La political economy delle liberalizzazioni

Di Andrea Pezzoli Venerdì 29 Febbraio 2008 20:37 Stampa
La politica della concorrenza è anche e soprattutto uno sforzo di persuasione. La scarsa percezione dei benefici (in effetti spesso differiti nel tempo e di portata contenuta per il singolo cittadino, ma assai rilevanti per il sistema economico nel suo complesso, soprattutto se apprezzati in una prospettiva dinamica) e la voce flebile e non organizzata dei consumatori rendono inevitabilmente più assordanti ed efficaci le proteste (voci decisamente organizzate) delle categorie direttamente interessate dagli interventi di liberalizzazione. In altre parole, quando si affronta il problema delle liberalizzazioni, quasi inevitabilmente sono i costi sopportati dalle categorie che vengono esposte alla concorrenza che saltano agli occhi, assai meno i benefici derivanti dall’apertura dei mercati, sia che si tratti dei benefici direttamente percepiti dai consumatori e dagli utenti ovvero della maggior competitività del sistema economico e dunque delle maggiori possibilità di crescita. I costi sopportati nel breve termine da alcune specifiche categorie produttive tendono ad offuscare gli effetti positivi sul benessere collettivo.

Non c’è bisogno di scomodare Hirschman La politica della concorrenza è anche e soprattutto uno sforzo di persuasione. La scarsa percezione dei benefici (in effetti spesso differiti nel tempo e di portata contenuta per il singolo cittadino, ma assai rilevanti per il sistema economico nel suo complesso, soprattutto se apprezzati in una prospettiva dinamica) e la voce flebile e non organizzata dei consumatori rendono inevitabilmente più assordanti ed efficaci le proteste (voci decisamente organizzate) delle categorie direttamente interessate dagli interventi di liberalizzazione. In altre parole, quando si affronta il problema delle liberalizzazioni, quasi inevitabilmente sono i costi sopportati dalle categorie che vengono esposte alla concorrenza che saltano agli occhi, assai meno i benefici derivanti dall’apertura dei mercati, sia che si tratti dei benefici direttamente percepiti dai consumatori e dagli utenti ovvero della maggior competitività del sistema economico e dunque delle maggiori possibilità di crescita. I costi sopportati nel breve termine da alcune specifiche categorie produttive tendono ad offuscare gli effetti positivi sul benessere collettivo.

È ancora più complesso percepire correttamente i benefici delle liberalizzazioni quando gli interessi colpiti riguardano non solo gli extraprofitti del monopolista (energia, telecomunicazioni), ma piuttosto le rendite (più o meno piccole) diffuse su una pletora di soggetti (le migliaia di professionisti, i 5.000 tassisti romani, le 16.000 farmacie, la miriade di piccoli esercizi commerciali, gli oltre 20.000 benzinai) e spesso utilizzate a copertura di inefficienze e arretratezze. In alcuni casi, poi, la natu ra mista di rentier e lavoratore può rendere le cose ancor più complicate.

Una cosa è che le liberalizzazioni vengano percepite come l’erosione delle rendite dei grandi monopoli, un’altra è che possano essere lette come l’erosione di microprivilegi o diritti acquisiti di soggetti che agli occhi del grande pubblico non hanno neanche natura di imprese. Decisamente più problematica, infine, è l’introduzione della concorrenza in quei settori dove l’ex monopolista, più o meno consapevolmente, più o meno spontaneamente, ha ripartito con sensibilità consociativa almeno parte della sua rendita, distribuendola in forma di alti stipendi al management, di alti salari ai dipendenti, di posti di lavoro sovrabbondanti, ovvero di generose remunerazioni per i fornitori.

Non c’è bisogno di scomodare Hirschman per capire che in quest’ultimo caso le riforme pro-concorrenziali diventano ancora più difficili. Quanto detto vale per tutti e, in particolare, per quelle coalizioni di governo che si troveranno a dover toccare anche gli interessi di categorie che storicamente fanno parte del loro elettorato.

