, come quella centro-periferia, articolata sullo storico conflitto tra Tripolitania e Cirenaica, regione, quest’ultima, sempre penalizzata nella distribuzione del reddito e del potere a causa della sua avversità verso il regime; o come quelle tribali, in una società ancora articolata secondo linee tradizionali e in un contesto in cui Gheddafi ha sempre cercato di mettere l’una o l’altra tribù in competizione tra loro per l’accesso privilegiato alle risorse in modo da impedire che si saldasse un fronte ostile al suo potere.

Decisiva è stata, in ogni realtà, la rottura del tabù politico, vero e proprio elemento fondante la costituzione materiale dei paesi arabi, secondo cui il potere è legittimo per il solo fatto di essere tale. Una dottrina politica basata sulla tradizione coranica secondo cui la fitna è peggio dell’uccidere: interpretazione che legge il conflitto, e la guerra civile che ne può derivare, come il peggiore dei mali, perché spezza l’unanimismo e l’olismo comunitari basati sulla condivisione della medesima fede. Questa teoria della legittimazione ha dato vita a un quietismo politico che, sia pure sottoposto a tensioni nei momenti acuti di crisi, trionfa sin dall’età medievale. Principio, naturalmente, invocato solo quando il nuovo potere è consolidato, non certo quando è in fase di “Stato nascente” all’opposizione.

La messa in discussione di tale principio, almeno nel caso tunisino e in quello egiziano, non attraverso la logica della forza, accettata da sempre come mezzo di conquista e gestione del potere, ha spiazzato i regimi autocratici. La caduta degli autocrati non è frutto di colpi di Stato, sebbene soprattutto nel caso egiziano sia evidente il ruolo giocato dalle forze armate, né dell’eliminazione politica della leadership da parte di avanguardie rivoluzionarie, modalità che si inseriscono nella tradizione della forza e legittimano la successiva risposta cruenta da parte del vincitore, bensì di una mobilitazione decisa ma pacifica, contro la quale non funzionano né la repressione violenta né le offerte trasformistiche di scambio politico. La presenza di un particolare conflitto come quello centro-periferia, oltre che il profilo personale di Gheddafi, ha invece depotenziato questa modalità di transizione in Libia.

Non va poi sottovalutato il cambiamento della politica statunitense nei confronti del mondo islamico. Sin dal suo insediamento, l’Amministrazione Obama ha ribadito che le decisioni sul tipo di regime competono ai popoli dei singoli Stati e che l’America non si metterà mai contro le popolazioni che invocano la fine di regimi autoritari. Il discorso di Obama al Cairo ha avuto una profonda influenza tra le generazioni più giovani, tra le quali pesa meno il classico catalizzatore unanimista dei regimi arabi attorno al conflitto israelo-palestinese. Quel conflitto è stato, per oltre mezzo secolo, lo strumento che le autocrazie arabe hanno usato per calamitare l’attenzione e la rabbia della società verso l’esterno. Il venir meno del sentimento di unità araba, le appartenenze consolidate nel tempo agli Stati nazionali o a comunità transnazionali non tradizionali, il sentirsi parte dei flussi globali hanno ridisegnato, anche se non certo fatto scomparire, l’ostilità verso Israele da parte dei più giovani. Tale sentimento non basta più a giustificare la mancanza di libertà, le inefficienze burocratiche, l’istruzione ancora limitata, la disoccupazione, la redistribuzione clientelare delle risorse, la corruzione. “Cambiamento nonostante Israele”, sembra essere il leitmotiv delle nuove generazioni.

L’atteggiamento di Obama, con l’ultimatum a Mubarak e a Gheddafi, sollecitati a lasciare il potere, ha confermato ai giovani arabi un’immagine diversa degli Stati Uniti. Non certo indenne da critiche, soprattutto in relazione al conflitto in Afghanistan, ma sicuramente meno ostile rispetto ai tempi dell’esportazione manu militari della democrazia teorizzata da Bush. Dopo un primo riflesso condizionato, legato alla dimensione degli interessi geopolitici in gioco, nella crisi nordafricana Washington è stata conseguente, mettendo gli “impolitici” protagonisti delle rivolte tunisina ed egiziana nella condizione di contare sulla “non comprensione” americana per un’eventuale Tienanmen araba.

Nonostante questo, le transizioni non saranno affatto facili. I giovani protagonisti delle rivolte non sanno o non possono ancora esprimere un ruolo dirigente. Hanno rovesciato i vertici delle vecchie strutture di potere ma non sanno ancora bene come sostituirle: dilemma comprensibile in un contesto in cui l’esperienza politica è stata per lungo tempo memoria di prigionieri e clandestini, che però consegna il futuro ad attori meglio organizzati, laici o islamisti che siano. Inoltre la continuità delle strutture di potere dei regimi, riprodotta in un arco temporale assai lungo, rappresenta un nocciolo duro da scalfire. Comunque vada, il tempo delle autocrazie arabe così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi sessant’anni volge al termine. Anche fuori dal Nord Africa. Le rivolte segnano la fine del breve Novecento arabo. Anche se, in ragione dei fattori di conservazione e resistenza interna e dei vincoli di politica internazionale, non è detto che sfocino necessariamente nella nascita di vere democrazie, quanto piuttosto in una sorta di democrazie illiberali. Molto dipenderà anche dall’atteggiamento che l’Occidente terrà in questo crinale della storia.