A chi giovano le liberalizzazioni? È importante pertanto avere chiaro a chi giovino le liberalizzazioni per potere superare le resistenze, nobili e meno nobili, all’apertura dei mercati. Anche per poter distinguere le misure di cui beneficiano solo i consumatori finali da quelle che hanno un impatto anche sui consumatori intermedi, ovvero le imprese che acquistano gli input sul mercato, dunque sulla competitività dei settori esposti alla concorrenza internazionale e, in ultima analisi, sullo sviluppo.1 A mero titolo di esempio, può essere utile ricordare che i costi direttamente o indirettamente riconducibili ai servizi professionali incidono sui costi totali per unità di output dei settori esportatori per circa l’8%, a fronte del 3% rispettivamente di energia, gas e dei servizi finanziari.2 C’è un legame forte tra concorrenza e competitività del sistema economico che va valorizzato per almeno tre ragioni. La prima riguarda l’effetto sistemico delle liberalizzazioni. Per poter almeno in parte compensare il costo che uno specifico settore sopporta in termini di minori extraprofitti, le liberalizzazioni devono essere realizzate ad ampio raggio. Solo così i benefici derivanti dai minori costi degli input acquisiti (anch’essi beni e servizi interessati dalla liberalizzazione) potranno bilanciare l’erosione delle rendite. Di questa esigenza entrambi i cosiddetti «pacchetti Bersani» sembrano consapevoli, almeno sotto il profilo retorico. Come è stato giustamente sottolineato, il puzzle non è privo di logica ma va completato.3 In particolare portando a compimento i processi di liberalizzazione nei servizi a rete dove gli incumbent ex monopolisti continuano a mantenere un elevato potere di mercato grazie soprattutto al controllo che tuttora esercitano sulle infrastrutture.

La seconda ragione sta nel fatto che se la concorrenza non avvantaggiasse solo i consumatori finali ma anche i consumatori intermedi, questa consapevolezza potrebbe (una volta superate le contraddizioni «interne » al sistema di rappresentanza delle imprese) dare voce ad una categoria assai più organizzata e rumorosa dei consumatori. La terza ragione è che il legame forte tra liberalizzazioni e competitività aiuta a chiarire anche i rapporti tra tutela della concorrenza e tutela del consumatore.4 Se la concorrenza aumenta, il consumatore ne trae senz’altro beneficio in termini di prezzi più bassi, migliore qualità, più ampia possibilità di scelta. Non è tuttavia sempre vero il contrario. I recenti interventi volti ad abolire il costo di ricarica per la telefonia mobile e le commissioni bancarie di massimo scoperto o per l’estinzione anticipata dei mutui mostrano chiaramente come misure percepite molto favorevolmente dai consumatori non comportino automaticamente un aumento della concorrenza. Più direttamente, nella centralità del consumatore c’è una componente demagogica che, se può essere utile per far percepire ai consumatori le potenzialità delle liberalizzazioni, non produce benefici permanenti e, anzi, rischia di ingenerare confusione tra interventi di regolazione e concorrenza.

Le ragioni delle resistenze È importante, altresì, individuare le ragioni alla base delle resistenze per poter delineare le politiche pubbliche di «accompagnamento » alle liberalizzazioni. Il mercato è una costruzione umana e l’intervento pubblico non ha necessariamente un valenza distorsiva della concorrenza. In alcuni casi, anzi, può agevolarne la promozione o, addirittura, essere indispensabile per la sua effettiva introduzione. Proviamo a identificare le categorie che maggiormente «resistono» all’introduzione della concorrenza e le loro ragioni. Chi occorre persuadere? E come?5

Innanzitutto vi sono gli ex monopolisti, perchè le liberalizzazioni minacciano i loro extraprofitti, la loro «vita tranquilla»6 e, se l’azionista è pubblico, sollevano anche problemi di finanza pubblica sia nella prospettiva di una possibile privatizzazione sia mettendo a repentaglio una comoda fonte di finanziamento degli investimenti.

Di fronte a questo tipo di resistenze appare difficile immaginare argomenti persuasivi. Ci si può chiedere al più se la liberalizzazione abbia un impatto troppo pesante sulle legittime aspettative degli investitori privati e, eventualmente, immaginare un’introduzione graduale delle riforme. In qualche caso si possono prevedere forme di «compensazione» volte ad attenuare i costi sostenuti dai percettori della rendita. Si pensi, ad esempio, alle misure volte ad attenuare la perdita in conto capitale che potrebbero sopportare i tassisti a seguito di un aumento del numero delle licenze. Lo stesso decreto Bersani, nella sua prima versione, prevedeva la vendita delle nuove licenze e la destinazione dell’80% dei proventi ai tassisti titolari di una sola licenza. Quando poi il problema non è il monopolio, ma la condotta tacitamente collusiva di strutture industriali disperse, si possono immaginare provvedimenti volti a destabilizzare l’equilibrio collusivo. In questo senso costituiscono un interessante esempio le reazioni dei farmacisti ai suggerimenti dell’Autorità antitrust in materia di liberalizzazione degli orari.7 Dopo una reazione negativa compatta alla possibilità per esercizi diversi dalle farmacie (grande distribuzione, parafarmacie e sanitarie) di distribuire farmaci senza obbligo di prescrizione, la corporazione ha iniziato a perdere compattezza quando è stata delineata la possibilità di introdurre una maggiore flessibilità negli orari di apertura che, facendo salva l’esigenza di garantire orari minimi (e non massimi, come prevedono gran parte delle normative regionali), consentisse alle farmacie una «parità delle armi» nella competizione con i nuovi entranti e, in particolare, con la grande distribuzione.

Quando, infine, gli azionisti di controllo delle imprese coinvolte nel processo di liberalizzazione sono amministrazioni pubbliche, centrali o periferiche, l’apertura alla concorrenza può determinare indubbi problemi per la finanza pubblica, anche se – è opportuno ricordarlo – le conseguenze possono essere assai differenziate sotto il profilo settoriale. Se nel caso dell’energia e del gas né il ministero dell’economia né le amministrazioni locali vedono di buon occhio l’erosione delle rendite delle loro controllate, nel caso dei trasporti, invece, i recuperi di efficienza raggiungibili attraverso la liberalizzazione potrebbero tradursi anche in un contenimento delle risorse pubbliche destinate al settore.

In secondo luogo, l’introduzione della concorrenza in settori caratterizzati da una struttura produttiva inefficiente, la cui rendita monopoli- stica è stata stabilmente ridistribuita sotto forma di eccessi occupazionali e retributivi, deve confrontarsi con le resistenze delle organizzazioni sindacali. Pur risultando ingenerosa una rappresentazione delle organizzazioni sindacali come soggetti pregiudizialmente contrari alle liberalizzazioni, appare tuttavia innegabile che in questi casi il loro atteggiamento difficilmente riesce ad andare al di là della mera difesa dello status quo. In alcuni settori l’apertura alla concorrenza costituisce una minaccia per i livelli occupazionali e talvolta anche per quelli retributivi. È una minaccia decisamente seria nel settore dei trasporti e in larga parte dei servizi locali; assai meno in un altro comparto, la distribuzione commerciale, per il quale spesso si paventa la scomparsa – insieme al ridimensionamento del commercio tradizionale – di migliaia di posti di lavoro, e lo è ancora meno nei settori energetici, nei quali appare decisamente più contenuta la quota di rendita monopolistica «distribuita» al fattore lavoro. Si tratta in ogni caso di eventi traumatici che, anche a voler prescindere da considerazioni di equità, non è pensabile possano essere sopportati solo dai diretti interessati. Non fosse altro per l’elevato potere di veto di cui molti di questi soggetti dispongono. In questa prospettiva appare lecito parlare della necessità di un vero e proprio «welfare per la concorrenza» che estenda ai lavoratori attivi nei settori coinvolti nei processi di liberalizzazioni gli ammortizzatori sociali attualmente operanti negli altri settori economici (Cassa integrazione guadagni, mobilità lunga e, laddove possibile, prepensionamenti).8 Oggi, ad esempio, nel settore dei trasporti, solo il trasporto aereo può contare, a seguito della crisi della compagnia di bandiera, su un sistema di ammortizzatori sociali. Negli altri settori oggetto delle liberalizzazioni – in particolare laddove la concorrenza può essere introdotta solo attraverso le gare – continua a prevalere, invece, la logica delle cosiddette «clausole sociali »,9 provvedimenti che, per farsi carico delle ricadute occupazionali derivanti dal ricorso alle gare, finiscono per vanificarne la portata concorrenziale e sterilizzarne i benefici in termini di efficienza, finendo per selezionare non già l’impresa più efficiente, ma piuttosto quella più disponibile a mantenere lo status quo.

In terzo luogo, tra i paladini degli assetti di mercato esistenti si trovano le amministrazioni pubbliche, locali e non. Non solo per le ragioni di finanza pubblica brevemente illustrate in precedenza, ma anche, e forse soprattutto, per il timore della classe politica di dover fare quel «passo indietro» richiesto dall’introduzione della concorrenza e dalle eventuali privatizzazioni. Una classe politica riluttante a svolgere solo il ruolo di regolatore invece che di gestore e/o di proprietario e a pagare il costo politico associato all’introduzione della concorrenza. Esemplificativi in questo senso sono gli ostacoli incontrati dalla liberalizzazione del commercio nei diversi ambiti regionali a seguito delle interpretazioni a dir poco restrittive della riforma,10 nonché le resistenze opposte all’introduzione della gara come regola nei servizi pubblici locali.11

Resistenze del tutto analoghe a quelle per cui, a fronte di un’ormai condivisa esigenza di sciogliere l’«intreccio incestuoso» che nei servizi locali caratterizza i rapporti tra regolatore (futuro banditore della gara) e gestore dei servizi (futuro partecipante alla gara), si fatica ad affrontare il nodo delle privatizzazioni insieme a quello delle liberalizzazioni.

Un sistema di incentivi volto a premiare le amministrazioni locali che privilegiano lo strumento della gara rispetto alle altre modalità di gestione può aiutare a persuadere i soggetti più riottosi. Esso presenta tuttavia più di una difficoltà tecnica (come distinguere le gare «vere» da quelle «false»?) e il rischio di non tener conto adeguatamente delle obiezioni alla «gara come regola».12 Da ultimo, va detto che a volte sono gli stessi potenziali beneficiari delle liberalizzazioni a resistere: difficile superare il favor per lo status quo, alimentato anche da timori relativi alle ricadute sul «contenuto di socialità » dei servizi. Sull’altare di simili preoccupazioni, non solo di natura ideologica, ma comunque emotivamente efficaci, i ripetuti tentativi di riforma dei servizi pubblici locali hanno sacrificato i servizi idrici. L’acqua può anche avere una sua specificità (Thousands of people have lived without love, none without water scriveva Wystan H. Auden) ma lo scetticismo su una possibile convivenza tra obblighi di servizio pubblico e concorrenza si ritrova anche quando si parla di trasporto locale, energia o rifiuti. Difficile convincere che il tasso di socialità di un servizio pubblico dipende dalla sua definizione e non dalla modalità di gestione ovvero dalla natura proprietaria dell’impresa che lo eroga. A tal fine un ruolo importante può essere svolto dalla diffusione di informazioni sui benefici delle liberalizzazioni (possibilmente corredate da esempi concreti), ma anche sui costi delle non-liberalizzazioni.

Alcune considerazioni sull’equivoco delle «riforme senza costi» e sul ruolo delle Autorità Difficilmente le resistenze alle liberalizzazioni potranno essere completamente eliminate. Un intervento pubblico sensibile alle ragioni della concorrenza può tuttavia attenuarle significativamente, sia mirando ad attutire i costi sociali sopportati nel breve termine dalle categorie interessate sia rendendo le liberalizzazioni politicamente più appetibili per le amministrazioni locali «riottose». Ma quel che più preme sottolineare è che senza opportune misure di accompagnamento, in molti casi, l’apertura alla concorrenza non diventa solo più complessa, rischia più semplicemente di diventare inattuabi- le. In questo senso appare lecito nutrire un qualche scetticismo nei confronti di quelle agende che, magari per renderle politicamente più appetibili, semplicisticamente presentano le liberalizzazioni come «riforme senza costi». E, invece, la retorica delle «riforme senza costi» può annoverare tra le sue principali vittime proprio le liberalizzazioni. Fortunatamente una qualche consapevolezza di questo rischio si inizia a cogliere anche nella dialettica interna all’attuale governo, in particolare quando si affronta il tema dei servizi locali o dei trasporti.

Anche il completamento dello sforzo iniziato con i due pacchetti Bersani e l’ampliamento degli interventi di liberalizzazione a settori ad oggi non ancora interessati può contribuire a fiaccare le resistenze. Da un lato si renderebbero meno efficaci gli argomenti di chi si nasconde dietro allo scudo del «non nel mio cortile» (la distribuzione tradizionale che si lamenta del potere di mercato della grande distribuzione, la distribuzione commerciale nel suo complesso che evidenza i costi sopportati per l’assenza di concorrenza nel settore dei trasporti e dell’energia, i molti che segnalano le inefficienze dei servizi finanziari e di quelli professionali). I costi sopportati come produttore sarebbero, inoltre, almeno parzialmente compensati dai benefici ottenuti in qualità di consumatore di servizi. Dall’altro si affronterebbero i nodi concorrenziali di quei settori il cui impatto sulla competitività e la crescita è maggiore.

Non va tuttavia trascurato che anche nella sua incompletezza la politica di liberalizzazione sin qui realizzata ha un indubbio valore segnaletico. Con tutti i suoi limiti fa parte a pieno titolo di quello sforzo dal quale non si può prescindere per persuadere i cittadini dei benefici della concorrenza e dei costi delle non-liberalizzazioni. Quel difficile passaggio per cui, cercando di non confondere la concorrenza con la difesa del consumatore ottenuta con le scorciatoie regolatorie, vanno mostrati almeno alcuni dei benefici raggiungibili nel breve termine con le liberalizzazioni. Infine, sembra difficile confrontarsi con la forza degli interessi toccati dalle liberalizzazioni senza potenziare il sistema delle Autorità e la loro indipendenza. Vanno in questa direzione sia il progetto di riordino delle Autorità sia i nuovi poteri attribuiti dalla legge 248/2006 all’Autorità garante della concorrenza e del mercato.13 Occorre tuttavia tracciare con chiarezza il confine tra gli interventi di regolazione (inevitabilmente discrezionali ed ex ante) e quelli per l’applicazione del diritto antitrust (volto a massimizzare gli spazi di scelte imprenditoriali autonome nel rispetto delle regole di concorrenza).14 C’è bisogno di entrambi gli strumenti per completare il processo di liberalizzazione, ma occorre non fare confusione. Altrimenti si rischia il paradosso di liberalizzazioni «senza concorrenza» o, più prosaicamente, di liberalizzare con un’Autorità antitrust che finisce per cambiar pelle, vuoi perché sempre più attratta dalla tutela diretta del consumatore, anche quando questa passa per scorciatoie regolamentari, vuoi perché pragmaticamente «insensibile» ai problemi della deterrenza di lungo periodo e più attenta all’impatto delle decisioni nel breve. È stato detto che nell’applicazione della legge antitrust l’Autorità è sempre meno giudice e sempre più regolatore.15 Si tratta di una valutazione forse eccessiva, ma che prefigura una tendenza anch’essa spiegabile in termini di political economy: la politica recepisce larga parte dei suggerimenti a lungo inascoltati dell’Autorità (ed è una buona notizia), ma invece di fare «un passo indietro» per lasciare spazio alla sua tradizionale funzione di garanzia finisce per estenderne le funzioni di regolazione e per concepire le liberalizzazioni come un’occasione per fare un «passo avanti». È un passaggio obbligato in un paese con una sensibilità concorrenziale debole o l’ennesima anomalia italiana?16

[1] Cfr. Autorità garante della concorrenza e del mercato, Relazione annuale sull’attività svolta, Roma 2003; Autorità garante della concorrenza e del mercato, Relazione annuale sull’attività svolta, Roma 2004; E. Allegra, M. Forni, M. Grillo, L. Magnani, Antitrust policy and national growth. Some evidence from Italy, in «Giornale degli economisti e annali di economia», 63/2004, pp. 69-86; R. Faini et al., Structural Reforms without Prejudices, Oxford University Press, Oxford 2004.

[2] Cfr. E. Allegra, L. Magnani, I costi della regolamentazione delle professioni, in «Analisi Giuridica dell’Economia», 1/2005, pp. 1-12.

[3] M. Polo e C. Scarpa, Bersani 2: anche i puzzle hanno una logica, disponibile su www.lavoce.info.

[4] G. Nardozzi, Quel puzzle da ultimare per spingere sulla crescita, in «Il Corriere della Sera», 2 febbraio 2007.

[5] Cfr. L. Berti e A. Pezzoli, I servizi tra rendita e liberalizzazioni, in R. Costi e M. Messori (a cura di), Per lo sviluppo. Un capitalismo senza rendite e con capitale, Il Mulino, Bologna 2005; C. Scarpa, A. Boitani, P. M. Panteghini, L. Pellegrini, M. Ponti, Come far ripartire le liberalizzazioni nei servizi, in T. Boeri et al., Oltre il declino, Il Mulino, Bologna 2005.

[6] Cfr. J. Hicks, The theory of monopoly, in «Econometrica», 1939.

[7] Cfr. Autorità garante della concorrenza e del mercato, Vincoli relativi all’orario di apertura degli esercizi farmaceutici, AS381, Roma 2007.

[8] Cfr. Berti e Pezzoli, op. cit.; Scarpa, Boitani, Panteghini, Pellegrini, Ponti, op. cit.

[9] Si tratta delle clausole per cui il soggetto aggiudicatario della gara si impegna a mantenere inalterati i livelli occupazionali e retributivi, riducendo di molto l’ambito del confronto competitivo.

[10] Per un tentativo di stima delle potenzialità della liberalizzazione del commercio cfr. Autorità garante della concorrenza e del mercato, Qualità della regolazione e performance economiche a livello regionale: il caso della distribuzione commerciale in Italia, Roma 2007.

[11] In quest’ultimo caso il favore accordato dalle amministrazioni locali agli affidamenti in house trae evidentemente origine dall’esigenza di mantenere un più stringente controllo politico e una più elevata discrezionalità, piuttosto che dalle considerazioni di efficienza per le quali in genere si opta per l’autoproduzione invece che per l’esternalizzazione del servizio.

[12] In particolare delle obiezioni relative ai problemi derivanti da un affidamento non facilmente modificabile in un contesto di incertezza sull’evoluzione della domanda, dei costi e delle tecnologie.

[13] L’art. 14 della legge consente all’Autorità di adottare misure cautelari, accettare impegni dalle parti chiudendo il procedimento senza accertare la violazione, applicare programmi di clemenza.

[14] Cfr. M. Grillo, Liberalizzazione promozione della concorrenza nei settori dei servizi: un’analisi dei provvedimenti contenuteti nel decreto «Bersani» del 4 luglio 2006 n. 223, in «Economia e politica industriale », in corso di pubblicazione.

[15] Cfr. M. Polo, Antitrust da giudice a regolatore, in «Il Sole 24 ore», 7 febbraio 2007.

[16] Le opinioni qui espresse impegnano esclusivamente l'autore e in alcun modo l'Autorità garante della concorrenza e del mercato.